Un uomo netto, una fede che fonda la vita. Testimone di un Dio che entra nella storia

marco_TangheroniIl Portico settimanale diocesano dell’arcidiocesi di Cagliari.
Domenica 3 febbraio 2013

Dall’incontro nello studio di un dipartimento al rapporto con la malattia: allievo di Alberto Boscolo, ripeteva che “la Storia si fa con i se e con i ma”e insegnava la vera ricerca

S. N.

Gabriele Colombini, chi era Marco Tangheroni?

Una persona eccezionale, un maestro, ma allo stesso tempo un uomo normale, alla mano. Ricordo il primo incontro con lui: giovane universitario, avevo sbagliato la scelta della facoltà. Dopo un anno e mezzo, avevo deciso di tornare all’umanistico. Lo trovai seduto accanto ad un bidello al dipartimento di Medievistica, dove mi ero recato per recuperare due firme per evitare di partire militare. Me lo ricordo col suo cappello verde da cacciatore e una piuma di fagiano, il poncho e un bastone, barbetta rada e sguardo sornione. Non sapevo chi fosse, ma quando si allontanò, il bidello mi consigliò di parlargli.

E quindi l’incontro nel suo studio.

Sì, in un quarto d’ora mi conquistò. All’inizio mi prese in giro, consigliandomi di tornare a Ingegneria perché laureandomi in Lettere non avrei trovato lavoro. Quell’incontro diede una svolta alla mia vita universitaria.

Emergeva il suo essere cattolico durante le sue lezioni?

Era un grande appassionato di Tolkien, un autore la cui opera è profondamente cattolica, eppure sfido chiunque a trovare un solo riferimento diretto alla religione. Tangheroni era così: un uomo vero, netto, in cui era evidente una fede fondante, che reggeva tutta la vita che conduceva. Una carriera accademica pienissima di impegni, sempre in giro per convegni – premurandosi prima di organizzarsi la dialisi – e una disponibilità eccezionale verso gli studenti: un’apertura e una comprensione autentica, ed un’assoluta dedizione all’insegnamento. Era davvero un maestro.

Cosa la convinse a chiedergli la tesi di laurea?

Fu un fatto naturale, venivo da Ingegneria in cui l’ambiente era molto diverso. Tangheroni, pur essendo una figura autorevole, incoraggiava alla confidenza, si lasciava contattare. La sua simpatia umana mi convinse a continuare gli studi seguendo lui, solo dopo apprezzai le sue doti di storico.

Come nacque il coinvolgimento nella sua passione culturale, al di là dell’università?

Incontrai nei corridoi del dipartimento un amico che doveva dare il mio stesso esame con lui: conosceva Tangheroni tramite Alleanza cattolica. Così ho cominciato anch’io a frequentarlo.

Lui fondò quell’associazione per dire che la fede ha qualcosa da dire in tutti i campi. Che effetto le fece?

Nel proseguo degli studi e nella visione della storia mi ha influenzato molto.

Tangheroni scrisse che “la storia si fa con i se e con i ma”: il contrario di quello che si sente dire…

Già, il contrario di quanto sostiene la storiografia hegeliana, marxista, immanentista. Tangheroni, provocatoriamente, capiva bene cosa intendeva dire Hegel e sosteneva che la storia si fa con i se e con i ma, perché al di là delle sovrastrutture, alla base dei percorsi storici e dell’agire c’è sempre la libertà umana. In tutto: dal coraggio alla codardia, in tutti gli aspetti che per esempio caratterizzano i grandi condottieri. Bisogna considerare tutto, tenendo conto dei tanti fattori in gioco: così l’arte e la cultura non sono solo sovra-strutture, ma tutto contribuisce ad influenzare la componente umana che crea la storia. E’ un aspetto che mi ha colpito e influenzato: mi ci sono ritrovato, era difficile confinarmi in uno schema ideologico.

Cioè?

La scuola degli Annales francesi combatteva la storia cosiddetta “cronologica”, quella dei grandi avvenimenti: il re, il Papa, i grandi principi, la Chiesa e l’impero. La grande storia parte dalla piccola storia: Tangheroni era d’accordissimo, ma invitava a non fermarsi. La grande storia si fa con queste cose, ma anche con il re, il Papa, ecc. Un concetto inclusivo.

Che rapporto aveva Tangheroni con la Sardegna?

Era la parte centrale dei suoi studi: qui aveva fatto la tesi, era allievo di Alberto Boscolo. Era legatissimo.

Il suo rapporto con la sofferenza, con la malattia: eppure era un uomo che non ha rinunciato a nulla.

E’ vero, non si piangeva mai addosso. Ha lasciato scritte delle pagine molto belle sul rapporto con la morte. Si riferiva spesso alla partita a scacchi del cavaliere del film Il Settimo Sigillo: sapeva il futuro che l’aspettava, ma non conosceva il tempo che gli restava. Per noi allievi invece era immortale: aveva subìto 28 interventi chirurgici, era il più vecchio dializzato d’Italia.

Cosa indica il suo rapporto con la malattia?

Una fede enorme, una grandissima fiducia. Anche alla storia applicava queste convinzioni: affascinava la compenetrazione tra la storia, la sua vita e i suoi studi. Diceva che ci dobbiamo fidare di quello che ci dice la Storia.

Per il fatto di essere una storia“guidata”?

Esatto: ripeteva che, quando uno deve uscire di casa, se qualcuno dice che fuori fa freddo, si fida e si veste. E’ lo stesso che accade con la storia: mi devo fidare che Napoleone sia esistito, anche se non l’ho mai conosciuto.

E’ la base della fede: un testimone.

Io sono cattolico perché Gesù è nato in quell’anno e in quel luogo. E’ un Dio che entra nella storia, e dà una testimonianza. Cosa chiedere di più?

La fede di Tangheroni non è mai stata ostentata. E’ così?

Sì, bisognava insistere perché ne parlasse. Ne parlammo quando morì mio padre: sentiva piuttosto l’urgenza della vita: “aspettatemi come un ladro nella notte”. Amava molto citare due studiosi francesi che parlando del mestiere dello storico, si riferivano anche all’inevitabile “senso dello scacco finale”. Quando ci parlava della Storia, nelle sue lezioni, sottolineava la passione per quello che non c’era più: non come l’antiquario, ma come chi cerca di comprendere ciò che altri hanno vissuto per capire quello che noi stiamo vivendo ora, e vivremo. Più volte ci diceva: “Vi auguro di entrare in un archivio e toccare con mano una pergamena in cui si racconta di un contadino che ha dovuto impegnare due vacche perché doveva comprare grano da seminare per non morire di fame. Da quella pergamena trasuda tutta la sofferenza di quell’uomo: è questa la storia che dovete comprendere”.

Cosa resta oggi di Tangheroni?

La cosa fondamentale sono gli studi: più di 130 articoli scientifici, diverse monografie monumentali, ha aperto numerosi filoni storici. Ha dato un respiro ampio, inserendo per esempio la Sardegna in un movimento più ampio, come tentiamo di fare noi nei nostri studi. Purtroppo oggi non c’è un suo erede.

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Storico di rango, cattolico appassionato

Nove anni  fa moriva  il professor Marco Tangheroni

I.P.

“L’uomo del medioevo sapeva di avere un solo padrone, Dio, e un solo giudice cui rispondere, Gesù Cristo. Noi, credendo di rifiutare padroni e giudici,  li abbiamo  in realtà moltiplicati”. Così Marco Tangheroni rispondeva a Vittorio Messori nell’intervista pubblicata nel  libro “Inchiesta sul Cristianesimo”. Ed è proprio questa impostazione ad emergere anche nel ritratto fatto – nell’intervista che pubblichiamo – dal suo allievo Gabriele Colombini.

Storico di rango, medievista stimatissimo, Marco Tangheroni  insegnò anche all’Università di Cagliari, senza mai dimenticare la propria  fede, mai ostentata ma sempre cordialmente vissuta. Nato a Pisa il 24 febbraio 1946 e morto esattamente l’11 febbraio di nove anni fa, nella cittadina toscana studiò per poi laurearsi a Cagliari con una tesi discussa con il professor Alberto Boscolo. E’ stato docente nelle due università sarde (a Sassari è stato anche preside di facoltà), a Barcellona e a Pisa, dove è stato professore ordinario di Storia Medievale e direttore del dipartimento di Medievistica fino alla morte.

Nei suoi studi ha approfondito i vari aspetti della realtà medioevale, da quelli economici a quelli religiosi, indirizzandosi soprattutto all’area mediterranea. Fu autore di diversi volumi sulla storia di Pisa, della Toscana e della Sardegna, oltre a un centinaio di articoli scientifici su riviste italiane e straniere. E’ stato collaboratore de Il Messaggero Veneto, di Avvenire, del Secolo d’Italia, de il Giornale e L’Unione Sarda, nonché delle riviste Cristianità, Jesus, Storia e Dossier e Medioevo, ha curato l’edizione italiana di opere di grande valore storico, fra cui  il volume di Jacques Heers, La città del Medioevo (trad. it., Jaca Book, Milano 1995) e ha collaborato  alla  redazione  del quinto volume di The New Cambridge Medieval History, dedicato al periodo compreso fra  il 1189 e  il 1300, curato da David Abulafia e pubblicato nel 1999 dalla Cambridge University Press.

Fondò l’associazione Alleanza Cattolica, e con essa promosse senza mai risparmiarsi convegni, incontri, dibattiti e approfondimenti sulla dottrina sociale della Chiesa, da laico vero, e come tale osteggiato anche in ambiente accademico. Curò anche l’edizione italiana di due opere sul Medioevo di pensatori francesi del calibro di Gustave Thibon e Regine Pernoud. Cattolico tutto d’un pezzo, integrale nel senso più buono e completo del termine, non esitò a scagliarsi anche contro Umberto Eco, che secondo lui ne “Il nome della Rosa” ha dato un’immagine falsata di quel periodo storico.