Giuseppe Dossetti: un bilancio

Giuseppe Dossetti

Giuseppe Dossetti

.Studi cattolici n.625 marzo 2013

Pier Paolo Saleri

L’occasione del centenario della nascita di Giuseppe Dossetti (Genova 1913 – Olivete di Monteveglio 1996) ha suscitato numerosi scritti, pubblicazioni, eventi e dibattiti. È questa, allora, l’occasione giusta per proporre una riflessione rispettosa, ma puntuale e non di circostanza, come contributo a un bilancio del pensiero e dell’azione di un personaggio che ha profondamente segnato la storia culturale e politica del cattolicesimo italiano dello scorso secolo.

Un’«allucinata» teologia-politica

Pensiero e azione che sebbene ricchi di fascino, di profondità e di incisività presentano anche grandi complessità e contraddizioni. L’intera vita di Dossetti è, infatti, una permanente tensione tra grazia e storia, tra fede e politica, tra impegno temporale e vocazione religiosa. Una tensione che, peraltro, non è esente da frequenti sconfinamenti: Dossetti, infatti, nella sua visione profetica ed escatologica, sovrappone spesso impegno civile e impegno religioso introducendo i parametri della teologia e della profezia nella politica così come quelli della politica nella vita ecclesiale.

Non è certo un caso se De Gasperi, nei primi anni dell’impegno di Dossetti nella Democrazia cristiana, descrisse «la mentalità dossettiana» come «munita di allucinazioni e presunte divinazioni suggestive, oltre che di un calore di sentimento e di una abilità d’espressione e di manovra non comune» (1). Ecco prendere forma e vita la figura del «monaco principe», ossimoro felice di don Gianni Baget Bozzo.

La giustezza di questa intuizione trova, d’altra parte, numerose conferme nelle azioni e nelle parole dello stesso Dossetti: non solo, per esempio, si autocompiace della definizione di «partigiano del Concilio» coniata per lui dal cardinale Suenens, ma interpreta il proprio contributo al Vaticano II alla luce dell’esperienza acquisita nei lavori della Costituente: «Nel momento decisivo proprio la mia esperienza assembleare ha capovolto le sorti del Concilio stesso» (2).

Una vera e propria «invasione di campo» che induce il cardinal Biffi – che come Arcivescovo di Bologna ebbe non poche occasioni di incontro con il «monaco di Monteveglio» — a domandarsi: «Ma com’è possibile — a chi abbia qualche consuetudine di contemplazione della realtà trascendente della Chiesa — confrontare e porre in relazione un’accolta disparata di uomini lasciati alle loro forze, ai loro pensieri terreni, ai loro problemi economici e sociali, alla loro ricerca del difficile equilibrio degli interessi, con la convocazione di tutti i successori degli apostoli, assistita dallo Spirito Santo da essi quotidianamente invocato? […] Ma che tipo di ecclesiologia poteva scaturire da una tale ispirazione e da queste premesse mondane?» (3).

Sembra esservi in Dossetti, come ancora una volta il cardinal Biffi nota, una persistente difficoltà nel percepire l’assoluta eterogeneità degli eventi politici e di quelli ecclesiali: «Nei suoi ultimi giorni non esitò a uscire dal suo ritiro e a rompere il silenzio monastico per salvare la “sua” Costituzione, dicendo di seguire in questo l’esempio di san Saba, l’archimandrita del deserto di Giuda che nel VI secolo abbandonò il suo eremo per difendere l’ortodossia calcedonese e combattere il monofisismo (quasi che nei due casi si trattasse di valori omogenei e paragonabili)» (4).

Dossetti introduce nel cattolicesimo italiano una forte tensione profetica ed escatologica destinata a sconvolgere i suoi equilibri e il suo modo di porsi. Sente, e denuncia con forza, quella che percepisce come l’inadeguatezza e la debolezza del pensiero e della cultura cattolica tradizionale del nostro Paese, da lui giudicata incapace di fronteggiare adeguatamente la crisi della cristianità la cui realtà, anzi, ritiene non riesca neppure a percepire.

Dossetti non è certo un riformista ma un «riformatore», nel significato teologico più radicale del termine, convinto di dover portare la propria «rivoluzione» così nella politica cattolica come nella Chiesa: perché la «riforma-rivoluzione» dell’una non può procedere senza quella dell’altra.

Non è certo un caso che all’inizio degli anni ’50, proprio nel momento in cui la sua corrente «Cronache sociali» stava vincendo all’interno del partito della Dc, abbandoni la politica, in quanto convinto che gli assetti della Chiesa e del mondo cattolico del tempo non consentissero la realizzazione del suo disegno.

Né è un caso che una sorta di «manipolazione ideologica» della Costituzione italiana, prima, e del Concilio Vaticano II, poi, siano divenuti i capisaldi fondamentali del pensiero dossettiano. Radicale riforma dello Stato e della Chiesa erano, infatti, i due principali obiettivi della sua azione; e, tra di loro, strettamente collegati.

Visione dello Stato & comunismo

È sulla riforma dello Stato, che la sua impostazione incrocia la questione del comunismo e segnatamente quella specifica del Pci. Sebbene si possa convenire con Giuseppe Alberigo che Dossetti non sia mai stato «un criptocomunista, un pesce rosso che nuota nell’acqua santa» (5), è, pur tuttavia, fuori discussione la forza e la permanenza del suo stretto legame con il comunismo e soprattutto con il Pci.

Dossetti vedeva, infatti, nel Partito comunista l’unica forza politica in grado di innervare, con il proprio apporto in senso pienamente democratico, popolare e partecipativo, la radicale riforma dello Stato italiano da lui preconizzata: riforma, peraltro, già tutta contenuta in nuce nella «sua» Costituzione, vista come momento più alto e frutto più fecondo della collaborazione tra cattolici e comunisti. Dossetti subisce il fascino della tesi maritainiana del marxismo come «eresia cristiana» assieme a quello del radicamento popolare, della sobrietà bonaria, della disciplina e dell’abnegazione alla causa della classe operaia organizzata nel Pci.

Un esempio di «vita vissuta» che incontra proprio nella sua terra, e che, addirittura, lo spinge a non vedere il volto violento del comunismo che si esprime, con particolare ferocia nell’Emilia dell’immediato Dopoguerra. Dossetti, già nel 1948 – accettando con riluttanza e «per obbedienza» di candidarsi nelle elezioni del 18 aprile che videro la Dc contrapporsi nettamente, in piena guerra fredda, al Fronte popolare egemonizzato dal Pci — scriveva al segretario democristiano Piccioni: «Troppi non sono ancora convinti che l’anticomunismo, giustificato o no, di buona o cattiva fede, quando diviene il motivo dominante di una politica, apre le porte al fascismo (non nei suoi aspetti esteriori, occasionali e decorativi, ma nella sua sostanza più intima e universale)» (6).

Il fascismo diviene per Dossetti una categoria metastatica permanente, per lui «la grande scelta è questa: fascismo o non fascismo» e ben specifica che «non si tratta di fascismo o non fascismo nel senso puramente storico, accidentale, del fascismo rappresentato dagli stivaIoni, dal colore della camicia, dalle singole personalità che l’hanno realizzato» (7). Si tratta del fascismo come «autobiografia» della nazione.

Qui Dossetti incontra e fa proprio, richiamandolo esplicitamente nel testo, il pensiero di Gobetti. Un incontro e una sintonia da non sottovalutare: soprattutto in funzione del persistere del suo atteggiamento di totale supporto al Pci malgrado la sua mutazione genetica che inizia fin dagli anni ’70. Pur senza esser lui mai stato un «criptocomunista», si può sostenere, senz’ombra di dubbio, che tutta l’azione e il pensiero politico di Dossetti si strutturano in funzione di rendere possibile la conquista del potere in Italia da parte del Pci e, poi, dei suoi eredi. È, infatti, profondamente convinto che, senza quell’apporto, non possa esservi, in Italia, altro che il «fascismo perenne». È in questo quadro che va letto anche il suo «ritorno dall’eremo» in difesa della Costituzione all’inizio degli anni ’90.

L’atteggiamento di forte empatia di Dossetti e dei dosseftiani rispetto al ruolo storico «salvifico» del comunismo italiano non si modifica in alcun modo neppure quando diventa evidente il venir meno di quegli stessi presupposti su cui esso si fonda: il che avviene ineluttabilmente con il dilagare egemonico della società radicale.

Scrive, infatti, Baget Bozzo, già negli anni ’70: «Poiché il modello umano del cristianesimo, separato dal riferimento all’ordine soprannaturale, è di fatto il modello etico originario del socialismo, l’influenza del modello individualista sino alle sue ultime conseguenze tende a tagliare in radice i fondamenti dell’uomo comunista. […] È dunque inevitabile il vero “compromesso storico” che non è quello con la Chiesa (che non condiziona sostanzialmente il Pci) ma quello con la società radicale. È probabile che il “compromesso storico” con la Chiesa finisca col diventare sempre meno importante e ceda gradualmente il passo invece a una linea di concessioni alla società radicale, tendente alla marginalizzazione delle istituzioni ecclesiastiche e a una diversa azione pubblica in materia di costume. Del resto su questo punto non si tratterebbe che di adeguare la società italiana a modelli europei» (8).

Baget Bozzo vede chiaramente, e oserei dire profeticamente, la pesante cappa dell’egemonia relativista che comincia a calare, già fin da allora, sul Pci; ma di questo Dossetti sembra non accorgersi o non interessarsi. La sua posizione, rispetto al Pci e ai suoi eredi, resta immutata, impermeabile al cambiamento «genetico» profondo che, soprattutto dagli anni ’90, vede sostituirsi, come supporto di massa del postcomunismo, l’«uomo relativista» all’«uomo comunista».

Lusingato dalla contemporaneità

Si defila, con sapienza da par suo anche rispetto alla questione della difesa di quei valori che oggi definiamo «non negoziabili»: afferma verità inconfutabili che, tuttavia, nella situazione storica concreta, si configurano come un «inoppugnabile alibi per il disimpegno» con l’evidente obiettivo di evitare lo scontro frontale con la sinistra postcomunista.

Dossetti, nel discorso di Pordenone del ’94, asserisce: «L’Italia ha conservato alcuni rottami sino a ora, ma erano rottami non più ben giustificati neppure alla coscienza dei nostri politici, tanto è vero che su alcuni valori supremi, che consideravamo supremi — come il divorzio e l’aborto —, non abbiamo saputo condurre una linea di resistenza a un livello storico e culturale adeguato e siamo stati sconfitti. Come dovevamo esserlo. […] E così oggi sentiamo parlare di altri valori o di altre battaglie, l’omosessualità e così via. Ma chi ci da un pensiero adeguato che possa veramente in maniera nuova e creativa smontare le obiezioni contrarie? Qual è il tipo di nuova cultura che può opporsi a questo? […] I nostri valori devono essere difesi in nome di due cose: di una visione organica, vitale e creativa del cristianesimo di sempre; e in secondo luogo, in nome anche di una nuova cultura veramente adeguata alle scienze umane contemporanee» (9).

Questa posizione è per un verso ineccepibile, per l’altro molto ambigua. È, infatti, indiscutibile che per fronteggiare il relativismo e difendere i valori non negoziabili sia indispensabile «una visione organica, vitale e creativa del cristianesimo di sempre» così come «una nuova cultura veramente adeguata alle scienze umane contemporanee». È, invece, assolutamente inaccettabile che, anche in assenza di tali condizioni, il cristiano possa defilarsi rinunciando alla testimonianza e alla difesa della verità per «opportunità politica» e timore di una sicura sconfitta. Dossetti, nel quadro di questo ragionamento, evoca la figura di san Tommaso d’Aquino che «al risveglio del pensiero aristotelico in Occidente […] lo ha inquadrato in un sistema organico a quell’epoca pienamente adeguato» (19)

È una suggestione molto appropriata e forte e, in qualche modo, mi piace pensare che la Provvidenza l’abbia voluta raccogliere laddove papa Ratzinger, alcuni anni dopo, ha incentrato il suo magistero di nuova evangelizzazione dell’Occidente sul recupero del rapporto tra fede e ragione e ha affermato nella Caritas in Ventate che «la questione sociale è diventata radicalmente questione antropologica».

Note

1) Appunto manoscritto del gennaio 1950, citato in P. Craveri, De Gasperi, II Mulino, Bologna 2006, p. 439.

2) A colloquio con Dossetti e Lazzati. Intervista di Leopoldo Elia e Pietro Scoppola, II Mulino, Bologna 2003, p. 106.

3) Giacomo Biffi, Don Giuseppe Dossetti. Nell’occasione di un centenario, Edizioni Cantagalli, Siena 2012, pp. 48-49

4) Ivi,p. 59.

5) Giuseppe Alberigo, Alberto Melloni, Eugenio Ravignani, Giuseppe Dossetti. Un itinerario spirituale, Istituto Superiore di Scienze Religiose di Portogruaro, Portogruaro 2006, p. 52. Merita ricordare che anche Gianni Baget Bozzo era convinto, come Alberigo, che Dossetti non fosse mai stato un «criptocomunista».

6) Giuseppe Dossetti, Scrìtti politici 1943- 1951, Marietti, Genova 1995, p. 195.

7) La frase è di Dossetti citata in Paolo Pombeni, Giuseppe Dossetti. L’avventura politica di un riformatore cristiano, II Mulino, Bologna 2013.

8) Gianni Baget Bozzo, Il partito cristiano, il comunismo e la società radicale, Vallecchi, Firenze 1976, pp. 42-49.

9) Giuseppe Dossetti, // Vangelo nella storia.  Conversazioni 1993-1995, Edizioni Paoline, Milano 2012, pp. 34-35.

10) Ivi p. 35.

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