Rinasce la Teologia della liberazione? (parte 1)

teologia liberazioneRivista Tradizione Famiglia Proprietà, ottobre 2012

Con l’aggravarsi della crisi in Occidente, questo fantasma del passato sembra voler risorgere dai morti. Dall’8 all’11 ottobre, a San Leopoldo, Brasile, si terrà un Congresso Continentale di teologi della liberazione per rilanciare il movimento, a pretesto del 50° anniversario del Concilio Vaticano II. Alcune autorità ecclesiastiche si mostrano preoccupate. Altre, invece, sembrano guardare l’iniziativa piuttosto con simpatia, al meno a giudicare da alcune ripercussioni apparse di recente sulla stampa italiana e vaticana.

 Di seguito un dossier sulla teologia della Liberazione.

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Vecchi fantasmi

Che il mondo non sarà più lo stesso una volta superata l’attuale crisi sembra ormai un dato acquisito. Da più parti gli analisti stanno prospettando un ridimensionamento, anche drastico, del nostro tenore di vita. Il folle ottimismo che ha caratterizzato la nostra civiltà negli ultimi sessant’anni sembra avere i giorni contati.

E mentre si dissolve il sogno di una prosperità senza limiti, vecchi fantasmi del passato sembrano voler risorgere dai morti.

Allo scoccare del XX secolo, con la sola eccezione della Turchia, comunque alleata dell’Occidente, tutti i paesi a maggioranza musulmana erano sotto la dominazione europea. Lo spettro dell’islam guerrafondaio, che aveva terrorizzato l’Europa per quasi un millennio, era ormai un ricordo del passato. Un secolo dopo, la partita si è rovesciata. “L’islam alla conquista dell’Europa” ha cessato di essere il titolo di un romanzo di fantapolitica per diventare l’articolo in prima pagina sui nostri quotidiani.

Ma l’islam non è l’unico spettro redivivo.

Dopo un periodo di relativo letargo, la sinistra latino-americana torna a governare in importanti paesi, rilanciando, come nel caso dell’Argentina, politiche stataliste che sembravano ormai superate. L’Unasur (Unione delle Nazioni Sudamericane), versione locale dell’Unione Europea, prende una piega sempre più rivoluzionaria, sfidando perfino l’Europa, come nella vicenda di Julian Assange a Londra. Qualsiasi dissenso a destra è aspramente debellato. Si veda il caso del Paraguay.

La crisi economica, interpretata come il definitivo fallimento del modello liberista, ha ridato vita a correnti socialiste da tempo fossilizzate.

Per un parallelismo non del tutto casuale, anche in ambito cattolico, dopo un periodo di relativa bonaccia — caldeggiata da alcuni atteggiamenti di Benedetto XVI soprattutto all’inizio del suo pontificato — vecchi fantasmi sembrano riprendere forma.

Le imponenti manifestazioni in occasione del funerale a Milano del cardinale Carlo Maria Martini — del quale tutto si può dire fuorché la sua teologia fosse, in punti assai basilari, in linea col Magistero tradizionale della Chiesa — hanno mostrato un progressismo italiano sorprendentemente robusto e desideroso di prendersi una rivincita.

Ma è ancora dall’America Latina che si alza lo spettro forse più inquietante. Parliamo della Teologia della liberazione. Condannata dal Vaticano nel 1984, posta al margine della storia dal crollo del socialismo reale, resa irrilevante dal trionfo di modelli socio-economici opposti a quelli che proponeva, ecco che questa corrente rivoluzionaria balza dalla notte dei tempi alle pagine di Avvenire e dell’Osservatore Romano, sulla scia di certe dichiarazioni di alti prelati.

Si afferma che, depurata dal marxismo, la Teologia della liberazione potrebbe offrire risposte adeguate alle situazioni di disagio provocate dall’attuale crisi economica. Ci si augura che essa possa forgiare una nuova coscienza sociale dopo anni di liberismo sfrenato che, se da un lato avrebbe aumentato la ricchezza di alcuni ceti sociali, dall’altro avrebbe creato zone di povertà che non vanno dimenticate.

Dopo anni di virtuale assenza, il nome del sacerdote peruviano Gustavo Gutiérrez Merino, fondatore della Teologia della liberazione, torna alla ribalta, citato da importanti organi della stampa cattolica e presentato come “amico personale” di personaggi vaticani. Si vuole dare l’impressione che la condanna del 1984 sia ormai superata.

Quali sono i fondamenti di questa teologia? Epurata da concetti marxisti, la Teologia della liberazione può risolvere i problemi di povertà esistenti nel mondo, in particolare nell’America Latina?

Ecco il tema del dossier, necessariamente conciso, che offriamo ai nostri lettori.

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La condanna del 1984

Dopo anni di crescenti tensioni, il Vaticano finalmente si pronuncia in merito alla Teologia della liberazione, esprimendo un giudizio negativo largamente interpretato come una condanna. Parliamo della «Libertatis Nuntius. Istruzione su alcuni aspetti della Teologia della liberazione», emanata il 6 agosto 1984 dalla Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede e firmata dall’allora cardinale Joseph Ratzinger.

Dopo aver affermato che la liberazione è un tema cristiano, con fondamenti sia nelle Sacre Scritture che nel Magistero della Chiesa, il documento critica la deturpazione che ne fa la TdL, considerandola esclusivamente nei suoi connotati sociali, politici ed economici. In particolare viene stroncato l’uso dell’analisi marxista, definita “principio determinante” della TdL: “Questa concezione totalizzante impone anche la sua logica e trascina le teologie della liberazione ad accettare un insieme di posizioni incompatibili con la visione cristiana dell’uomo. In realtà, il nucleo ideologico, mutuato dal marxismo, al quale ci si riferisce, esercita la funzione di principio determinante”.

L’Istruzione censura poi il sovvertimento del concetto di verità, ritenuta dai teologi della liberazione non un valore in sé bensì qualcosa che va verificato nella prassi. “Proprio per il ricorso a queste tesi di origine marxista — afferma il documento — viene messa radicalmente in causa la natura stessa dell’etica. Infatti, nell’ottica della lotta di classe viene implicitamente negato il carattere trascendente della distinzione tra il bene e il male, principio della moralità”. L’Istruzione vaticana conclude affermando che la TdL “si discosta gravemente dalla fede della Chiesa, anzi, ne costituisce la negazione pratica”.

Salutando l’Istruzione come un passo positivo, il prof. Plinio Corrêa de Oliveira all’epoca scrive sul maggiore quotidiano brasiliano: “È per me un dovere di giustizia esprimere la gioia, la gratitudine e la speranza, per l’arrivo di questo getto d’acqua fresca in mezzo all’incendio. So che molti fratelli nella fede estrinseci alla TFP si astengono da simili sentimenti perché pensano che un solo getto d’acqua non è sufficiente per spegnere l’incendio. Anch’io credo che un solo getto non basta. Ma ciò non m’impedisce di salutarlo come un beneficio”.

L’illustre pensatore cattolico chiude l’articolo augurandosi che all’Istruzione seguano altri passi ugualmente positivi: “Tutto questo costituisce un buon auspicio. Sta nella logica stessa dell’Istruzione il timore per la diffusione degli errori della Teologia della liberazione. Ora, questi errori dilagheranno se non mettiamo ostacoli dottrinali e pratici. È nostro dovere sperare che questi ostacoli vengano messi” (1).

Purtroppo, questa speranza è stata solo in parte esaudita.

1). “A mangueira, o desejo e o dever”, Folha de S. Paulo, 10 dicembre 1984.

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Teologia della liberazione

Il caso della ex-Pontificia Università Cattolica del Perù solleva, come nello sfondo di un quadro, il problema della cosiddetta Teologia della liberazione, recentemente tornata alla ribalta anche per via di alcune dichiarazioni di alti prelati in Italia. Forse da noi non perfettamente conosciuta, la Teologia della liberazione ha invece avuto un ruolo preponderante nella recente storia latinoamericana. Ecco un dossier che, in modo necessariamente sintetico, vi introdurrà nei meandri di questa corrente rivoluzionaria, condannata dal Vaticano nel 1984.

Le dottrine che poi avrebbero costituito la Teologia della liberazione sono state discusse nel corso di vari incontri internazionali negli anni Sessanta. Tra essi particolarmente emblematico è quello tenutosi a Cuba nell’agosto 1965 sotto l’egida di Fidel Castro.

L’espressione, già in uso dal teologo della liberazione uruguaiano Juan Luis Segundo dal 1959, è stata sdoganata dal sacerdote peruviano Gustavo Gutiérrez Merino, ritenuto perciò il “padre fondatore” della corrente, nel corso di un convegno dell’ONIS (Oficina Nacional de Información Social) a Chimbote, Perù, nel luglio 1968. Gutiérrez in pratica, ampliò e aggiornò la propria tesi di laurea che, sotto l’egida di Henri de Lubac, aveva presentato alla facoltà gesuita di Lyon-Fourvière e ne trasse un libro. Che col titolo «Una Teología de la Liberación. Perspectivas», divenne la pietra miliare della corrente. “Questo libro — commenta Segundo — è stato come un battesimo. Ma il bimbo era già alquanto cresciuto”.

Siamo alla vigilia della I Assemblea Generale del CELAM (Conferenza Episcopale Latino Americana) a Medellín, Colombia, in cui gli esponenti della corrente liberazionista ebbero un ruolo preponderante. La presenza di Papa Paolo VI conferì ulteriore autorevolezza all’incontro, che da più parti cominciò ad essere chiamato “il Vaticano II della Chiesa latino-americana” che avrebbe attuato una “svolta copernicana” nel continente.

L’assise è infatti considerata un evento spartiacque nella storia della Chiesa in America Latina, che avrebbe finalmente rotto col suo passato “medievale” lanciandosi nell’avventura progressista. Al di là del vero tenore dei documenti, lo “spirito di Medellín” comincia a soffiare fortissimo, spostando vasti settori ecclesiastici sempre più a sinistra.

Questo ‘68 ecclesiastico si innestava, dunque, in un processo politico rivoluzionario che, sotto l’influsso di Cuba, vedeva un certo numero di paesi latino-americani passare all’orbita sovietica. Nei paesi con governi non comunisti la Teologia della liberazione spingeva invece i cattolici all’opposizione, perfino armata.

In Colombia, per esempio, emulando Camilo Torres Restrepo, un certo numero di sacerdoti si unirono al gruppo guerrigliero ELN (Ejército de Liberación Nacional), autodefinitosi “marxista-leninista-cristiano” (sic).

È in questo clima surriscaldato che viene alla luce, nel 1971, il capolavoro di Gustavo Gutiérrez «Una Teología de la Liberación. Perspectivas».

“Fare teologia”

Quali sono i cardini di questa teologia?

Rovesciando il metodo teologico, che parte dalla Rivelazione contenuta nelle Sacre Scritture e nella Tradizione per dedurre principii poi applicati alla realtà, i teologi della liberazione partivano dall’analisi di situazioni concrete, nella fattispecie le lotte rivoluzionarie in America Latina. “La teologia della liberazione — dice Gutiérrez — è un tentativo di comprendere la fede partendo dalla prassi storica concreta, liberatrice e sovversiva, dei poveri di questo mondo”.

Il rovesciamento avveniva col seguente raziocinio:

— la Rivelazione pubblica non si è conclusa con la morte dell’ultimo Apostolo, bensì continua lungo la storia e, anzi, nella storia (immanentismo storicista);
— concretamente, Dio si rivela in quei fenomeni che sono all’avanguardia del processo storico, vale a dire nei movimenti rivoluzionari (socialismo, comunismo), eufemisticamente chiamati “movimenti di liberazione”;
— per analizzare questi fenomeni serve uno strumento di analisi politico e sociologico;
— oggi, il miglior strumento di analisi è il marxismo.

“Il marxismo, come cornice teorica di tutto il pensiero filosofico contemporaneo non può essere superato”, asseriva P. Gustavo Gutiérrez. “Oggi, per la teologia della liberazione — spiegava a sua volta Luis Alberto Gomes de Souza — non esiste strumento migliore che il marxismo, che è immerso nella praxis della realtà”.

I teologi della liberazione adottavano quindi l’analisi marxista, la applicavano ai fenomeni sociali e politici, salvo poi spacciare le conclusioni — ovviamente condizionate dal metodo di analisi — come “teologia”…

D’altronde, la Teologia della liberazione non si presentava come una scuola di pensiero (questo sarebbe un “intellettualismo” assolutamente da rigettare) bensì come una “praxis”, e concretamente una praxis rivoluzionaria. “La teologia della liberazione suppone una situazione rivoluzionaria”, spiegava il liberazionista Gregory Baum. “Ciò che intendiamo per teologia della liberazione è il coinvolgimento nel processo rivoluzionario”, sentenziava Gustavo Gutiérrez.

Ecco perché i teologi della liberazione parlano di “fare teologia”, vantando il “primato della praxis sulla riflessione”, un concetto di chiara derivazione marxista (l’undicesima «Tesi su Feuerbach»). “Prima di fare teologia dobbiamo lottare per la liberazione — scrivono i fratelli Leonardo e Clodovis Boff — Il primo passo della teologia è il coinvolgimento nei processi di liberazione degli oppressi”.

La simbiosi col comunismo

Mossi dal desiderio di “fare teologia” partecipando ai processi di “liberazione”, i seguaci di questa corrente cominciarono a impegnarsi nelle lotte politiche della sinistra, a volte come protagonisti a volte come fiancheggiatori. Non pochi giunsero perfino a partecipare alla lotta armata. La manovra riusciva loro facile, visto che condividevano con Mosca lo stesso scopo: l’instaurazione del comunismo.

“Comunismo e Regno di Dio sulla terra sono la stessa cosa”, affermava P. Ernesto Cardenal. “Troviamo i valori del Regno di Dio nel socialismo reale sovietico”, rincarava a sua volta frà Leonardo Boff.

Lo stesso Gustavo Gutiérrez era piuttosto esplicito: “Dobbiamo attuare una rivoluzione sociale che rompa lo status quo e introduca la nuova società, la società socialista”.

In questo modo il comunismo, che di per sé sarebbe rimasto un fenomeno marginale in America Latina, ha visto convergere nelle sue fila masse di cattolici, con l’esplicita o implicita connivenza di non pochi presuli. Rimarrà tristemente celebre nella storia, per esempio, la protesta, nel 1985, di ben diciassette vescovi brasiliani contro le misure disciplinari inflitte dal Vaticano nei confronti di Leonardo Boff.

Da parte sua, Mosca apprezzava molto questi “compagni di viaggio”. A conferma di ciò si contano a centinaia gli interventi a loro favore da parte di organi legati al Komintern.

Impossibile elencare, nell’angusto spazio di un articolo, i casi di simbiosi fra cattolici e comunisti. Basti menzionare il deciso appoggio della corrente liberazionista alle dittature filo-comuniste dei generali Juan Velasco Alvarado in Perù e Juan José Torres in Bolivia, nonché al governo marxista di Salvador Allende in Cile. Più recentemente, appoggiano Hugo Chávez in Venezuela, Evo Morales in Bolivia e Rafael Correa in Ecuador.

Non furono pochi coloro che giunsero alla lotta armata. È nota, per esempio, la partecipazione di cattolici nel MIR (Movimiento de izquierda revolucionaria) in Cile, nell’ELN (Ejército de liberación nacional) in Colombia, nei Tupamaros (Movimiento de liberación nacional) in Uruguay, nell’ALN (Aliança libertadora nacional) in Brasile, e via dicendo. Ma forse il caso paradigmatico è costituito dalla massiccia partecipazione di cattolici provenienti dalle comunità ecclesiali di base nella guerriglia sandinista, in Nicaragua, che nel 1979 ha rovesciato il governo instaurando una dittatura filo-sovietica.

Il governo sandinista era sostenuto da alcuni vescovi. Uno di loro, mons. Pedro Casaldáliga, vescovo di São Félix do Araguaia, in Brasile, partecipando ad una riunione con guerriglieri sandinisti non esitò ad indossare la loro divisa militare, dichiarando: “Vestito da guerrigliero mi sento parato da sacerdote. La guerriglia e la Messa sono la stessa celebrazione”.

In questo era appoggiato dal cardinale di San Paolo, Paulo Evaristo Arns, che incitava i cattolici brasiliani a trascorrere periodi di addestramento per la guerriglia in Nicaragua

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Liturgia e rivoluzione

Il 28 febbraio 1980 si tenne nel teatro della Pontificia Università Cattolica di San Paolo, Brasile, una “serata guerrigliera”, sotto l’alto patrocinio del cardinale Paulo Evaristo Arns, arcivescovo di San Paolo (1). L’incontro faceva parte del IV Congreso Internacional Ecumenico de Teologia, al quale parteciparono 160 vescovi, sacerdoti, suore e laici impegnati nel movimento della Teologia della liberazione in America Latina. Il peruviano Gustavo Gutiérrez fu uno dei relatori principali.

Ospiti d’onore alla serata erano guerriglieri “sandinisti”, con a capo il presidente del Nicaragua Daniel Ortega, accompagnati da P. Uriel Molina, presentato come “cappellano della guerriglia”. I sandinisti avevano appena preso il potere in Nicaragua, dopo una sanguinosa guerra civile, e volevano insegnare ai cattolici latino-americani la formula di tale successo, affinché potessero replicarlo nei loro rispettivi paesi. Era un aperto incitamento alla lotta armata. Il clima era di rovente entusiasmo.

Al culmine della serata, l’avvocato Idibal Piveta presentò una divisa militare da guerrigliero a mons. Pedro Casaldáliga, vescovo di São Félix do Araguaia, Brasile. Indossandola, il prelato entrò in una sorta di “estasi”, dichiarando: “Vorrei ringraziare questo sacramento di liberazione che ricevo con i fatti e, se ce ne fosse bisogno, anche col sangue! Vestito da guerrigliero io mi sento come parato da sacerdote. La guerriglia e la Messa sono la stessa celebrazione che ci spinge verso la stessa speranza. Dobbiamo testimoniare il nostro impegno fino alla morte!”.

Mons. Casaldaliga, però, contava su appoggi altolocati. Tre anni prima, tornando da Roma e rispondendo alle critiche dei cattolici brasiliani nei confronti del vescovo progressista, il cardinale Paulo Evaristo Arns aveva infatti dichiarato: “Ho sentito dallo stesso Paolo VI che toccare mons. Pedro Casaldaliga è come toccare il Papa” (2).

1). “Na Noite Sandinista, o incitamento à guerrilha dirigido por sandinistas ‘cristaos’ à esquerda catolica no Brasil e na America Espanhola”, in Catolicismo, luglio-agosto 1980.

2). O São Paulo, 6-01-76

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Una Madonna socialista?

Dopo aver creato una nuova cristologia (Gesù il leader rivoluzionario della Galilea, il liberatore politico del suo popolo), la Tdl crea una nuova mariologia. La Madonna è vista come una militante rivoluzionaria che si ribella al sistema oppressore che ha ammazzato suo Figlio.

La Madonna della Tdl è una rivoluzionaria che “disperde i superbi” e “rovescia i potenti dai troni”. Ella viene identificata come una leader nelle lotte politiche per la liberazione. Per esempio, parlando della Madonna di Guadalupe, il teologo della liberazione messicano Andrés Guerrero scrive: “Guadalupe è un simbolo che apre per noi, messicani, una nuova visione storica. Politicamente, Guadalupe è dalla parte degli oppressi. Economicamente, Guadalupe è contro il capitalismo. La Madonna di Guadalupe appoggia un governo socialista. Teologicamente, è la promessa del nuovo socialismo che sorgerà dalla nostra esperienza di liberazione”.  (Andrés M. Guerrero, «A Chicano Theology», Orbis Books, New York, 1987, p. 142.)

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Un nuovo concetto di verità

La Teologia della liberazione non si presenta come una scuola di pensiero bensì come una “praxis”, nel senso marxista del termine, cioè un’attività tesa a trasformare la realtà (1). “Ciò che noi intendiamo per praxis è l’azione di trasformazione storica” spiega Gustavo Gutiérrez (2). Questo implica un nuovo concetto di verità, non più intesa come ortodossia, ma come ortoprassi.

Secondo la dottrina cattolica, dal punto di vista teologico la Verità è lo stesso Dio; dal punto di vista filosofico è adaequatio intellectus et rei; dal punto di vista morale è la virtù della veracità, sincerità o franchezza (3).

Il marxismo realizza una “rottura epistemologica” illustrata nell’undicesima «Tesi su Feuerbach» di Marx: “Finora i filosofi hanno cercato di spiegare la realtà. Adesso devono cominciare a cambiarla”. Nella seconda Tesi afferma Marx: “La questione se al pensiero umano appartenga una verità oggettiva non è una questione teoretica, ma pratica. È nella prassi che l’uomo deve dimostrare la verità, cioè la realtà e il potere, il carattere immanente del suo pensiero” (4).

È proprio questo il senso adottato dalla Tdl. “La nozione di verità — scrive il teologo della liberazione Hugo Assman — si identifica con la nozione di praxis efficace. (…) Noi concepiamo la fede come praxis” (5). “Il criterio per una teologia vera — ribadisce Juan Luis Segundo — non consiste in un’ortodossia elaborata dalla stessa teologia, ma nell’efficacia concreta, reale, materiale della liberazione storica” (6).

Secondo la Tdl, la salvezza eterna non dipende dall’assenso alle verità della Fede e dalla conseguente pratica delle virtù cristiane, bensì dall’efficacia della praxis rivoluzionaria. “La verità che è pensata non ci salverà — scrive Frà Leonardo Boff — bensì la verità che è fatta e realizzata nella praxis” (7).

1). Cfr. Ernesto Mascitelli, a cura di, «Dizionario dei termini Marxisti», Vangelista, Milano, 1977, pp. 261-262.
2). Gustavo Gutiérrez, Statement. In Sergio Torres & John Eagleson, a cura di, «Theology in the Americas», Orbis Books, New York, 1976, p. 320.
3). A. Michel, “Verité”, «Dictionnaire de Théologie Catholique», XV, col. 2683.
4). Pedrag Vranicki, «Geschichte des Marxismus», Suhrkamp Verlag, Frankfurt, 1972, pp. 123-124.
5). Hugo Assman, «Opresión-Liberación. Desafío a los Cristianos», Tierra Nueva, Montevideo, 1971, p. 90.
6). Juan Luis Segundo, Statement. In Sergio Torres & John Eagleson, a cura di, «Theology in the Americas», p. 281.

7). Leonardo Boff, O.F.M., «Qué es hacer teología desde América Latina», p. 140. Citato in Roberto Jiménez, «Teología de la liberación, proyecto histórico y tres de sus conceptos claves»,  p. 74.
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Difesa dei poveri? Solo di quelli “in lotta”

I teologi della liberazione affermano di voler difendere i poveri. Anzi, tutta la loro teologia avrebbe i poveri come origine, come soggetto e come destinatario. “La storia di Dio passa necessariamente per i poveri — scrive il teologo gesuita spagnolo Jon Sobrino — Lo spirito di Gesù si incarna storicamente nei poveri (…) I poveri sono il vero locus teologicus per la comprensione della verità e della praxis cristiana” (1).

“Locus theologicus”, espressione coniata nel secolo XVI dal teologo dominicano spagnolo Melchior Cano (2), vuol dire fonte o sorgente della teologia. Sdegnando la Rivelazione e la Tradizione come fonti della teologia, i teologi della liberazione si concentrano quasi esclusivamente sui “poveri”, perfino conferendo loro ciò che l’uruguaiano Juan Luis Segundo definiva pomposamente “il privilegio ermeneutico dei poveri in lotta” (3).

E già questa espressione ci dovrebbe mettere la pulce nell’orecchio. Non si tratta semplicemente dei poveri, ma dei “poveri in lotta”. “La teologia della liberazione — secondo Gustavo Gutiérrez — è un tentativo di comprendere la fede dall’interno della praxis concreta, storica, liberatrice e sovversiva dei poveri di questo mondo, delle classi oppresse, dei gruppi etnici disprezzati, delle culture emarginate” (4).

In altre parole, i “poveri” — ossia qualunque categoria sia ritenuta “oppressa”, “disprezzata” o “emarginata” — sono il locus theologicus della Teologia della liberazione solo quando coinvolti in una “praxis storica sovversiva”, cioè quando agiscono come agenti delle trasformazioni rivoluzionarie, sia per le vie pacifiche sia per quelle della violenza.

Un’analisi più attenta rivela come, per i teologi della liberazione, il vero locus theologicus non siano tanto i poveri quanto gli agenti rivoluzionari. “La praxis della liberazione è il luogo privilegiato della nostra riflessione”, ammetteva il teologo italiano recentemente scomparso Giulio Girardi (5).

Cosa succede, invece, quando il “povero” si comporta in maniera conservatrice, cioè quando non vuole fare il rivoluzionario? Ebbene, perde il suo “privilegio ermeneutico”…

“Una delle esperienze più sconvolgenti — si lamentava Girardi — è quando la liberazione è reputata impossibile dallo stesso popolo, dalle stesse classi lavoratrici che, secondo la nostra prospettiva, dovrebbero invece essere l’asse delle trasformazioni” (6).

Ma questo non scoraggia minimamente i teologi della liberazione. Con i poveri, senza i poveri, o anche contro i poveri, loro continuano imperterriti. “Perseguire l’utopia popolare — continuava Girardi — significa, e questo è forse l’aspetto più drammatico, darsi alla causa popolare senza contare sull’appoggio, e nemmeno sul riconoscimento del popolo. (…) È come sentirsi straniero nel proprio ambiente” (7).

Quando i “poveri” non sono “in lotta”, bisogna addirittura diffidare di loro. “Concordo con Juan Luis Segundo che il teologo della liberazione deve essere molto critico riguardo alle aspirazioni dei poveri — ammetteva P. Alfred Hennelly — Nei miei anni nel Terzo Mondo ho avuto ampia, direi quotidiana, esperienza di quanto i poveri interiorizzino le credenze dei loro oppressori, e della profondità e tenacità con la quale difendono queste credenze” (8).

Ecco quindi il vero volto dei teologi della liberazione: stranieri nel proprio ambiente. Vale a dire, non paladini dei poveri e interpreti delle loro aspirazioni, bensì incuranti del loro sostegno, perfino sdegnosi nei loro confronti, e impegnati invece in una lotta ideologica per l’instaurazione dell’utopia socialista.

1). Jon Sobrino, «Resurreição da verdadeira Igreja. Os pobres, lugar teologico da eclesiologia», Edições Loiola, San Paolo, 1982, p. 102.
2). Melchior Cano, O.P., «De locis theologicis», Salamanca, 1562. L’opera aveva un chiaro intuito innovatore, in quanto apriva la porta alla storicizzazione della teologia. Sconfessato dalle autorità ecclesiastiche, Cano fu nominato vescovo nelle lontane isole Canarie. Cfr. Miguel Nicolau, S.J., «Sacrae Theologiae Summa», pp. 20-22.
3). Juan Luis Segundo, «The liberation of theology», Orbis Books, New York, 1976.
4). Gustavo Gutiérrez, «The Power of the Poor in History», Orbis Books, New York, 1983, p. 37.
5). Giulio Girardi, “Possibilità di una teologia europea della liberazione”, in IDOC Internazionale, Roma, 1983, I, p. 41.
6). Giulio Girardi, intervento “Utopía popular y esperanza cristiana”, VIII Congreso de Teología, Madrid, 11 settembre 1988. Dalla registrazione magnetofonica. Archivio TFP.
7). Ibid., versione scritta. Giulio Girardi, “Utopía popular y esperanza cristiana”, in José María Gonzáles Faus, «Utopía y profetismo», Evangelio y Liberación, Madrid, 1989, p. 104.

8). Alfred Hennelly, S.J., «Theology for a Liberating Church. The New Praxis of Freedom», Georgetown University Press, Washington, D.C., 1989, pp. 64-65.

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Sviluppo e ricchezza? No, rivoluzione e povertà

La più grande incongruenza della Teologia della liberazione è forse la sua sfacciata apologia della povertà come ideale sociale.

 “Vergogna del nostro tempo”

Nel secolo XX si sono confrontati due sistemi socio-economici. Uno fondato sulla proprietà privata, il libero mercato e lo sviluppo; l’altro sulla loro negazione. Per ciò che riguarda il benessere materiale, bisogna ammettere che la storia ha dato retta al primo. Mentre l’Occidente conquistava il più alto livello economico e tecnologico mai raggiunto da una società nella storia, il mondo comunista sprofondava invece in uno squallore tale da indurre il cardinale Ratzinger a definirlo senz’alcuna esitazione: “vergogna del nostro tempo”.

Il fallimento del socialismo reale nell’Est era così palese che nemmeno i suoi massimi leader riuscivano a nasconderlo. “Prima o poi l’URSS sarebbe finita — dichiarava Mikhail Gorbaciov — Era impossibile continuare a vivere in quel modo. Stavamo diventando sempre più deboli nei confronti dell’Occidente. Il Paese non si sviluppava e c’era un enorme malcontento. Così l’URSS non sarebbe durata più di vent’anni” (1).

Quanto a Cuba — l’URSS tropicale — il salario medio oggi è ancora di soli US$ 18,00 al mese, il più basso dell’America Latina, “insufficiente per soddisfare i bisogni più elementari della popolazione”, come ha dovuto concedere il presidente Raúl Castro in un recente discorso all’Asamblea Nacional. Eppure — oh mistero! — proprio la “vergogna del nostro tempo” viene presentata dai teologi della liberazione come modello per l’America Latina.

Nel 1985, un trio di teologi della liberazione — i fratelli Leonardo e Clodovis Boff, insieme al dominicano Frà Beto — si recarono a Cuba. Le impressioni sul regime di Fidel Castro sono riportate, sinteticamente, in una insolita «Lettera teologica su Cuba», scritta da Frà Clodovis. “Anche se la presenza della Chiesa è molto debole — il teologo commentava — quella del Regno è, invece, molto forte. (…) Il Regno di Dio è scritto nelle strutture cubane” (2).

Non potendo negare l’estrema povertà in cui versava l’antica “Perla delle Antille”, Frà Clodovis cercò di conferirgli un carattere spirituale: “C’è una grande sobrietà e austerità. Mi è piaciuta la vita ridotta all’essenziale. Per me l’austerità è un ideale di vita sociale. (…) Cuba mi è sembrata un’immensa comunità di religiosi che vivono la povertà evangelica” (3).

Alla «Lettera teologica su Cuba» fece seguito una non meno insolita «Lettera teologica sull’URSS», frutto di un viaggio compiuto nell’Unione Sovietica nel 1987. E anche qui, i teologi della liberazione notarono i “valori del Regno”: “Troviamo valori del Regno nel socialismo reale sovietico. (…) Lo Spirito Santo mostra la sua presenza nei processi rivoluzionari di liberazione, come la rivoluzione bolscevica del 1917”. E sottolinearono anche la povertà: “È impossibile non paragonare l’Unione Sovietica a un immenso convento, dove le persone vivono una vita sobria” (4).

Curioso: quando la povertà è causata dal socialismo, i teologi della liberazione vi scorgono i “valori del Regno”. Quando, invece, è causata dal libero mercato, diventa un’“oppressione” dalla quale bisogna “liberarsi”…

Opzione preferenziale per la povertà

Nel settembre 1990 si tenne a Madrid il X Congreso Internacional de Teología, organizzato dall’Asociación de Teólogos Juan XXIII. Tema: il futuro della Teologia della liberazione di fronte al crollo del socialismo reale. Dopo aver registrato il “profondo fallimento del socialismo reale nei Paesi del centro e dell’est europeo”, il Mensaje Final affermava: “Questo configura per noi una sfida: andare oltre il socialismo”. Per superare il fallimento del socialismo reale, loro tanto caro, i teologi della liberazione proponevano nientedimeno che una “società orientata dal principio di povertà”.

Non si trattava più di criticare la società capitalista perché non realizza in modo adeguato l’ideale di progresso e di benessere materiale, o perché lo realizza soltanto in beneficio di pochi; non si trattava più di fare un’opzione preferenziale per i poveri, nel senso di innalzarli, permettendogli quindi di partecipare al banchetto dell’abbondanza; non si trattava più di criticare gli eccessi del lusso o del consumismo. Si trattava di fare una critica alla ricchezza, all’abbondanza e al consumo in quanto tali, ritenuti “alienanti” e “falsanti” della persona umana. Non era più un’opzione per i poveri, bensì per la povertà.

“Nel mondo di oggi — spiegava il teologo spagnolo Jon Sobrino — si impone non più un’opzione fra ricchi e poveri, ma fra due principi contrastanti: quello della ricchezza e quello della povertà. Noi dobbiamo fare un’opzione per la povertà, dobbiamo assumere il principio della povertà come fondamento di tutto”. E concludeva proponendo “una società austera, oltre il consumo” (5). La relazione più applaudita fu, senza dubbio, quella di Suor Mari Conchi Puy, delle Piccole Sorelle di Charles di Foucauld, che proclamò come ideale sociale “una povertà totale (…) unica alternativa alla società di consumo”.

Fu compito di Alberto Giráldez, nella relazione conclusiva del convegno, esporre senza veli la meta dei teologi della liberazione: “Il Regno di Dio si realizza solo in una società assolutamente carente di denaro. (…) Una società nella quale non esista il benché minimo scambio economico”. Una siffatta società presuppone “un cambio radicale di mentalità, perfino dei nostri neuroni”. All’idea di “proprietà-usufrutto” si deve sostituire quella di “autogestione comunitaria”. Solo questa società “porterà quella libertà cui noi tutti aneliamo”. Giráldez concludeva proponendo come modello le “grandi tribù (…) dove tutto è di tutti” (6).

Difesa della dittatura e della povertà

Tale incontrollata bramosia di rivoluzione e di povertà potrebbe spiegare due vistose contraddizioni nei teologi della liberazione. Si proclamano difensori della libertà, ma appoggiano con entusiasmo dittature militari, a patto che siano comuniste. Si proclamano paladini dei poveri, ma si ostinano a rifiutare un sistema economico che si è dimostrato capace di produrre un ampio benessere materiale, proponendo invece un sistema fallimentare, che ha provocato unicamente inopia e oppressione.

Potendo scegliere lo sviluppo e la ricchezza, scelgono al contrario la rivoluzione e la povertà. “Parliamo di rivoluzione, non di riforma; di liberazione, non di sviluppo; di socialismo, non di modernizzazione”, scrive Gustavo Gutiérrez (7).

Un’analisi attenta dell’America Latina — paese per paese — mostra chiaramente che, laddove sono state applicate le politiche proposte dai teologi della liberazione, il risultato è stato un notevole aumento della povertà e del malcontento. Laddove, invece, sono state applicate le politiche socio-economiche da essi aborrite, il risultato è stato un generale incremento nel benessere.

Ancor oggi, nei regimi socialisti affini agli ideali dei teologi della liberazione — Venezuela, Bolivia, Ecuador, ecc. (8) — la situazione sociale ed economica è sempre più cupa. Laddove, invece, si applicano politiche opposte — Cile, Perù, Colombia, ecc. — l’economia vola, e con essa tutti gli indicatori sociali.

Prendiamo per l’appunto un caso: il Perù, la patria di P. Gustavo Gutiérrez, il “padre” della Teologia della liberazione.

Il 3 ottobre 1968, un colpo militare condotto dal generale Juan Velasco Alvarado (1910-1977) rovesciava il governo democratico di Fernando Belaúnde, instaurando una dittatura militare di carattere “rivoluzionario, socialista e nazionalista”, secondo quanto dichiarato da Velasco in uno dei suoi primi discorsi. Il nuovo Regime militare intraprese un ambizioso piano per sovvertire il Paese fino alle fondamenta.

Mentre una legge per la riforma agraria liquidava la proprietà rurale, trasferendola nelle mani di cooperative ispirate ai kolchoz sovietici, una legge per le industrie ne stabiliva l’autogestione e una legge per l’educazione imponeva un curriculum unico dettato dal Governo. Per soffocare qualsiasi voce discordante, una legge per i media espropriava tutti i mezzi di comunicazione sociale.

Il risultato non si fece aspettare. Mentre le carceri si riempivano di oppositori politici, gli scaffali dei supermercati si svuotavano. Chi può dimenticare le lunghe attese per ottenere mezzo chilo di zucchero o di riso? Per quindici giorni al mese c’era il divieto di mangiare carne. Con la proibizione delle importazioni, sparirono dal mercato i prodotti di qualità e il tenore di vita si abbassò vistosamente. Il Paese entrò in uno stato di prostrazione economica e psicologica dal quale non si risolleverà per molti anni.

Il fiore all’occhiello del Regime era, senza dubbio, la Riforma agraria, fatta per demolire l’odiata classe dei proprietari terrieri. Proprio questa riforma si trasformò, in poco tempo, nel suo peggiore fallimento.

Un esaustivo studio condotto nel 1980 dall’Instituto de Estudios Peruanos, di orientamento marxista e, quindi, per niente sospetto di partito preso contro il Regime, rivelava: “Dieci anni dopo, il programma di riforma agraria era già paralizzato”. Il 68% delle cooperative rurali si erano praticamente sciolte. Tra quelle ancora funzionanti, il 78% mostravano “gravi problemi strutturali”. Il 47% non mantenevano nemmeno una contabilità…

Le cooperative di produzione di zucchero, “dalle quali, visto il loro grande sviluppo prima della riforma agraria, si aspettavano risultati positivi”, hanno visto invece i loro bilanci crollare: 1.659 milioni di deficit nel 1976; 2.758 milioni nel 1977; fino a superare i 3.000 milioni nel 1978. Insomma, un disastro (9).

Il movimento della Teologia della liberazione spicca il volo proprio negli anni della dittatura filo-comunista di Velasco Alvarado, come espressione dell’appoggio dei catto-comunisti al processo rivoluzionario.

Nemmeno dopo il “limazo” del febbraio 1975, quando la dittatura soffocò nel sangue una protesta popolare, causando 86 morti, 155 feriti e 1012 incarcerati, il sostegno dei teologi della liberazione venne meno. Anzi, la dittatura militare difendeva Gustavo Gutiérrez, ritenuto uno dei suoi sostenitori chiave.

A metà degli anni 1990, col varo di una nuova Costituzione, il Perù riuscì finalmente a esorcizzare i demoni del socialismo velaschista, riprendendo quindi le vie dello sviluppo. I risultati sono lì per chiunque voglia vederli. In meno di due decenni, il reddito pro capite è più che raddoppiato, la povertà si è dimezzata e la distribuzione della ricchezza è molto migliorata. Il grande beneficiario è stato il popolo. Quello stesso popolo che i teologi della liberazione vorrebbero ricacciare nelle grinfie della miseria socialista.

1). El Mercurio, Santiago, 8 dicembre 2006.
2). Clodovis Boff, «Carta Teológica Sobre Cuba», CEPIS, San Paolo, 1987, pp. 62-63.
3). Ibid., p. 5-6.
4). Leonardo Boff, “O Socialismo Como Desafio Teológico”, in Revista de Cultura Vozes (Brazil), No. 6, Nov.-Dec. 1988, pp. 52-53. Clodovis Boff, “Carta Teológica sobre a URSS”, in Revista de Cultura Vozes, Nov/Dez 1987, nº 6, p. 13.
5). Cfr. Julio Loredo, “Apología de la pobreza en el X Congreso de Teología”, Covadonga Informa, Madrid, febbraio 1991.
6). Ibid.
7). Gustavo Gutiérrez, «The Power of the poor in history», p. 45.
8). Il caso del Brasile è sui generis. Governato da presidenti della sinistra, prima Luiz Inácio da Silva (Lula) e adesso Dilma Rousseff, si è tuttavia scelto di seguire politiche economiche liberiste che hanno proiettato il Paese come potenza emergente.
9). José Matos Mar & José Manuel Mejía, «La reforma agraria en el Perú», Instituto de Estudios Peruanos, Lima, 1980, p. 338.

continua