L’aborto nuoce alla salute mentale

Priscolla_ColemanStudi Cattolici n.614 aprile 2012

Colloquio con Priscilla K. Coleman

di Luca Monterone

Priscilla K. Coleman (foto) è docente di Sviluppo Umano e Studi sulla Famiglia alla Bowling Green State University, Ohio. È autrice di numerosi articoli scientifici tra cui ben 33 sulle conseguenze dell’aborto sulla salute mentale della donna, record che l’ha trasformata nell’esperta mondiale sull’argomento. È stata chiamata come consulente da molti Stati e tribunali, nonché a tenere relazioni alle Nazioni Unite e al Congresso americano.

Nel numero di settembre 2011 del «British Journal of Psychiatry» ha pubblicato uno studio intitolato Abortion and mental health: quantitative synthesis and analysis of research published 1995-2009. In esso, radunando i risultati degli studi parziali, avanza conclusioni statistiche molto più rilevanti. Tuttavia, questa meta-analisi ha suscitato forti contestazioni, alle quali Coleman risponde in questa intervista rilasciata all’agenzia internazionale MercatorNet, curata per Sc da Luca Monterone

Quali sono le sue principali scoperte e qual è l’importanza che lei attribuisce a questo stu­dio?

L’articolo offre la più ampia valutazione della letteratura medica disponibile nel mondo circa il rischio per la salute mentale associato all’aborto. Il risultato rivela un rischio – che va da moderato ad altissimo – di disagi mentali in seguito all’aborto. Poiché fondata su prove mediche, quest’informazione dovrebbe essere usata dai professionisti della salute mentale. Questi sono i risultati fondamentali, che ogni donna dovrebbe conoscere: complessivamente, le donne con una storia di aborto affrontano un rischio di disturbi mentali superiore alla media in un 81%.

I risultati mostrano che questo rischio varia dal 34% al 230%, a seconda della natura del disagio. L’aumento del rischio di ansia è del 34%; di depressione, 37%; di abuso di alcol, 110%; uso o abuso di marijuana, 220%; comportamenti suicidi, 155%. Nel caso delle gravidanze inattese, le donne che la interrompono aumentano del 55% il rischio di contrarre qualche malattia mentale. Infine, quasi il 10% di tutte le malattie mentali è direttamente attribuibile all’aborto.

CONTRO I DEPISTAGGI PSEUDOSCIENTIFICI

Perché è stata fatta questameta-analisi?

Le relazioni meno sistematiche della letteratura scientifica sull’aborto e la salute mentale recentemente pubblicate,compreso l’American Psycological Association Report del 2008 e una ricerca della John Hopkins University tra le altre, sono proni al pregiudizio e come risultato depistano attivamente il pubblico. I medici hanno bisogno di un’accurata sinossi dei migliori rapporti disponibili allo scopo di fornire alle donne un’informazione valida perché possano prendere decisioni consapevoli sulla loro salute.

In che cosa questa mata-analisi è diversa dai molti altri artìcoli e rapporti pubblicati negli ultimi anni? Perché dovremmo credere che l’informazione di una meta-analisi sia più accurata e affidabile e meno prevenuta?

Una meta-analisi è una sintesi quantitativa o numerica dei dati di molti studi previamente pubblicati. In una meta-analisi non tutti gli studi sono trattati allo stesso modo. I contributi dei singoli studi sono trattati statisticamente. Ma solo gli studi condotti con rigorosi criteri metodologici entrano nell’analisi.

Non così per altro tipo di referti dove gli autori non rivelano i criteri utilizzati oppure questi sono troppo restrittivi (studi mancanti di valore) o troppo generale (compresi gli studi deboli nelle conclusioni). La linea di fondo è che i risultati sono molto più attendibili dei risultati di un singolo studio o di un resoconto qualitativo, e ciò per la consistenza dei dati inseriti e dei metodi obiettivi per com­binare gli effetti.

Non è possibile che le meta-analisi siano diverse in consistenza e affidabilità? Che cosa distingue la sua? Al fine di evitare ogni accusa di pregiudizio, sono stati impiegati criteri molto rigorosi. Ciò significa che ogni studio forte è stato incluso e quelli deboli esclusi. In particolare, tra le regole per l’inclusione si richiedeva aver usato campioni di oltre cento partecipanti, aver costituito gruppi di confronto, e avere disposto controlli per le variabili che potevano confondere gli effetti, come gli aspetti demografici, l’esposizione alla violenza, la storia pregressa o i problemi già esistenti di salute mentale.

La meta-analisi si basa su 22 studi pubblicati e 36 risultati, su un totale di 877.181 partecipanti, dei quali 163.831 avevano abortito. L’articolo è stato pubblicato su un periodico molto prestigioso, il British Journal of Psychiatry, che è considerato una delle migliori riviste di psichiatria del mondo. Questo significa che il testo è sta­to esaminato a fondo da scienziati di chiara fama e che i risultati sono stati condivisi da medici del mondo intero.

Lo studio ha attirato molte critiche – anche da parte della American Psycological Association — e lei è stata accusata di tutto: da incompetenza professionale a pregiudizi personali. È rimasta sorpresa da questo sbarramento?

Assolutamente no. È molto più facile per loro attaccare me che accettare la realtà delle conseguenze negative dell’aborto nella salute mentale, una realtà che va contro i «diritti civili» che l’APA (American Psycological Association) ha invocato negli ultimi decenni. Loro sì che sono estremamente pieni di pregiudizi su questa materia e non sarebbe realistico per me aspettarmi di essere facilmente riconosciuta dall’APA o da gruppi simili come una scienziata ben preparata.

Qualcuna delle critiche è valida, secondo lei? Che cosa dice rispetto all’accusa che lei non avrebbe verificato la preesistenza di disagi mentali nelle donne che li hanno avuto dopo l’aborto? E il fatto che metà degli studi da lei visionati fossero firmati o cofirmati da lei stessa?

Abbiamo selezionato studi che comprendessero controlli per 3 variabili, e la storia psicologica precedente fu controllata in 11 dei 22 studi inclusi.

ERRORI METODOLOGICI FRUTTO DI PREGIUDIZI

Uno studio danese pubblicato nel New England Journal of Medicine mentre il suo era in corso di pubblicazione è stato comparato favorevolmente con il suo. In che cosa quello studio ha contribuito alla conoscenza del problema?

Molto poco, veramente. Gli .autori hanno potuto pubblicare sul NEJM perché giungono a conclusioni politicamente corrette. In realtà ci sono parecchi problemi in quello studio. I ricercatori si concentrano sul fatto che non c’è una differenza statisticamente significativa tra le prime ammissioni di degenti e le visite psichiatriche ambulatoriali prima e dopo l’aborto, concludendo che è improbabile che la procedura dell’aborto causi problemi di salute mentale.

Tuttavia ci sono problemi ben più grossi con questa conclusione, in primo luogo la misura dei problemi di salute mentale prima dell’aborto è probabilmente alta (più di tre volte quella di prima della nascita, 14,6% contro 3,9%). Può essere dovuto al fatto che molte donne erano in mezzo al disagio della decisione di abortire quando hanno fatto la prima visita psichiatrica, oppure erano coinvolte in relazioni instabili se non violente.

Questo alto tasso di problemi nella salute mentale prima dell’aborto è costruito per indicare che le donne che scelgono l’aborto subiranno frequentemente disagi mentali dovuti a fattori diversi dalla procedura clinica. Infatti le donne del campione di questo studio rientrano difficilmente in questa «vulnerabile» categoria dal momento che nessuna di esse aveva una storia di diagnosi psicologiche precedenti ai nove mesi prima dell’aborto.

Queste ricerche usano una finestra da 0-9 mesi per misurare la salute mentale pre-aborto, mentre la valutazione dovrebbe essere fatta prima della scoperta della gravidanza. Ma pure con questi limiti, i dati sul tasso di problemi mentali sono significativamente più alti dopo l’aborto che dopo la nascita del bambino (15,2% contro 6,7%) e più alti anche che nelle donne non incinte (8,2%). La linea di fondo è: il fatto che abbiano trovato tassi comparabili prima e dopo l’aborto non nega il possibile nesso causale tra aborto e salute mentale.

Ciò è vero perché molte donne erano verosimilmente disturbate fino al punto di cercare aiuto, perché erano incinte e stavano pensando all’aborto, oppure l’avevano già scelto ed erano in attesa, oppure erano coinvolte in relazioni problematiche. Ci sono numerosi studi che indicano alti livelli di stress tra le donne che affrontano una gravidanza indesiderata e che considerano la possibilità di abortire, e molte donne che cercano l’aborto si trovano in relazioni irregolari.

In secondo luogo, gli autori notano all’inizio dell’articolo che gli studi precedenti non hanno controllato alcune variabili, ma che considerano soltanto le variabili di età e parità. Non controllano il desiderio di gravidanza, la coercizione di altri all’aborto, lo stato della coppia, il redito, l’educazione, l’esposizione alla violenza o ad altri traumi ecc.

Molti studi sono ritenuti inadeguati perché calcolano solo una o due di queste variabili, e perciò non vengono considerati (vedi AFA, Task Farce Report 2008). Eppure lo studio in questione fu ritenuto tanto adatto da meritare la pubblicazione sul NEJM. In terzo luogo, tutte le donne che hanno avuto storie psichiatriche più di nove mesi prima dell’aborto non furono incluse nello studio, mentre molti altri studi mostrano che queste donne corrono il più alto rischio di problemi mentali dopo l’aborto.

In questo studio i ricercatori hanno ristretto il sondaggio comprendendo solo donne in buona salute, e tuttavia ci sono alti tassi di problemi sia prima sia dopo l’aborto. S’immagini se fossero state ammesse tutte le donne! Così anche non sono state considerate assolutamente le donne con plurime esperienze di aborti, mentre esse sono più verosimilmente a rischio per la salute mentale.

Quarto, la ricerca segue le donne solo per un anno dopo l’aborto o il parto, mentre esistono abbondantissime prove sul fatto che le conseguenze dell’aborto possono non venire a galla per diversi anni. Ci sono anche dati che indicano che più frequentemente le donne soffrono di problemi psicologici subito dopo il parto e in questi casi i benefici della maternità si manifestano spesso dopo il primo anno, durante il quale sono stati necessari molti aggiustamenti dello stile di vita.

Il sistema di registro civile danese, che è la fonte di queste informazioni, contiene più di 40 anni di dati, mentre i ricercatori hanno selezionato un periodo di solo 12 anni. Una strategia di analisi più appropriata sarebbe stata quella di includere tutte le donne che hanno sperimentato un aborto, un parto e anche quelle che non sono state in gravidanza, e allora comparare le visite psichiatriche prima e dopo la gravidanza con le statistiche di tutte le visite psichiatriche previe a una gravidanza, tenendo presenti le variabili indicate prima.

Credo che i risultati sarebbero stati assai coerenti con le dozzine di studi pubblicati negli ultimi anni su riviste di grande impatto che mostrano come l’aborto accresca il rischio di contrarre una gamma di malattie mentali.

Eppure, anche senza veri miglioramenti del progetto, i risultati pubblicati da questo studio indicano l’aumento di particolari diagnosi durante il primo anno. Il rischio di dover ricorrere a visite psichiatriche per nevrosi, problemi di stress o disordini psicosomatici è del 47% e 37% più alto dopo l’aborto piuttosto che 2 o 3 mesi prima. Inoltre i contatti psichiatrici per disturbi di personalità o di comportamento sono rispettivamente  del  56%, 45%, 31% e 55% più alti ai 3, 4, 6 e 10-12   mesi dopo l’interruzione della gravidanza.

Tornando ai pregiudizi personali, un paio di critici l’hanno definita una propagandista antiaborto. Lo è? Riceve fondi da gruppi pro-life?

No. Non appartengo a nessuna organizzazione politica né il mio lavoro è stato mai sostenuto da alcun gruppo pro-life. Come professoressa in un’università pubblica, quel che mi ha sempre motivato è semplicemente il desiderio di promuovere ricerche di alta qualità e di raggiungere il maggior numero possibile di persone con un’accurata stima della letteratura, dati i pregiudizi che permeano lo studio dell’aborto e la divulgazione dell’informazione attraverso i normali canali.

Le hanno mai chiesto di rivolgersi a un gruppo pro-choice?

Non fuori della mia università, ma ho avuto dei colleghi pro-choise che tengono corsi sulla salute della donna e che mi hanno invitata a tenere lezioni sulla ricerca su aborto e salute mentale.

MEDIA PIÙ ATTENTI AI TRAUMI DELL’ABORTO

Le è difficile fare della ricerca su questo argomento e renderla pubblica sulle principali riviste?

Non è mai facile quando i risultati sono così contrari a ciò che i gruppi politici dominanti vogliono ascoltare, ma noi perseveriamo e continuiamo a presentare gli articoli finché non trovano posto. Ho pubblicato circa 30 articoli sull’argomento; certe volte è molto difficile e ci si mette anni, certe altre vengono accettati al primo tentativo. Facciamo sempre molta attenzione alla nostra metodologia, perché bastano uno o due errori perché l’articolo sia rifiutato. Sembra che questi contributi debbano rispondere a standard molto più alti rispetto a quelli che non parlano di complicanze legate all’aborto.

Dal momento che l’aborto è così politicizzato, bisognerà sempre sopportare accuse di pregiudizio, di pignoleria metodologica o perfino la pressione per impedire che venga pubblicata questa informazione? Ci sono segnali di apertura a quest’argomento da parte della comunità scientifica o dei professionisti della salute?

La spinta generale verso una pratica medica fondata su basi dimostrate sta crescendo perché tutti i servizi siano sostenuti dai dati della ricerca attuale. Professionisti influenti non associati a gruppi pro-life hanno riconosciuto l’evidenza scientifica. Tra questi, Dingle in Australia, Pedersen in Norvegia e Fergusson in Nuova Zelanda. Fergusson e i suoi colleghi (2006) conclusero: «La presente ricerca solleva la possibilità che per alcune giovani donne l’esperienza dell’aborto sia un evento traumatico che aumenta a lungo termine la probabilità di contrarre malattie mentali comuni».

Dopo che fu pubblicato lo studio di Fergusson, un gruppo di psichiatri e di ostetrici scrisse una lettera al Times di Londra dicendo: «Poiché non si può più dire che la donne che abortiscono affrontano un rischio minimo di problemi psichiatrici come la depressione, i medici hanno il dovere di avvertire sulle conseguenze nocive a lungo termine dell’aborto».

C’è anche una maggiore disponibilità da parte dei principali news media a descrivere la ricerca. Bei rapporti sono usciti sul Wall Street Journal e sul Times tra gli altri. Negli anni recenti i danni provocati dagli aborti hanno ricevuto una maggiore attenzione pubblica. Le donne sono più esplicite e l’argomento dell’aborto sta trovando la sua strada nei media popolari. Un bell’esempio è il film di Bruce Issacson South Dakota: A Wornan’s Righi to Choose, nel quale si segue la vita di due adolescenti; una sceglie l’aborto e l’altra il parto.

Quanto è importante per le donne che prevalga un approccio veramente scientifico? Estremamente importante. Questa è una pratica medica molto comune e almeno il 20% delle donne che abortiscono rischiano seri problemi psicologici. Hanno il diritto di sapere se sono nel gruppo ad alto rischio e qual è il rischio reale nel periodo successivo, così come si fa in ogni altra procedura medica.