Il "momento cattolico" negli Stati Uniti

Chiesa_UsaLa Bussola quotidiana 31 marzo 2012

Sin da quando, tra la fine egli anni 1940 e la prima degli anni 1950, il conservatorismo ha cominciato a prendere piede nella società americana, prima come opzione culturale quindi anche come “movimento” di popolo capace alla lunga di condizionare pure il mondo politico, la percezione – più volte espressa per iscritto dai suoi storiografi – è stata che i cattolici ne costituissero la maggioranza, o che comunque ne egemonizzassero le sorti.

di Marco Respinti

Richard John Neuhaus (1936-2009) è stato una delle figure di spicco del cattolicesimo statunitense contemporaneo. Nato a Pembroke, in Ontario, naturalizzato statunitense, sacerdote, ex progressista ammaliato dai cortocircuiti del cosiddetto “social Gospel”, è venuto man mano guadagnando l’ortodossia dottrinale e la fedeltà anche consolatrice alla Tradizione che vive nel Magistero.

Gli sopravvive ancora oggi il mensile di raffinata elaborazione culturale che fondò nel 1990, First Things (allora First Things: A Monthly Journal of Religion and Public Life), attualmente diretto da Russell Ronald Reno III, docente di Teologia alla Creighton University, l’ateneo che i padri gesuiti dirigono a Omaha, in Nebraska. Ciò che fece mutare radicalmente indirizzo a Neuhaus fu la sentenza con cui, il 22 gennaio 1973, la Corte Suprema federale legalizzò l’aborto negli Stati Uniti. E la sua mutazione giunse così lontano da farne uno dei consiglieri ufficiosi, in materia di fede e di religioni, del presidente George W. Bush jr.

Uno dei libri più intriganti dei molti, acuti, che Neuhaus ha firmato nella sua feconda carriera porta un titolo impegnativo, The Catholic Moment: The Paradox of the Church in the Postmodern World (HarperCollins, New York 1987), ovvero “Il momento cattolico: il paradosso della Chiesa nel mondo postmoderno”, dove il vocabolo “momento” regge il doppio significato che gli è proprio, rendendo l’idea de “l’oggi del cattolicesimo” e contemporaneamente quella de “l’importanza del cattolicesimo”.

Del libro, la «tesi centrale […]», spiega autorevolemente Robert Royal, intellettuale cattolico americano di spicco (legato a Neuhaus da un sostanziale comune sentire, sovente espresso con la peraltro riduttiva etichetta di “neoconservatorismo cattolico”), «era che, data l’apostasia del protestantesimo delle Chiese maggioritarie, la povertà intellettuale dell’evangelicalismo e l’inadeguatezza assoluta del laicismo, il cattolicesimo rinascente sotto il pontificato di Papa Giovanni Paolo II: 1) nel mondo è il più importante singolo portatore del credo cristiano e della morale che ne discende; e 2) dovrebbe quindi assumere “quel giusto ruolo che gli spetta nell’intrapresa di formare una cultura atta a costruire una filosofia pubblica improntata alla religione che all’esperimento americano di libertà ordinata serve”».

Parole impegnative, quelle di Neuhuas (e di Royal) persino “scandalose” per chi è abituato – e sono (ancora) molti – a ritenere il cosiddetto “esperimento americano” – meglio: l’esperienza, storica, americana – come il frutto più maturo del laicismo, magari non livorosamente aggressivo e però onnipervasivo, dell’illuminismo più “adulto” o, d’altro canto, di quel protestantesimo che fa, sin  dall’inizio e palesemente, degli Stati Uniti “un Paese protestante”, nell’uno e nell’altro caso comunque qualcosa di ben diverso, anzi di molto lontano dal cattolicesimo.

CATTOLICI E PROTESTANTI

Le riflessioni di quel Neuhaus del 1987 hanno ovviamente innescato, direttamente e non, un dibattito forte anche se magari carsico, che da decenni attraversa sempre, anche quando non visto, la “questione americana”. Ha cioè scatenato pro e contro sia “a destra” sia “a sinistra” del panorama culturale, e anzi lo stesso Neuhaus ha continuato, per gli anni che gli sono rimasti, a riflettere, a “rinfrescare” e a glossare quella sua stessa idea.

Ma la cosa più strabiliante di tutte è che quando, nel ricordato 1987, diede alle stampe “The Catholic Moment”, Neuhuas non era né sacerdote né cattolico, ma pastore luterano. Ordinato nella Chiesa luterana-Sinodo del Missouri, transitato poi ad altre Chiese luterane statunitensi, Neuhaus frequentava quel mondo detto “evangelical Catholicism” (una sorta di “Chiesa alta” all’interno del luteranismo, per provare ad alludere a una spiegazione evocando un’analogia con quanto avviene dentro la Comunione Anglicana) che prevede anche momenti conventuali quali la Saint Augustine’s House, il monastero benedettino luterano di Oxford, nel Michigan, al tempo frequentato dall’autore di “The Catholic Moment” fortemente affascinato dalla teologia dell’allora cardinale Joseph Ratzinger.

Cattolico Neuhaus lo è diventato tre anni dopo la pubblicazione di quel suo libro importante, l’8 settembre 1990; ma ciò non gli ha impedito di venire inserito dal settimanale (statunitense ma di portata internazionale) Time fra i 25 predicatori protestanti evangelicali più influenti del 2005, assieme all’”arcicattolico” conservatore, e oggi candidato nelle primarie del Partito Repubblicano, Rick Santorum.I due fatti – il luterano Neuhaus che annuncia la cogenza del “momento cattolico” negli Stati Uniti e il laico (laicista?) Time che, nella sua “lucida confusione”, sovrappone evangelical e cattolici – sono altamente rivelatori di un clima. Dominante.

Non indicano – come maliziosamente non manca chi insinua – la “protestantizzazione” endemica (e “liberale”) del cattolicesimo americano (né tantomeno la mera “cattolicizzazione” del protestantesimo statunitense, che comunque molti meno ipotizzano), o il trionfo di una “religione civile” – magari condita in salsa massonicheggiante – che mescola elementi diversi accomunati solo dalla lontananza rispetto all’ortodossia cattolica, o infine (ennesima variazione) il successo di un “pensiero conservatore” che unisce fattori anche religiosi diversi esclusivamente per sostituire un cultura alla vera fede.

I due fatti rivelano piuttosto la giustezza e la puntualità della profezia (in senso letterale) di Neuhaus: negli Stati Uniti, il  “momento cattolico”, che allora veniva preconizzato, è oggi una realtà. Nei fatti. Non solo per la crisi palese del mondo protestante – rispetto alle ragioni profonde di sé e al saperle dare in pubblico – o per quell’intrinseca contraddittorietà che conduce all’insipienza (pur nella sua violenza) della proposta laicista, ma per la qualità oggettiva dell’offerta cattolica nel mettere a disposizione elementi utili a costruire – come diceva il beato Giovanni Paolo II (1920-2005) una società a misura di uomo e secondo il piano di Dio.

Da anni – questo ciò che il Neuhus protestante intuì nel 1987 – il cattolicesimo è il sale della terra statunitense, e oggi il fenomeno è quantificabile, visibile, pubblico. Si conta sul numero delle conversioni, famose e non, per le quali un luogo non unico ma decisivo d’incubazione è la galassia pro-life, dove i protestanti vengono giornalmente affascinati, prima ancora che da ogni questione specificamente teologica, dall’impegno dei cattolici nell’affermare la Signoria totale di Cristo con quel perfetto zelo evangelico di cui proprio i protestanti vorrebbero vantare l’esclusiva. Il movimento pro-life statunitense non nasce di per sé come fenomeno cattolico; le “folle cattoliche” sono arrivate dopo, ma oggi ne sono l’anima. Ed è lì che l’ecumenismo (e il dialogo interreligioso) smette di essere una teoria da salotto per diventare un impegno personale, finendo nell’unico modo che dà senso al dialogare fra opinioni diverse: la conversione alla verità di chi ha torto.

Eppoi negli Stati Uniti il tono dei dibattiti pubblici sempre più spesso lo danno i cattolici. La proposta culturale cattolica viene oramai tranquillamene percepita come una realtà “americana” con pieno diritto di cittadinanza, non più (come accadeva in tempi diversi) “straniera”. La morale difesa pienamente dalla dottrina cattolica è la legge naturale che sta alla base anche delle scelte etiche (magari talvolta più tentennanti o incomplete) di altre obbedienze religiose che quindi si affratellano. E non solo.

CONSERVATORI E OLTRE

La presenza e l’”accettazione” sociale dei cattolici è oramai imponente anche nel terreno “infido””della politica. Che i cattolici ricoprano cariche politiche e posti istituzionali elevati, addirittura ai vertici del Paese, dalla vicepresidenza federale alla presidenza della Camera nel Congresso di Washington, è oramai un fatto normale; persino che per la nomination presidenziale corra un cattolico avvezzo alla scuola contro-rivoluzionaria del pensatore brasiliano Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995) qual è Santorum, e con risultati non solo ma anche numerici mai visti in elezioni primarie.

Ma la notizia è questa: è ovviamente assai diverso se alla vicepresidenza federale, accanto a Barack Obama, siede il cattolico liberal Joe Biden o altri; oppure se la Camera federale è guidata dalla cattolica strenuamente filoabortista Nancy Pelosi come lo era ieri o dal cattolico fedele al Magistero John Boehner com’è oggi. Perché per il mondo non-cattolico accettare cattolici come Biden e la Pelosi è facilissimo, ma digerire un Bohener meno, figuriamoci un Santorum.

Ora, che il mondo del conservatorismo statunitense sia oggi impregnato di spirito cattolico è un fatto così acclarato che cominciano a prenderne atto persino gli studi accademici – come ultimamente fa Howard Schweber, professore associato di Scienze politiche e di Diritto all’Università del Wisconsin di Madison -, ma questo s’innesta su una storia che a quelle latitudini si racconta da tempo.

Sin da quando, tra la fine egli anni 1940 e la prima degli anni 1950, il conservatorismo ha cominciato a prendere piede nella società americana, prima come opzione culturale quindi anche come “movimento” di popolo capace alla lunga di condizionare pure il mondo politico, la percezione – più volte espressa per iscritto dai suoi storiografi – è stata che i cattolici ne costituissero la maggioranza, o che comunque ne egemonizzassero le sorti. Non era vero (e ancora non lo è del tutto oggi) in termini numerici, ma lo è sempre stato nel senso che in esso i cattolici sono (e sono stati) quelli capaci di dare il tono e il sapore, anche se minoranza, articolando una filosofia pubblica in grado di essere avvertita come propria, o comunque non contrastante con il proprio credo anche religioso, pure da chi cattolico non era.

Un fenomeno del resto comprensibile: se per “conservatorismo” s’intende, infatti – come negli Stati Uniti s’intende -, la difesa di una visione del mondo fondata anche sulla ricaduta sociale e politica di una filosofia perenne di cui i “princìpi non negoziabili”, il senso comune e il diritto naturale sono il “catechismo”, è naturale che esso entri in contatto, s’intersechi e talora si amalgami con gli ambienti più “conservatori” di Chiese e comunità religiose, ovvero quelli più fedeli alle dottrine fondanti, nel caso del cattolicesimo la Rivelazione affidata alle Scritture e la Tradizione viva nel Magistero.

Ma il punto è che negli Stati Uniti non solo gli ambienti culturali (e politici) conservatori sono quelli dove più è evidente la “cattolicizzazione”. È infatti così per l’intera cultura americana, addirittura – provocatoriamente – per il cosiddetto “american way of life“. Certo, un conservatore direbbe che così è perché la vera cultura statunitense è quella difesa dal conservatorismo, il quale così si chiama proprio perché difende l’autenticità dello spirito e delle istituzioni americane. Sul piano culturale, al conservatore questo è lecito concederlo; eppure è legittimo fare un passo oltre il conservatore. Ovvero aggiungere che il “momento cattolico” preme sulla cultura americana tout court anche per chi (ancora) non coglie, o non si riconosce, nel legame tra conservatorismo e difesa dell’autentico spirito americano.

ALLA SCUOLA DI PAPA BENEDETTO XVI

Anche solo per illustrare questo pensiero (prima ancora, cioè, d’immaginare di documentarlo puntualmente) servirebbe una enciclopedia, non lo spazio di un articolo. Basta allora, in questa sede, riferirsi alle parole pronunciate da Papa Benedetto XVI durante il viaggio apostolico compiuto negli Stati Uniti dal 15 al 21 aprile 2008, ovvero – com’è stato bene detto – a quella “enciclica itinerante” che sono stati i numerosi discorsi da lui proferiti in quell’occasione.

Il pontefice ha infatti ricordato il carattere precipuo dell’esperienza americana, fondata sul diritto naturale che tale è perché – afferma apertamente lo spirito americano – si basa sul Dio che di quel diritto e di quella natura è Signore e creatore; dunque un Paese cristiano, le cui luci non negano l’esistenza di ombre (come peraltro avviene in tutto ciò che è umano), ma che segna nell’epoca moderna “della secolarizzazione” un punto notevole, anzi pone una vera sfida: la possibilità di essere, nel tempo moderno, cristiani anche modernizzati (nel senso tecnologico dell’espressione) senza per forza di cose dover essere modernisti sul piano filosofico-teologico e socio-politico-economico.

Ovvero l’unicum di un Paese privo di una religione di Stato ma cristiano più di molti alti che viceversa conoscono religioni, anche cristiane, di Stato (esempio eminente il Regno Unito); e questo perché, fondandosi sulla libertà religiosa che non può mai essere proclamata separatamente dalla verità che è Cristo risorto e vivo oggi nella sua unica Chiesa, quel Paese non è affatto il frutto di un mondo che positivamente si scristianizza, rigettando – in Europa avviene da dopo e a causa della Rivoluzione Francese (1789-1815, a voler, correttamente, considerare come parte integrante di essa pure l’”età napoleonica”, 1799-1815) – la forma concreta (pure discutibile, perché no) che la politica cristiana ha assunto sul Vecchio Continente empiricamente – vale a dire pure contingentemente -, cioè le Chiese di Stato. Ma così perché Paese nato da un’ipotesi differente.

Prima che gli europei vi portassero il proprio cristianesimo, negli Stati Uniti non esisteva una Chiesa di Stato di cui poi polemicamente disfarsi. Gli europei cristiani trovarono in America un Paese da evangelizzare dal principio. E quegli evangelizzatori europei sbarcarono sui lidi americani carichi di tutte le proprie virtù e pure di tutti i propri peccati, con le loro forze così come con i loro punti deboli. Giunsero cioè divisi in Chiese cristiane europee diverse e così, divisi e diversi, presero a evangelizzare.

Provvidenzialmente – e assai pragmaticamente -, fu stabilito che non vi dovesse essere alcuna Chiesa di Stato, altrimenti i cattolici, allora minoranza infinitesima, sarebbero stati numericamente schiacciati dai non-cattolici, e per sempre inibiti dalla legge fondamentale del Paese. Questo accadde non certo per fare un favore ai cattolici, ma perché, con realismo, i Padri fondatori degli Stati Uniti vollero esplicitamente rispettare quella libertà che, da cristiani di varie obbedienze quali erano, riconoscevano intrinseca nell’essere umano, e che per di più rispettava la frammentazione confessionale del popolo. Anzi, per meglio capire e farsi capire, vietarono anche al potere legislativo di interferire con le Chiese o di preferirne una alle altre.

Su questo fatto, erroneamente interpretato come relativismo, si è così inserita la libertà delle Chiese, lanciate da subite in una sfida all’insegna del “vinca il migliore” -ovvero la missione. L’esito “di mercato” è che oggi  (da tempo) i cattolici costituiscono la maggioranza relativa del Paese, cioè la confessione maggioritaria:  sono meno di tutti gli altri protestanti del Paese messi assieme, ma assieme tutti i protestanti del Paese non ci stanno affatto.

LE RADICI, L’ALBERO E I SUOI FRUTTI

Negli Stati Uniti, oggi, la battaglia per l’affermazione della morale naturale che anima la dottrina cattolica – configurando non l’umanesimo migliore, ma l’unico veramente possibile – si combatte mediante la difesa del diritto che ogni uomo ha di godere della libertà religiosa che è scolpito a lettere d’oro nella Costituzione federale: ebbene, si tratta di un lotta di popolo e di Chiese che conosce un capo, e questi è il capo dei vescovi cattolici; così che il protestante “fondamentalista” Mike Huckabee, ex governatore dell’Arkansas di fede battista, può gridare ai quattro venti (cioè alla convention annuale di quella parte del “movimento” conservatore americano che mantiene rapporti organici con la politica, cioè di fatto adesso con il Partito Repubblicano): «Oggi siamo tutti cattolici». Con il capo dei vescovi cattolici, mons. Timothy M. Dolan, arcivescovo di New York, oggi vero “capo degli americani”, che per iscritto saluta e ringrazia.

Gli europei divisi e litigiosi che giunsero in America Settentrionale secoli fa si portarono dietro quelle virtù e quei difetti da cui sono nati i documenti fondamentali degli Stati Uniti: il Patto del Mayflower, la Dichiarazione d’Indipendenza, gli Articoli della Confederazione, la Costituzione federale con i suoi primi Dieci Emendamenti detti Bill of Rights, nonché strumenti politologici indispensabili quali Il federalista: commento alla Costituzione degli Stati Uniti: raccolta di saggi scritti in difesa della Costituzione degli Stati Uniti d’America approvata il 17 settembre 1787 dalla Convenzione federale (trad. it. con introduzione di Gaspare Ambrosini [1886-1985], e appendici di Guglielmo Negri [1926-200] e Mario D’Addio, Nistri-Lischi, Pisa 1955) – testi scritti con lo pseudonimo comune di «Publius» da James Madison (1751-1836), John Jay (1745-1829) e Alexander Hamilton (1755/1757-1804) – e, specularmente, Gli antifederalisti. I nemici della centralizzazione in America, 1787-1788 (saggio introduttivo e antologia dei testi di Luigi Marco Bassani, a cura di Alberto Giordano, IBL Libri, Torino 2011). Documenti ricettori, cioè, dell’ethos americano, di cui pure pongono i limiti.

Nell’enciclopedia sopra evocata che prima o poi occorrerà decidersi a scrivere bisognerà illustrare e documentare bene quanto cattolicesimo intrinseco si sono senza sapere portati appresso quegli evangelizzatori europei di fatto appartenenti a Chiese varie: i frutti di quella fatale inconsapevolezza sono infatti oggi tutti “su piazza” da contemplare.  Il “momento cattolico” degli Stati Uniti è qui e ora, ora e sempre.