Siamo tutti vittime del "mito verde"?

mulino biancoilsussidiario.net sabato 18 agosto 2012

Riccardo Cascioli

Ma esiste davvero “l’agricoltura di una volta”, quella dove tutti i contadini lavoravano felici, rimanevano sempre giovani, vivevano in armonia con la natura e dove la natura ovviamente ricambiava il favore evitando condizioni meteo estreme per non mettere a rischio i raccolti? È la domanda che viene leggendo un libro uscito da poco (Davide Ciccarese, Il libro nero dell’agricoltura, editrice Ponte alle Grazie), che riassume peraltro una serie di luoghi comuni in materia di agricoltura che si sono affermati negli ultimi anni anche sulla spinta dell’ideologia ecologista.

Si tratta di una concezione che tende a demonizzare l’industrializzazione dell’agricoltura, rea di aver cambiato i cicli naturali, di inquinare e di aver favorito la crescita di una generazione di agricoltori dediti esclusivamente al profitto infischiandosene della sostenibilità della tecnologia e del benessere degli animali. Da qui nascono poi quelle proposte di ritorno all’antico – mascherate da termini moderni – come l’esaltazione del cibo biologico, dei prodotti agricoli a km zero (cioè acquisti dal contadino vicino a casa) e così via.

La prima osservazione necessaria è storica: quella civiltà agricola di cui si vagheggia in realtà non è mai esistita, e la storiella diventa credibile soltanto perché viviamo in un contesto urbano (almeno il 70 per cento della popolazione italiana vive in città) dove la maggioranza delle persone conosce la realtà rurale solo attraverso la pubblicità del Mulino Bianco.

La verità è che prima dell’industrializzazione – e della meccanizzazione dell’agricoltura – la vita era durissima: lavoro dall’alba al tramonto, condizioni igienico-sanitarie oggi inaccettabili, per poter campare i figli (tanti) venivano impiegati fin dalla tenera età nei campi (alla fine del XIX secolo l’analfabetismo superava il 70 per cento), l’aspettativa di vita era all’inizio del 900 la metà di quella attuale. Sono dati da tenere ben presenti, perché la realtà è sempre la giustiziera dell’ideologia.

Una seconda osservazione va però fatta sul senso stesso dell’agricoltura: le analisi come quella di Ciccarese presuppongono un prima, quando l’agricoltura era se stessa, e un dopo (con la meccanizzazione, la sperimentazione di nuove varietà genetiche e l’introduzione dei fertilizzanti chimici) in cui è stata snaturata.

Ma la realtà non è così, come spiega Giuseppe Bertoni, docente nella Facoltà di Agraria dell’Università cattolica di Piacenza: «Forse non tutti sanno che l’agricoltura è nata separatamente in aree diverse del pianeta fra gli 8 e i 12mila anni fa; in tutti i casi è consistita nella “domesticazione” di piante ed animali che l’uomo già conosceva in quanto oggetto di caccia-pesca o di raccolta a maturazione di semi-frutti.

Col tempo, l’uomo ha imparato a modificare piante ed animali, insieme all’ambiente, per facilitare la vita (quindi la produzione) dei suoi nuovi alleati (piante coltivate ed animali allevati) a scapito dei competitori (malerbe, parassiti ed animali predatori) ».

«In seguito, e quanto più si è disperso in aree lontane dai primi insediamenti agricoli (caldo-temperate), ha dovuto affrontare condizioni climatiche poco o per nulla compatibili con l’originale produzione quasi continua di cibo e senza l’adozione di particolari protezioni. Di qui l’esigenza di saper conservare derrate, talora instabili per l’elevata umidità, per lunghi periodi: essiccazione, salagione-salamoia, affumicatura, fermentazioni ecc., procedimenti talora facilitati da “basse” temperature per ragioni climatico-ambientali. Ciò al triplice scopo di approfittare dei periodi più favorevoli alla disponibilità di alimenti, di avere qualcosa da mangiare anche nei periodi sfavorevoli ed infine per poter surrogare la mancanza di alimenti freschi per i lunghi periodi di freddo-siccità, con gli stessi o analoghi prodotti conservati».

«A ben vedere l’agricoltura di oggi fa esattamente le stesse cose: facilita la vita degli “alleati”, ma la rende difficile ai competitori; i prodotti che ottiene li conserva con mezzi spesso diversi e migliori, ma contemporaneamente cerca di prolungare i periodi di produzione con varietà più o meno precoci o più o meno tardive (pesche per 4-5 mesi e non 2); infine, ove conveniente, usa le serre od aree climatiche favorevoli per estendere a quasi tutto l’anno la disponibilità dei prodotti (non a km zero)».

Di questa evoluzione naturale fanno parte sia la tanto demonizzata Rivoluzione verde, che negli anni 70 del passato secolo ha permesso di rispondere alle esigenze alimentari di centinaia di milioni di persone, sia le attuali biotecnologie. Il che non vuol dire che non ci siano dei problemi da affrontare – l’uso razionale dell’acqua, i rischi della desertificazione, l’eccessivo uso di pesticidi, la conversione delle coltivazioni per scopi energetici – ma quasi mai sono gli argomenti proposti dai sostenitori dell’agricoltura “di una volta”.

Perché bisogna aver chiaro che anche quando si parla di agricoltura il centro della questione è l’uomo, con i suoi bisogni. Perciò il principale dovere del sistema agricolo mondiale (che è unico, checché se ne dica) è quello di rifornire i mercati con prodotti alimentari – di origine vegetale e animale – e con beni di consumo – carta, cotone e lana per gli abiti – che siano di buona qualità e a prezzi contenuti. Esattamente l’opposto di quello che si otterrebbe inseguendo certe pericolose ideologie in cui la centralità dell’uomo scompare per far posto a un astratto rispetto del pianeta.