Genderless più sovversivi dei «trans»

genderlessStudi Cattolici n. 615 Maggio 2012

di Pier Giorgio Liverani

II (la?) bambin(o? a?) canadese, al quale i genitori tengono rigorosamente nascosto di che sesso sia e di cui si è parlato qui un paio di volte, sembra ormai avere un futuro assicurato e, quantitativamente, una buona compagnia, almeno nella grande San Francisco, come campione originario e autentico della non-sessualità: né maschio né femmina e nemmeno transessuale ovvero persona passata, magari chirurgicamente, da un sesso all’altro.

Anche la relativamente recente condizione di transessuale, infatti, è superata, perché – spiegano i competenti – «nel corso della propria vita si ha la tendenza a stabilizzarsi all’interno di un genere specifico». Il nuovo gender («genere» autonomamente prescelto dal suo titolare) è infatti qualche cosa di più anche di un transessuale: dovrebbe essere definito più propriamente un genderless, vale a dire una persona senza sesso. Significa che il vero esemplare di questa nuova identità «rivendica il proprio diritto all’indeterminazione sessuale».

I genderless sono, come scrive La Repubblica, «molto più sovversivi dei semplici trans. Rifiutando ogni opposizione binaria, vogliono mettere in scena la dualità uomo/donna senza scegliere a quale sesso appartenere. Vogliono essere al tempo stesso uomini e donne. È per questo che la maggior parte dei transgender rivendica l’etichetta queer – letteralmente strano, bizzarro, eccentrico – e trovano all’interno della teoria queer quegli strumenti necessari per rivendicare il diritto di vivere al di fuori delle categorie di genere tradizionali» (1)

A differenza dei transessuali, che, in ogni caso, scelgono o assumono un sesso diverso da quello in cui non si sentivano a proprio agio, «i transgender non si definiscono come prigionieri di un “corpo sbagliato”. Non cercano un “vero corpo”.

L’idea che possa esistere una “verità” legata alla materialità del corpo viene completamente rigettata. Tutto è artificio, protesi, impianto, trucco, vestito… Tutto pur di arrivare a un “corpo accettabile”, ossia a quell’apparire ambivalente e androgino, che è poi l’unico a incarnare il “compromesso”.

È per questo che la cultura transgender rifiuta drasticamente l’idea di un passaggio definitivo: la transizione da “lui” a “lei”, o da “lei” a “lui”, non sarebbe altro che la prova dell’assoggettamento di un individuo ai discorsi e alle pratiche che cercano di normalizzarne l’esistenza assegnandolo a un’identità specifica».

Transgender & cisgender

Tutto ciò non basta. Nel suo libro Neosexualitàten il sessuologo tedesco Volkmar Sigusch riferisce altre varianti e descrive anche il concetto di «cis-sessualità»: «La coincidenza, considerata normale, tra sesso del corpo e identità sessuale non è un’ovvietà» e «se ci sono i transessuali, devono necessariamente esserci anche i cissessuali», coloro che costituiscono il cisgender». Con la preposizione latina cis, che – è noto – significa «al di qua», questo nome indica i non-transgender, vale a dire le «nate donne» e i «nati uomini» ovvero le «donne genetiche» e gli «uomini genetici» o, ancora, le «bio-donne» e i «biouomini». Tante inutili e artificiose complicazioni per dire «sessualmente normali».

Insomma il transgender (diverso dal transessuale) è sempre e nel medesimo momento uomo e donna e lo è tanto che, a partire dal 2008, il Comune di San Francisco ha cominciato a emettere carte d’identità senza indicazione di sesso. Lo ha fatto sotto le pressioni della locale comunità dei transessuali e, al solito, nel nome dei civil righi, i nostrani «diritti civili» che anche laggiù impazzano.

Non è chiaro se si tratta di un’attenzione particolare per questo quarto, quinto o sesto sesso (ormai se ne è perso il conto) oppure se, sempre in nome dell’uguaglianza dei diritti, la casella che un tempo identificava l’appartenenza al genere dei maschi o delle femmine è vuota o scomparsa per tutti.

Il parere del/della signor/signora Kristina Wertz, direttore/ttrice del Transgender Law Center di San Francisco, è che «questa carta di identità rende l’appartenenza a un sesso un non-problema». Pare a me che i problemi, invece, comincino adesso: per esempio, bisognerebbe scovare dei nomi propri neutri, perché l’unico che in qualche modo possa adattarsi a queste situazioni è Andrea, che in Germania è anche femminile.

Anche se con qualche dubbio (ma ce n’è davvero bisogno? E a che serve?), colei che ci ha fornito le spiegazioni di cui sopra, professoressa di filosofia alla Quinta Università di Parigi, afferma che questo «è forse l’unico metodo per poter uscire definitivamente dagli atavici dualismi ontologici».

I neuroni della moralità

Ontologici, bioetici o morali? Un «grande giurista» (secondo Il Secolo XIX) come Stefano Rodotà si era domandato, qualche tempo fa: «Chi decide sui corpi? Chi ha il governo della vita?». Ora la risposta potrebbe darcela il professor Massimo Piattelli Palmarini, che insegna Scienze Cognitive all’Università dell’Arizona e all’Istituto San Raffaele di Milano ed è direttore del Centre Royaumont pour une science de l’homme di Parigi e che – ormai in fatto di pillole siamo abituati a tutto -preannuncia la probabile «pillola della moralità» (Corriere della sera).

Chi ha fatto questa bella pensata è un suo collega australiano, Peter Singer, filosofo assai celebrato nel mondo «laico». Costui ha scoperto che alcuni ratti, talvolta, premettono il tentativo di salvare un altro ratto prigioniero in una gabbia a una facile e invitante scorpacciata di cioccolata accanto alla trappola.

Di qui Singer ricava due conseguenze e un interrogativo: 1) i topi possono essere dotati di empatia (capacità di condividere la sofferenza altrui); 2) al contrario, gli uomini spesso mostrano una «suprema indifferenza» di fronte a una manifesta, tragica sofferenza di altri esseri umani; 3) domanda: poiché i circuiti del tronco cerebrale e gli ormoni che li attivano sono gli stessi negli uomini e nei ratti, «sarà possibile creare una pillola dell’empatia» che possa «generare compassione in chi ne è spontaneamente carente?».

Questo interrogativo, che ha affascinato Piattelli Palmarini, ha avuto un certo successo perché — come sempre in America, dove già negli anni Settanta l’etologo britannico Richard Dawkins, autore del best setter Le ragioni per non credere, aveva pubblicato anche // gene egoista — una ricerca pubblicata anche dal Wall Street Journal sosteneva la scoperta del gene dell’egoismo (il suo nome scientifico è Avprla) o, più comprensibilmente, una disfunzione del Dna che causa, appunto, l’egoismo.

Questa scoperta era in linea con quella del biologista evoluzionista americano Mare D. Hauser, il quale sosteneva, negli stessi anni, che «la morale sta nel fondo del cervello», espressione divulgativa della sua «scoperta», secondo la quale le capacità morali sono innate, cioè dovrebbero essere «individuate in una serie di strutture neurali dedicate all’analisi morale», o meglio, secondo Hauser, in un «organo morale»; in parole povere, «nei neuroni» (l’Unità).

 La stessa cosa, più o meno, della pedofilia, che dipenderebbe da «un gene alterato»; e della coscienza, che lo afferma il settimanale britannico New Scientist – proprio quest’anno (il 2012 è l’«anno del cervello», La Stampa) potrebbe finalmente essere individuata nelle pieghe delle circonvoluzioni cerebrali. Così – per la gioia degli abortisti – si potrà rivoluzionare un vecchio concetto da conservatori e fondamentalisti e affermare che, per esempio, «l’obiettore è senza coscienza» (// Fatto Quotidiano).

Addio libero arbitrio

Per completare il quadro delle recenti ricerche sul cervello che dilagano sui giornali e piacciono tanto allo scientismo materialista, bisogna dar conto anche delle ultime scoperte del Centro Bernstein per la Neuroscienza Computazionale di Berlino.

Grazie alla risonanza magnetica funzionale questo ha accertato che noi, poveri uomini che ci credevamo una specie di ammasso di razionalità, saremmo invece miseramente determinati (non si comprende se «auto» o «etero») da una serie di processi fisiochimici. In parole semplici, ogni nostra scelta o decisione, dalla più importante (per esempio sposarsi) alla più banale (alzare un dito) è puramente illusoria.

Cito: «Nel momento in cui voi decidete “liberamente” di alzare il dito destro o quello sinistro, dentro il vostro cervello la decisione è già determinata dalla biochimica, a vostra insaputa, da almeno una decina di secondi» (// Sole 24 Ore). Addio libero arbitrio, libertà di pensiero, di parola e di voto, libertà dai dogmi e dai divieti della religione o dalle leggi di un dio sconosciuto e prepotente: tutto ciò che piace ai razionalisti, agli atei, ai laicisti va a farsi benedire.

Senza dover ricorrere alla RMF, che fotografa l’attività del cervello, lo aveva detto già tre secoli e mezzo fa il filosofo Baruch Spinosa (Baruch in ebraico vuoi dire Benedetto): «La sensazione di prendere una decisione consapevole appare non essere altro che un effetto psicologico successivo agli eventi biochimici che hanno già determinato l’esito della decisione». Possibile che nessuno abbia pensato che quegli eventi biochimici, sempre che esistano, potrebbero essere l’effetto della rapidissima elaborazione mentale del soggetto che compie la scelta?

Nessuno, neppure un altro neuroscienziato del University College di Londra, Patrick Haggard, il quale ha scritto su Nature: «Pensiamo di scegliere, ma in realtà non scegliamo niente». Benedetto Spinoza! Nemmeno lui si era accorto che la sua intuizione, oggi apparentemente confermata dalla tecnologia medica, era il frutto di una combinazione elettrochimica cerebrale.

Poveri inventori e ricercatori, poveri laicisti, come potranno adesso far ricorso alla dea Ragione? Dovranno dubitare che anche la loro razionalità sia realmente fratto di una scelta morale. E come si potrà incolpare, che so, un assassino? Dovremo trasformare le carceri in ospedali psichiatrici giudiziari proprio adesso che i nosocomi penali stanno per essere aboliti?

Ahimè, queste teorie filosofico-scientifiche riportano indietro l’idea di uomo alle concezioni esclusivamente «naturalistiche» di fine Ottocento: l’identificazione dell’uomo soltanto con il suo sostrato fisico naturale, mentre dovrebbe essere chiaro che la «differenza» che «fa» l’uomo è, almeno e al di fuori delle sue prospettive spirituali e metafisiche, «la capacità di arricchire la propria dotazione innata aprendo una gamma di possibilità acquisitive che a loro volta si riflettono sulla sua stessa costituzione genetica». E se lo scrive un giornale come Repubblica qualcosa dovrà pur significare.

Nota

1) La teoria queer è una teoria critica sul sesso e sul genere emersa all’inizio degli anni Novanta in seno agli studi gay e lesbici,  agli studi di genere e alla teoria femminista. Questa teoria mette in discussione la naturalità dell’identità di genere, dell’identità sessuale e degli atti sessuali di ciascun individuo, affermando che questi sono interamente o in parte costruiti socialmente e che, quindi, gli individui non possono essere realmente descritti usando termini generali come «eterosessuale» (meglio dire: «normale» -N.d.A.) o «donna», «uomo».

La teoria queer contesta pertanto la pratica di dividere in compartimenti separati la descrizione di una persona, perché «entri» in una o più particolari categorie definite. Laddove gli studi gay e lesbici analizzano in particolare il modo in cui un comportamento viene definito «naturale» o «innaturale» rispetto al comportamento normale, la teoria queer giustifica e comprende qualsiasi attività o identità sessuale che ricada comunque entro le categorie di normativo e deviante (tratto da Wikipedia).