La debolezza dello Stato di diritto

dirittoStudi cattolici n. 619 settembre 2012

di Alessandro Catelani

Lo Stato di diritto, basato sul rispetto del principio di legalità, è stato ormai realizzato nel nostro, come in molti altri ordinamenti giuridici, in ogni parte del mondo. All’interno di ogni società, i valori morali vengono garantiti attraverso le sue leggi le quali, in ogni loro componente, hanno lo scopo di garantire una civile convivenza, e il corretto funzionamento dell’intero corpo sociale. È il rispetto della legge, è il principio di legalità che, nel moderno Stato di diritto, garantisce la tutela dei diritti inviolabili dell’uomo: la Costituzione ha fatto propri i princìpi del diritto naturale, rendendoli giuridicamente coattivi nei confronti di ogni fonte normativa subordinata.

Sarebbe tuttavia gravemente errato affermare che lo Stato di diritto sia stato realizzato in maniera soddisfacente, e che i diritti umani siano in esso sempre salvaguardati in maniera adeguata: alla presenza di un complesso normativo moralmente valido non necessariamente fa riscontro una effettiva tutela dei diritti di ciascuno.

Perché lo Stato di diritto e la garanzia dei valori morali che a esso è connaturata sussistano realmente, non è sufficiente l’enunciazione astratta di princìpi morali contenuti nella Carta costituzionale – e in altri corrispondenti documenti a livello comunitario e internazionale -, ma occorre che tali princìpi, attuati da una legislazione conforme, siano realmente osservati e fatti valere. Spesso nei confronti delle illegalità che vengono commesse non esistono opportuni rimedi, che siano in grado di tutelare efficacemente il singolo nelle sue posizioni soggettive.

Soggettività interpretativa

La mancata tutela dei diritti della persona può verificarsi in quanto l’applicazione delle norme al caso concreto non è un’operazione meccanica, che necessariamente implichi una valida salvaguardia del singolo, in quanto traducentesi unicamente nella trasposizione del dato normativo alla sostanza dei rapporti sociali, ma presenta margini altamente elevati di discrezionalità, che consentono anche di distorcerne e alterarne i contenuti. Scriveva Piero Calamandrei: «II giudice non è un meccanismo… non è una macchina calcolatrice… Ridurre la funzione del giudice a un puro sillogizzare vuol dire  impoverirla, inaridirla, disseccarla»  (Opere giuridiche, voi. I, Napoli 1965, p. 648).

«Il giudice di un ordinamento democratico non può assomigliare a una macchina calcolatrice, dalla quale, col semplice premer di un tasto, venga fuori il cartellino con la somma esatta; ma deve essere una coscienza umana totalmente impegnata nella difficile missione di rendere giustizia, disposta ad accettare su di sé tutta la responsabilità della decisione, la quale non è il prodotto di un’operazione aritmetica, ma la conclusione di una scelta morale» (ivi, p. 650).

Queste affermazioni del grande Maestro fiorentino urtano apertamente, frontalmente, con quella che è la communis opinio, più volte proclamata a livello di opinione pubblica e di dibattito politico, su quella che è la funzione dell’applicazione del diritto, che viene effettuata dagli organi giudicanti.

Questa funzione interpretativa e applicativa della norma viene considerata in maniera meccanicistica, e in grado pienamente di garantire il rispetto della legalità, sulla base dell’indipendenza della Magistratura. Quest’ultima costituirebbe il maggiore e più significativo baluardo per il rispetto dei diritti umani e della legalità.

La legalità si realizzerebbe attraverso l’indipendenza della Magistratura, la quale sarebbe idonea e sufficiente a raggiungere tale scopo. Questa concezione appare in aperto contrasto con la reale natura della funzione interpretativa e applicativa del diritto al caso concreto, che viene svolta dagli organi giudicanti.

L’enunciazione delle norme giuridiche inevitabilmente non può definire la realtà nella sua compiutezza: la rappresentazione formale della realtà necessariamente si traduce in una schematizzazione, che in quanto tale è praticamente impossibile che rispecchi la situazione concreta alla quale si riferisce, in tutte le multiformi e infinite varianti che può assumere.

Il fenomeno giuridico come entità formale necessariamente dunque si presta, per sua natura, a essere integrato da disposizioni più specifiche, che lo adattino alla situazione sostanziale. Ogni disposizione più specifica aggiunge sempre e necessariamente qualcosa di nuovo rispetto alle astratte prescrizioni legislative, che la norma configura nella loro generalità.

La forma normativa ha quindi un valore – per così dire – deformante di un contenuto più specifico e, in quanto tale, diverso. Proprio perché l’idea è un’astrazione, è praticamente impossibile che essa riproduca con assoluta esattezza la situazione alla quale si riferisce.

L’idea implica sempre una generalizzazione della realtà materiale, che deve essere adattata alla materia, nella sua concretezza. Ogni norma inferiore, che si elabora in via interpretativa, non è dunque meramente attuativa e interpretativa di quella superiore, ma riempie uno schema vuoto e ha una portata innovativa, perché le possibilità di esecuzione sono molteplici.

Alle possibilità date dallo schema corrispondono molteplici decisioni esatte. La scelta dipende dalla volontà dell’interprete, e quindi non ha carattere soltanto conoscitivo. Scriveva il Kelsen: «In tutti i casi di indeterminatezza si presentano parecchie possibilità di esecuzione… In conseguenza, l’interpretazione della legge non deve condurre necessariamente a un’unica decisione come la sola esatta, bensì, possibilmente, a varie decisioni che hanno tutte il medesimo valore in quanto corrispondono alla norma da applicarsi anche se una soltanto tra esse, all’atto della sentenza, diventa diritto positivo… La teoria comune dell’interpretazione vuol far credere che la legge applicata al caso concreto possa fornire sempre e soltanto l’unica decisione esatta, e che l’esattezza della decisione dal punto di vista del diritto positivo sia fondata sulla legge stessa…» (Lineamenti di dottrina pura del diritto, Torino 1970, pp. 120-122).

L’applicazione della norma al caso concreto avviene dunque secondo criteri etici, di opportunità e convenienza, o di equità, e che quindi non sono schematizzabili in formule giuridiche precostituite, ma hanno una portata sociologica che condiziona integralmente l’attività interpretativa. La norma giuridica astratta è filtrata — per così dire — attraverso il dato sociale per diventare concreta, e non può essere applicata a prescindere da quello.

All’interprete spetta il compito di scegliere tra i vari significati possibili della norma quello più aderente alle esigenze della società. Tutto dipende da chi applica la legge, all’interno del processo di produzione normativa, nel quale essa si traduce. Le regole della tecnica giuridica non sono che schematizzazioni di operazioni logiche, le quali possono essere piegate a qualunque finalità dall’interprete.

Criteri pregiuridici

I criteri che determinano la vastissima libertà dell’interprete sono evidenti; perché ogni scelta interpretativa è basata su criteri pregiuridici, come tali estremamente soggettivi.II procedimento  interpretativo non parte dalla norma per arrivare al fatto, ma viceversa parte dal fatto per ricostruire su di esso la fattispecie normativa.

È la fattispecie astratta a essere ricostruita sulla base di quella concreta, e non viceversa. L’opera del giurista non è quindi solo quella di interpretare la norma considerata in sé, ma prima ancora la realtà sostanziale alla quale la norma si riferisce, e alla quale è funzionalizzata.

E l’interpretazione del fatto, a differenza di quella del diritto isolatamente considerato, presuppone giudizi di valore, quali elementi essenziali di una realtà pregiuridica che deve essere considerata in tutte le sue componenti, e che deve essere dominata dal concetto di giustizia.

La fattispecie astratta risulta dalla determinazione dei rapporti tra le norme che sono chiamate a farne parte; il che consente una pluralità di soluzioni che l’interprete utilizza avvalendosi di criteri pregiuridici. Ma prima ancora che per la determinazione di questi rapporti fra le norme, il richiamo di norme pregiuridiche è determinante per l’individuazione di quei precetti giuridici che vengono a comporre la fattispecie astratta, e quindi per l’impostazione dello stesso problema normativo.

È il dato pregiuridico che è determinante per il richiamo delle norme che appaiono pertinenti; fra le quali vi sono anche quei princìpi fondamentali che sono in grado di condizionare, ridimensionandole anche in maniera decisiva, le norme più specifiche attinenti alla fattispecie concreta. Tali princìpi consentono a volte di giungere anche a soluzioni radicalmente diverse da quelle che si avrebbero attraverso un’applicazione letterale del diritto positivo.

La ricostruzione del fatto esige un’interpretazione della realtà che può avvenire in infiniti modi. Ed è soprattutto il giudizio di valore che se ne da che appare determinante per la sua interpretazione normativa; perché a seconda degli aspetti che in esso si evidenziano si richiamano le norme corrispondenti, prima ancora di risolvere i problemi interpretativi determinati dal concorso di più norme nell’unica fattispecie.

La discrezionalità dei Magistrati

Nell’inevitabile soggettività interpretativa risiede il massimo elemento di debolezza dello Stato di diritto. Sotto questo aspetto, insistere sull’indipendenza della Magistratura come più significativa garanzia del rispetto della legalità presenta inconvenienti che è doveroso sottolineare.

L’insistere sull’indipendenza dei Magistrati viene a enfatizzare un’assolutezza dei poteri che appare all’antitesi dell’effettiva garanzia dello Stato di diritto, in quanto mette in primo piano un’arbitrarietà dei poteri dei giudici che di fatto sussiste, facendo invece apparire secondario il rispetto della legge la quale, in quanto espressione della volontà popolare, si identifica con quel rispetto dei diritti dell’uomo che è connaturato a ogni democrazia. È la legge che tutela i diritti umani,non l’ampiezza dei poteri degli organi giudicanti in sé considerata.

Da tempo si insiste su un’impostazione opposta, che mette in primo piano l’assolutezza dei poteri dei Magistrati, e disconosce di fatto la funzione della legalità, alla quale è invece affidata la tutela dei diritti inviolabili. Attraverso l’esaltazione dell’indipendenza della Magistratura si consente e si legittima ogni eventuale abuso, e ogni deviazione dai suoi fini istituzionali.

Nell’indipendenza incondizionata dei Magistrati di fatto rivive in epoca moderna, pur in presenza dello Stato di diritto, lo Stato assoluto, con il grave pericolo di violazione dei diritti umani che esso comporta. Per la completa mancanza di ogni controllo esterno, ogni responsabilità dei Magistrati è destinata a essere vanificata, determinando quell’assolutezza dei poteri che è così pregiudizievole per il rispetto della legalità.

Dall’indipendenza così concepita dei Magistrati derivano anche, almeno in gran parte, le mancanze di efficienza e di funzionalità in questo settore, che rendono la nostra giustizia – è doloroso dirlo – almeno sotto questo aspetto una delle peggiori del mondo. La lunghezza interminabile dei processi corre il rischio di vanificare anche ogni più che legittima richiesta di giustizia.

I Magistrati, nell’enfatizzazione dell’indipendenza della Magistratura, quale si è avuta dal dopoguerra a oggi, nell’ immaginario collettivo da servitori dello Stato ne sono diventati i padroni; né da questo comune modo di vedere poteva sfuggire l’aspetto esteriore delle cerimonie che riguardano l’esercizio della funzione giudicante.

Quel fasto antiquato e superato, tipico dello Stato monarchico e aristocratico, che lo Stato di diritto ha escluso per le massime cariche dello Stato in nome dell’eguaglianza e della democrazia, ricorre pienamente per il potere giudiziario; frutto, questo, di una mentalità antiquata e primitiva, che non riesce a dissociare l’idea del potere da quella della sua arbitrarietà.

L’indipendenza della Magistratura

È fuori discussione che l’indipendenza della Magistratura debba sempre e nella sua pienezza essere salvaguardata; ma è vero anche che essa appare come un aspetto secondario e non decisivo dell’applicazione della norma al caso concreto: la correttezza intrinseca della pronuncia giudiziale può mancare anche in presenza di un mancato asservimento ad autorità superiori; così come, viceversa, anche pressioni provenienti dall’alto possono non essere in grado di impedire una decisione veramente valida e, in quanto tale, indipendente.

In sé considerata, l’indipendenza della Magistratura garantisce la mancata soggezione degli organi giudicanti all’Esecutivo, ma non è in alcun modo una garanzia dell’esattezza delle decisioni che vengono prese, a causa dell’inevitabile soggettività dell’operazione ermeneutica. Il suo significato è quindi limitato, e non risolve i problemi della giustizia.

È vero altresì che l’enfatizzazione dell’indipendenza della Magistratura si basa su un fatto storicamente rilevante, ma contingente; e cioè sull’esperienza che si è avuta durante il fascismo, in cui la dipendenza degli organi giudicanti dal potere governativo ha pregiudicato gravemente, e di fatto impedito, ogni funzione garantista dei Magistrati nei confronti dei diritti umani.

Ma attualmente la situazione è diversa. Al Ministero di grazia e giustizia si è sostituito il Consiglio superiore della Magistratura; ma il Consiglio superiore è in grado di assicurare soltanto l’indipendenza dei Magistrati dal Governo, senza minimamente impedire – e anzi di fatto favorendo al massimo – ogni eventuale politicizzazione degli organi giudicanti.

Come osservava il Calamandrei già vari anni prima che venisse istituito il Consiglio superiore della Magistratura, quale organo di garanzia di indipendenza dei Magistrati, questo non appariva idoneo allo scopo, in quanto si sarebbe tradotto in un centro di potere identico, nella sostanza, a quello governativo e in grado di condizionare pertanto i Magistrati in maniera non molto dissimile.

Ha affermato il Calamandrei che «anche quando la Magistratura, ordinata come potere costituzionale autonomo, non fosse più in alcun modo soggetta a ingerenze e sindacati da parte del potere governativo (art. 104), non per questo il singolo magistrato sarebbe liberato dalle cure di ordine personale e famigliare, che gli deriveranno ancora dalla sua qualità di impiegato che vive del suo stipendio ed è naturalmente desideroso di promozioni e di miglioramenti economici» (Opere giuridiche, cit, vol. I, p. 656).

«È facilmente prevedibile che le elezioni del Consiglio superiore della Magistratura daranno luogo al formarsi sotterraneo di tendenze politiche o confessionali in contrasto, e che i Magistrati in attesa di promozione cercheranno sempre, per non guastarsi la carriera, di conformarsi alle tendenze che avranno prevalso nella formazione di quel supremo consesso giudiziario» (ivi, p. 657).

Se si toglie alle affermazioni qui riportate il termine «sotterraneo», dato che le tendenze politiche all’interno della Magistratura sono palesi, e anzi spesso tanto più apprezzate dall’opinione pubblica quanto più direttamente impegnate nell’azione politica, queste considerazioni possono definire la situazione attuale, che molti considerano la massima e unica garanzia dell’obiettività e dell’imparzialità degli organi giudicanti.

Si può aggiungere che, a livello governativo, in presenza di una democrazia che garantisce l’alternanza delle forze politiche al potere, l’indirizzo politico può cambiare, e non ha quell’assolutezza e quell’immutabilità che era propria del regime a partito unico. L’indirizzo politico del Consiglio superiore può al contrario rimanere immutato a tempo indeterminato; così che il suo atteggiamento nei confronti del Governo può essere di ostacolo o di sostegno, a seconda delle forze politiche che sono al potere in un certo momento.

II livello etico dei Magistrati

L’indipendenza della Magistratura è dunque assai difficilmente realizzabile. Ma questo non è che un aspetto collaterale della problematica delle garanzie che offre lo Stato di diritto. Quello che appare assolutamente determinante per la corretta applicazione della legge, e per la conseguente garanzia dei diritti umani che ne deriva, è la capacità di chi la legge è chiamato ad applicare e far valere.

La norma giuridica viene inevitabilmente filtrata – se cosi si può dire – attraverso il giudizio dell’organo giudicante; così che è il livello morale e intellettuale di quest’ultimo a condizionarne la pratica e concreta applicazione.

La legge deve garantire l’osservanza di princìpi etici, ma è essa stessa condizionata, nel suo livello di applicazione, dal livello culturale e morale dei Magistrati, e quindi in sostanza dalla stessa società alla quale quelli appartengono. Lo Stato di diritto sarà concretamente realizzato se e nella misura in cui gli interpreti saranno in grado di far valere correttamente quella normativa.

Soltanto quando vi sia qualcuno in grado di applicarli concretamente la società avrà gli strumenti adeguati per svolgere una funzione di garanzia a salvaguardia dei diritti inviolabili della persona. Il rispetto dei diritti umani è fondamentalmente un fatto di costume, nel quale si rispecchia la civiltà di una Nazione.