Il Patto con il Serpente

Giuss_e_GPIIQuello che segue è un articolo del febbraio 2003 di Massimo Borghesi pubblicato su 30 Giorni e ripubblicato ne numero di luglio della stessa rivista. Come ricorda Borghesi nell’introduzione «ritorna alla mente uno degli ultimi colloqui privati che don Giussani ebbe con papa Giovanni Paolo II nei primi anni Novanta e che lui stesso raccontò così: al Papa che gli diceva che l’agnosticismo, sintetizzato nella formula “Dio seppure c’è non c’entra con la vita”, era il sommo pericolo per la fede – cosa che don Giussani stesso più volte aveva insegnato -Giussani rispondeva con la libertà dei figli di Dio (che della fede è una delle espressioni umanamente più affascinanti): “No, Santità, non l’agnosticismo, ma lo gnosticismo è il pericolo per la fede cristiana!” ».

«A distanza ormai di un ventennio ci si può rendere conto di quanto sia stata anticipatrice quella svolta di don Giussani. Svolta che può essere documentata anche dall’intervista, rilasciata nell’aprile 1992, in cui don Giussani parla della persecuzione nei confronti di quelli “che si muovono nella semplicità della Tradizione”.

Alla domanda dell’intervistatore: “Una persecuzione vera?”, don Giussani risponde: “È così. L’ira del mondo oggi non si alza dinanzi alla parola Chiesa, sta quieta anche dinanzi all’idea che uno si definisca cattolico, o dinanzi alla figura del Papa dipinto come autorità moralele. Anzi c’è un ossequio formale, addirittura sincero. L’odio si scatena – a mala pena contenuto, ma presto tracimerà – dinanzi a cattolici che si pongono per tali, cattolici che si muovono nella semplicità della Tradizione” (Luigi Giussani, Un avvenimento di vita, cioè una storia – introduzione del cardinale Joseph Ratzinger- Edit-ll Sabato, Roma 1993, p. 104).

«In una delle sue ultime pubblicazioni prima di essere eletto successore di Pietro (Fede, verità, tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, raccolta ragionata del giugno 2003 di suoi precedenti articoli sul tema), proprio nelle pagine di collegamento aggiunte ex novo, Joseph Ratzinger notava: «II male non è affatto – come reputava Hegel, e Goethe vuole mostrarci nel Faust – una parte del tutto di cui abbiamo bisogno, bensì la distruzione dell’Essere. Non lo si può rappresentare, come fa il Mefistofele nel Faust con le parole: “io sono parte di quella forza che perennemente vuole il male e perennemente crea il bene”».

Pur essendo molto dotto e ricco di citazioni, l’articolo di Borghesi si legge d’un fiato. Mostra prima il crescere del fascino del male nell’epoca contemporanea, avvertito sempre più come l’energia liberatrice dell’uomo; poi la sua opposizione prometeica al Dio buono e misericordioso; e infine il suo essere concepito non in opposizione ma come principio interno a Dio stesso, proprio secondo le più sottili e perverse favole gnostiche. [NdR]

30 Giorni n.4-5 2011

Il Serpente, il tentatore, appare nelle vesti di liberatore, di colui che solleva l’uomo al di là del bene e del male, al di là della “legge”, al di là del Dio antico, nemico della libertà. Gli ultimi duecento anni riscoprono il principio liberatore del mondo affermato dalla setta degli Ofiti, principio intravisto dalla concezione sabbatiana con il suo Messia consegnato ai serpenti

di Massimo Borghesi

Gli Ofìti: il serpente come liberatore

Sono più di due secoli che la cultura occidentale accarezza il male, lo blandisce, lo giustifica. Il negativo comunica vertigine, delirio di onnipotenza, emozioni inconfessabili; illumina di bagliori rossastri i sentieri proibiti, gli abissi della notte, le vette ghiacciate. Colora di sé il peculiare titanismo moderno, la provocatoria sfida che esso lancia all’Eterno. Se il Faust antico, quello di Marlowe, si pente in punto di morte, quello posteriore vive dell’oltraggio, brama la dissoluzione. Il patto col serpente, come titola Mario Praz uno dei suoi ultimi volumi (1), diviene ora stabile.

Il Serpente, il tentatore, appare nelle vesti del liberatore, di colui che solleva l’uomo al di là del bene e del male, al di là della “legge”, al di là del Dio antico, nemico della libertà. Gli ultimi duecento anni riscoprono «il principio liberatore del mondo [affermato] dalla setta degli Ofiti» (2), principio intravisto, secondo Gershom Scholem, dalla concezione sabbatiana con il suo Messia consegnato ai “serpenti” (3). Principio riaffermato da Ernst Bloch nel suo Ateismo nel cristianesimo dove il Cristo-Serpente libera il mondo dalla tirannia di Jahvè (4).

Anche Goethe, secondo Vittorio Mathieu, «aveva sentito parlare della setta degli Ofiti» (5). Nel suo Goethe e il suo diavolo custode, Mathieu osserva come nel Faust Mefistofele è la «forza che fa emergere dalla tenebra il positivo dell’uomo» (6). Come afferma Dio, rivolto a Mefistofele nel Prologo in Cielo, «non hai che da mostrarti, liberamente, quello che sei; non ho mai odiato i tuoi pari; di tutti gli spiriti che negano, il beffardo è quello che mi da noia minore. L’attività dell’uomo si affloscia troppo facilmente ed egli si adagerebbe con piacere in un assoluto riposo. Perciò gli metto volentieri accanto un compagno che lo sproni, ed agisca, e deve, come Diavolo, creare» (7). Il Diavolo è posto volentieri («gern») da Dio come collaboratore dell’uomo. Come notava Mircea Eliade, «si potrebbe parlare di una simpatia organica tra il Creatore e Mefistofele» (8).

Goethe fa di Mefistofele, del male, la molla che muove verso l’azione («Tat»), verso ciò che è positivo. Si tratta dell’idea, destinata a percorrere molta strada, per cui la via verso il Cielo passa attraverso l’inferno. L’uomo diventa uomo, vivo, intelligente, libero, solo assaporando fino in fondo l’amaro della vita. L’innocenza dell “‘anima bella” è, al contrario, inerzia, stasi, morte. Hegel, con la sua dialettica del negativo, darà una sontuosa veste teorica a quest’idea. L’uomo deve peccare, deve uscire dall’innocenza naturale per divenire Dio. Egli deve realizzare la promessa del Serpente: deve conoscere, come Dio, il bene e il male. Questa conoscenza «è l’origine della malattia, ma anche la sorgente della salute, è la coppa avvelenata nella quale l’uomo beve la morte e la putrefazione, e nello stesso tempo il punto sorgivo della riconciliazione, poiché porsi come cattivo è in sé il superamento del male» (9).

Attraverso questa prospettiva la figura dell’Angelo ribelle, di colui che, provocando l’uomo, lo innalzerebbe alla sua libertà, rifulge di uno splendore nuovo. Mefistofele diviene, passo dopo passo, l’eroe, il Prometeo moderno, il liberatore. «Senza cercarne per il momento le cause profonde», scriveva Roger Caillois nel 1937, «bisogna constatare come uno dei fenomeni psicologici più carico di conseguenze dell’inizio del XIX secolo sia la nascita e la diffusione del satanismo poetico, il fatto che lo scrittore assuma volentieri la parte dell’Angelo del male e con lui senta precise affinità. Sotto questa luce il romanticismo appare in parte come una trasmutazione di valore» (10). Da Byron a Vigny la «mitologia satanica» elabora la figura di un «Angelo del male», ribelle e vendicatore, le cui premesse risalgono indietro nel tempo.

Satana contro Dio

Giustamente Mario Praz, nel suo La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica, l’opera a tutt’oggi più interessante sul fascino del demoniaco nella letteratura dell’Ottocento, indica l’inizio di questo processo nella peculiare caratterizzazione di Satana offerta da Milton nel suo Paradiso perduto. «Fu Milton a conferire alla figura di Satana tutto il fascino del ribelle indomito che già apparteneva alle figure del Prometeo eschileo e del Capaneo dantesco» (11). L’Avversario «diventa stranamente bello» (12). Come scriveva Baudelaire: «Le plus parfait type de Beauté virile est Satan – a la manière de Milton» (13).

Al suo confronto, osserva Harold Bloom, «il Dio di Milton è una catastrofe», così come il Cristo, il quale «è un disastro poetico nel Paradiso perduto» (14). Per Blake: «Milton era impacciato scrivendo di Dio e degli Angeli, e a suo agio scrivendo dei Demòni e dell’inferno, poiché egli era un vero Poeta, e dalla parte del Demonio senza saperlo» (15). Giudizio, questo, perfettamente condiviso da Shelley per il quale: «Nulla può superare l’energia e lo splendore del carattere di Satana quale si trova espresso nel Paradiso perduto […]. Il demonio di Milton come essere morale è di tanto superiore al suo Dio» (16).

Impavido, indomito, il principe delle tenebre appare come lo strenuo lottatore contro la tirannia divina. Satana è Prometeo, prende il posto del mitico titano incatenato da Zeus alla rupe, immortalato dalla fantasia di Eschilo. Il Prometeo moderno si oppone al dio ostile, malvagio. Il luciferino Satana appare migliore del Creatore: «Milton conferisce apertamente un atteggiamento gnostico a Satana, secondo il quale Dio e Cristo sono soltanto versione del Demiurgo» (17). Il vero affermativo è il demonio. È lui, e non l’angelo obbediente, che appare, eticamente ed esteticamente, dotato di un fascino più grande. Come asserisce Hegel: «Quando si presenta il Diavolo bisogna dimostrare che vi è in lui un affermativo; la sua forza di carattere, la sua energia, il suo spirito consequenziale appare di gran lunga migliore, più affermativo di quello di qualche angelo […]. Come in Milton», aggiunge Hegel, «dove egli, nella sua energia piena di carattere, è migliore di alcuni angeli» (18).

Grazie a Milton, alla sua rielaborazione mitica, Satana fa così il suo ingresso nell’immaginario moderno. Si ha con ciò quella che Praz chiama, in un capitolo del suo volume, la «metamorfosi di Satana», il suo trapassare da figura negativa a eroe positivo: il ribelle triste, privato, come l’uomo, della sua felicità paradisiaca da un dio tiranno. Nel suo studio Praz documenta, con grande perizia, autori e correnti che fanno propria la mitologia satanica. Se nel Settecento «il Satana miltonico trasfuse il suo fascino sinistro nel tipo tradizionale del bandito generoso, del sublime delinquente» (19), è nell’Ottocento, nella temperie romantica, che egli diviene il ribelle, l’espressione della rivolta metafisica, del “no” alla creazione.

Fu Byron «a portare a perfezione il tipo del ribelle, lontano discendente del Satana di Milton» (20). Con lui il ribelle diviene lo “straniero”, l’uomo impenetrabile che trascende l’ordinario modo di sentire, che trascende i suoi stessi delitti. E l’oltre-uomo che sta più in alto e al contempo più in basso degli altri uomini. È l’infelice che si nutre di risentimento verso un dio crudele del quale imita la crudeltà.

La teologia di Byron è, secondo Praz, la stessa di de Sade la cui opera, secondo l’autore, ha una influenza fondamentale nella letteratura romantica. Al centro v’è l’odio verso la creazione e il suo autore, l’esaltazione del piacere e del crimine come dileggio, profanazione, oltraggio. Siamo qui di fronte, per Praz, ad un «satanismo cosmico» (21). La sua influenza è enorme. Se la natura crea solo per distruggere, assecondare la natura è ripeterne il ritmo, il piacere della distruzione, il gusto (sadico) che fa sorgere il piacere dal dolore, il delirio dall’annientamento, il divino dal diabolico.

È la pittura di Delacroix. «Quel pittore “cannibale”, “molochista”, “dolorista” che fu Delacroix, instancabilmente curioso di stragi, d’incendi, di rapine, di putrideros, illustratore delle scene più cupe del Faust e dei poemi più satanici del suo idolatrato Byron; quell’innamorato di felinità […] e dei Paesi violenti e calorosi» (22). È la poesia di Baudelaire, nutrita di Poe e di de Sade, il cui pessimismo cosmico è più simile all’eresia manichea che alla religione cristiana: «Absolu! Resultante des contraires! Ormuz et Arimane, vous étes le méme!» (23). È la narrativa di Flaubert, per il quale «Néron vivrà aussi longtemps que Vespasien, Satan que Jésus-Christ» (24). Dei Canti di Maldoror di Lautréamont, il quale confessa di aver «cantato il male come hanno fatto Mickiewicz, Byron, Milton, Southey, A. de Musset, Baudelaire» (25).

marchese De Sade

Di Swinburne che, avvinto dalla teologia gnostica di de Sade, declama il suo uomo in rivolta: «.. .potessimo ostacolare la natura, allora sì il delitto diventerebbe perfetto e il peccato una realtà. Se l’uomo potesse far questo, se egli potesse intralciare il corso delle stelle e alterare il tempo delle maree; se potesse cambiare i moti del mondo e trovar la sede della vita e distruggerla; se potesse entrare in cielo e contaminarlo, nell’inferno e liberarlo dalla soggezione; potesse trar giù il sole e consumare la terra, e ordinare alla luna di spargere veleno o fuoco nell’aria; potesse uccidere il frutto nel seme e corrodere la bocca del pargolo col latte di sua madre; allora si potrebbe dire d’aver peccato e d’aver fatto del male contro natura» (26).

Distruzione e profanazione: questo è il piacere più grande! Un filone consistente della letteratura, a partire dal romanzo libertino del Settecento, gode della profanazione. La violazione appassiona in quanto trasgressione, oltraggio. Il corpo, quello della donna, è tanto più oggetto del desiderio quanto più esso è inerme (bambina, vergine, suora). Profanarlo è togliere la trascendenza, ricondurre alla terra, svelare il volto oscuro di Èva, l’eterno femminino da sempre legato al potere di Satana. Il demoniaco mescola il puro e l’impuro, ha bisogno dell’innocenza per eccitare le passioni, per destare la forza dirompente del negativo. Con de Sade l’eros diviene parte di una teologia gnostica. Dopo di lui il connubio tra Eros e Thanatos, amore e morte, diviene l’elemento dominante di un nichilismo luciferino che trova nel Decadentismo prima e nel Surrealismo poi il suo compimento.

Satana in Dio

Satana non è solo in Prometeo, controfigura dell’Angelo caduto di Milton. Satana è anche in Dio. La teologia gnostica che sta al centro dell’ateismo ribelle degli ultimi due secoli distingue tra Lucifero (il liberatore) e Satana (l’oppressore). Essa trova la sua forma esemplare nel pensiero di Ernst Bloch. Per Bloch v’è «da un lato il Dio del mondo che si identifica sempre più chiaramente con Satana, il Nemico, il ristagno; dall’altro il Dio della futura ascesa in cielo, il Dio che ci spinge in avanti con Gesù e con Lucifero» (27). Il dio del mondo, creatore, è il cattivo demiurgo contro cui, nell’Eden, si è levato il Serpente vero amico dell’uomo. È Lucifero, con il suo desiderio di essere come Dio, che svela all’uomo la sua destinazione.

«Solo in Lucifero, tenuto segreto in Gesù per essere manifestato più tardi, alla fine, nei tempi in cui questo volto potrà svelarsi; solo in Lucifero, divenuto inquieto da quando fu abbandonato per la seconda volta, da quando dalla croce si alzò il grido che rimase senza risposta, da quando per la seconda volta fu schiacciato il capo del Serpente del paradiso appeso alla croce: solo in Lui dunque, nel Nascosto in Cristo, in quanto anti-demiurgico assoluto, è compreso anche l’autentico elemento teurgico di chi si ribella perché figlio dell’uomo» (28).

II Serpente, come per la setta degli Ofiti ricordata da Bloch in Ateismo nel cristianesimo, è quindi il liberatore. Due volte soggiogato, nell’Eden e nel Cristo innalzato in croce come il Serpente di bronzo di Mosè, esso attende la sua rivincita, la sua vittoria sul Demiurgo che apre l’«età dello Spirito». Unendo assieme Marcione e Gioacchino da Fiore, Bloch è il crocevia di tutta la gnosi moderna. Gesù, anticipazione del dio a venire, del dio “umano”, è il redentore dal dio “satanico”, dal dio del cosmo, dell’ordine e della legge. La rivoluzione, come dissoluzione del vecchio ordine, diviene qui l’opera luciferina per eccellenza.

Come illustre precedente delle sue riflessioni, Bloch richiama, in Ateismo nel cristianesimo, la figura di William Blake. Il poeta inglese, affascinato dalla rivoluzione americana e da quella francese, ebbe, oltre alla Bibbia, quattro maestri: Milton, Shakespeare, Paracelso, Bòhme. Al primo dedicò un breve poema epico, Milton, composto probabilmente tra il 1800 e il 1803. In esso Urizen, il Principe della Luce, appare identico a Satana. Ciò che è peculiare in Blake è il suo The Marriage of Heaven and Helì (II matrimonio del Cielo e dell’Inferno) scritto nel 1790.

Qui la santificazione degli impulsi e dei desideri, in primis quello sessuale, «for everything that lives is Holy» (poiché ogni cosa vivente è Sacra!), ottiene la sua consacrazione teorica. Per essa non v’è più il male che nega il bene: male e bene sono entrambi necessari. «Senza Contrari non c’è progresso. Attrazione e Ripulsa, Ragione e Energia, Amore e Odio sono necessari all’Umana esistenza. Da questi contrari scaturisce ciò che l’uomo religioso chiama Bene e Male. Bene è la passività che ubbidisce a Ragione. Male è l’attività che scaturisce da Energia. Bene è il Cielo, Male è l’Inferno» (29).

Il male, come nel Faust di Goethe, è ciò che da energia, che desta il bene assopito. Il Diavolo è la forza di Dio. In questa sua concezione Blake era debitore a colui che, per primo, nell’arco del pensiero moderno, aveva osato affermare il male in Dio: Jacob Bòhme. Il philosophus teutonicus, il quale, secondo Hegel, «fu il primo a far sorgere in Germania una filosofia con caratteristiche proprie» (30), stimato da Leibniz, Hegel, Schelling, von Baader e tutto il filone teosofico del pensiero moderno, è colui per il quale «secondo il primo principio Dio non si chiama Dio, ma Collera, Furore, sorgente amara, e vengono di qui il male, il dolore, il tremore e il fuoco divorante» (31). L’ira di Dio è superata nell’amore; cionondimeno essa rimane l’Urgrund, il principio originario da cui origina il tutto.

Hegel

Bòhme, secondo Hegel, «ha lottato per intendere in Dio e da Dio il negativo, il male, il Diavolo» (32). Dio è l’unità dei contrari, dell’ira e dell’amore, del male e del bene, del Diavolo e del suo contrario, il Figlio. In questa posizione Cristo e Satana divengono in qualche modo fratelli, figli di un unico Padre, parti di Lui, momenti della sua natura polare. È quanto affermerà Cari Gustav Jung nel suo esoterico Septem Sermones ad Mortuos scritto nel 1916, fatto circolare come opuscolo per gli amici e mai distribuito in libreria. Il testo, che si richiama idealmente allo gnostico Basilide, afferma la natura di “pleroma” di Dio composta da coppie di opposti di cui «Dio e demonio sono le prime manifestazioni» (33).

Essi si distinguono come generazione e corruzione, vita e morte. E tuttavia «l’effettività è comune a entrambi. L’effettività li unisce. Quindi l’effettività è al di sopra di loro ed è un Dio sopra Dio, poiché nel suo effetto unisce pienezza e vuotezza» (34). Questo Dio che unisce Dio e il Diavolo è chiamato, da Jung, Abraxas. Esso è la forza originaria, che sta prima di ogni distinzione. «Abraxas genera verità e menzogna, bene e male, luce e tenebra, nella stessa parola e nello stesso atto. Perciò Abraxas è terribile» (35) Esso è «l’amore e il suo assassino», «il santo e il suo traditore», è «il mondo, il suo divenire e il suo passare. Su ogni dono del Dio sole il demonio getta la sua maledizione» (36).

Il messaggio esoterico dei Sette Sermoni portava, come in Blake, alla santificazione della natura, all’innocenza del divenire. Esso implicava, per ciò stesso, la giustificazione del male, del Diavolo, il suo inserimento, come in Bòhme, in un sistema polare. Non a caso Martin Buber, venuto a conoscenza dell’opuscolo, parlerà qui di gnosi. «Essa – e non l’ateismo, che annulla Dio perché deve rifiutare le immagini che finora di lui sono state fatte – è il vero antagonista della realtà della fede» (37). Per Buber la psicologia di Jung non costituiva altro che «la ripresa del motivo carpocraziano, insegnato ora come psicoterapia, il quale divinizza misticamente gli istinti invece di santificarli nella fede» (38).

Il rilievo di Buber non era puramente congetturale. Era stato lo stesso Jung che, in Psicologia e religione, aveva richiamato l’attualità dello gnostico Carpocrate il quale sosteneva che «bene e male sono soltanto opinioni umane e che al contrario le anime, prima della loro dipartita, avrebbero dovuto vivere fino all’ultimo ogni umana esperienza, se volevano evitare di ritornare nella prigione del corpo. Soltanto il completo adempimento di ogni esigenza della vita può riscattare l’anima prigioniera nel mondo somatico del Demiurgo» (39).

La vita, affermava nel Saggio d’interpretazione psicologica del dogma della Trinità, «come processo energetico ha bisogno dei contrasti, senza i quali l’energia è notoriamente impossibile. Bene e male non sono altro che gli aspetti etici di queste antitesi naturali» (40). Per questo a Dio è necessario Lucifero. «Senza quest’ultimo non ci sarebbe creazione, e tanto meno ci sarebbe stata alcuna storia di redenzione. L’ombra e il contrasto sono le ne-cessarie condizioni di ogni realizzazione» (41).

Quest’ombra è innanzitutto in Dio, nel Dio primigenio, nell’Inconscio che, per Jung, è la vera potenza che dirige la vita la quale deve essere “umanizzata” dall’io cosciente. È solo nel Dio umano, Cristo, che il giudizio separa quanto nel pleroma (l’inconscio) è unito: la luce e la sua ombra. Ora i «due figli di Dio, Satana il maggiore e Cristo il minore» (42), la mano sinistra e la mano destra di Dio, si separano.

«Quest’antitesi rappresenta un conflitto portato all’estremo, e con ciò anche un compito secolare per l’umanità fino a quel punto o a quella svolta del tempo in cui bene e male cominciano a relativizzarsi, a porsi in dubbio, e si alza il grido verso un al di là del bene e del male. Ma nell’età cristiana, cioè nel regno del pensiero trinitario, una simile riflessione è semplicemente esclusa; poiché il conflitto è troppo violento, perché si potesse concedere al male qualche altra relazione logica con la Trinità, che non fosse il contrasto assoluto» (43).

Occorre che la Trinità divina, spirituale, si concili con un “quarto” principio: la materia, il corpo, il femminile, l’eros, il male, perché l’idealismo cristiano, conciliato con il mondo, pervenga a una superiore unità. «Perciò anche nel tempo dell’assoluta fede nella Trinità ci fu sempre una ricerca del quarto perduto, dai neopitagorici greci fino al Faust di Goethe. Benché questi cercatori si ritenessero cristiani, essi erano tuttavia una specie di cristiani a latere, poiché consacravano la loro vita a un opus, che aveva come meta la redenzione del serpens quadricornutus, dell’anima mandi irretita nella materia, del Lucifero caduto… La nostra formula della quaternità da ragione alla loro pretesa, poiché lo Spirito Santo, come sintesi di colui che fu originariamente Uno e poi scisso, fluisce da una sorgente luminosa e da una oscura» (44).

L'”età dello Spirito”, nella peculiare interpretazione che Jung da di Gioacchino da Fiore, è l’era che segue all’eone cristiano, il tempo di Abraxas in cui passioni e ragione, inconscio e conscio, male e bene, Lucifero e Cristo, diverrano uno.

Nel 1919 Hermann Hesse, che nel 1920 si sottopose ad analisi con Jung, pubblicò un romanzo, Demian, sotto lo pseudonimo di Emil Sinclair. In esso il protagonista, un giovane inesperto, viene istruito sul senso della vita da uno spirito “libero” che porta in sé il segno di Caino: Demian. Per Demian «il Dio dell’Antico e del Nuovo Testamento è una figura eccellente, ma non è quella che dovrebbe essere. È il bene, la nobiltà, il padre, l’alto, il bello, il sentimentale: tutte belle cose, ma il mondo è fatto anche di altro. E ciò viene attribuito semplicemente al Diavolo, e tutta questa parte del mondo, questa metà viene soppressa e uccisa col silenzio» (45). Ad essa appartiene, secondo Demian, la sfera sessuale.

Per questo non si può solo venerare Dio, «dobbiamo venerare tutto e considerare sacro il mondo intero, non soltanto questa metà ufficiale, separata ad arte. Accanto al servizio per Dio dovremmo avere anche un servizio per il Diavolo. A me parrebbe giusto. Oppure ci si dovrebbe procurare un Dio che racchiuda anche il demonio».(46). Come in Jung, questo «Dio si chiama Abraxas ed è Dio e Satana e abbraccia in sé il mondo luminoso e il mondo scuro» (47) È l’amor sacro e l’amor profano, «l’immagine angelica e Satana, uomo e donna insieme, uomo e bestia, supremo bene e male estremo» (48).

La visione del divino come coincidentia oppositorum, versione che sigla in forma indissolubile il «patto con il Serpente», attraversa, in tal modo, una parte cospicua del mondo culturale del Novecento. Ricordiamo, tra gli altri, la riflessione di Mircea Eliade che in due scritti, Il mito delia reintegrazione (1942) e Mefistofele e l’Androgino (1962), espone, sotto le suggestioni di Jung, la sua visione della «polarità divina». Per essa ogni divinità appare polare, benefica e malefica ad un tempo. Il Serpente è fratello del Sole, così come, secondo un mito gnostico, lo sarebbero Cristo e Satana. Questa biunità divina prepara, nell’uomo, la reintegrazione di sacro e profano, di bene e di male in una unità superiore che trova, per Eliade, la sua meta simbolica nella figura dell’androgino.

Conclusione

Romano Guardini

La moderna teosofia degli opposti, fondata sulla dottrina ermetica della coincidentia oppositorum, porta a un connubio, inquietante, tra divino e diabolico, porta all’idea del Diavolo in Dio. «È ovunque operante», scriveva Romano Guardini nel 1964, «l’idea fondamentale gnostica che le contraddizioni sono polarità: Goethe, Gide, C. G. Jung, Th. Mann, H. Hesse… Tutti vedono il male, il negativo […] come elementi dialettici nella totalità della vita, della natura» (49).

Questo atteggiamento, per Guardini, «si manifesta già in tutto quello che si chiama gnosi, nell’alchimia, nella teosofia. Si presenta in forma programmatica con Goethe, per il quale il satanico entra persino in Dio, il male è forza originaria dell’universo necessaria quanto il bene, la morte solo un altro elemento di quel tutto, il cui polo opposto si chiama vita. Questa opinione è stata proclamata in tutte le forme e concretata in campo terapeutico da C. G. Jung»  (50).

L’idea di fondo è che la redenzione passa attraverso la degradazione, la grazia tramite il peccato, la vita attraverso la morte, il piacere mediante il dolore, l’estasi per opera della perversione, il divino mediante il diabolico. Il fascino che il negativo – metafora del demoniaco – esercita sulla cultura contemporanea dipende da questa singolare idea: che le vie del paradiso passino attraverso l’inferno, che «Discesa all’Ade e resurrezione» siano uno (51).

Consegnarsi al demonio, in una singolare trasposizione gnostica dell’idea per cui perdersi è ritrovarsi, è aprirsi a Dio. In questo “sacro” connubio Satana e Dio si uniscono nell’uomo. È l’«identità di de Sade e dei mistici» (52) auspicata da Georges Bataille. Per essa la via all’ingiù coincide con la via all’insd. Faust, ora, non può più pentirsi, nemmeno in punto di morte. L’Avversario è diventato complice, “parte” di Dio. È la via per divenire dio. Il brivido del nulla, della discesa agli Inferi, accompagna la scoperta dell’Essere, di Abraxas, il pleroma senza volto che permane, immobile, nel divenire del mondo.

Note

1) M. Praz, II patto col serpente, Milano 1972 (ediz. 1995).

2) Op.cit.,p. 12.

3) G. Scholem, Le grandi correnti della mistica ebraica, tr. it., Torino 1993, p. 307

4) E. Bloch, Ateismo nel cristianesimo, tr. it., Milano 1971, pp. 220-226.

5) V. Mathieu, Goethe e il suo diavolo custode, Milano 2002, p. 192.

6) Op.cit.,p.65.

7) W. Goethe, Faust e Urfafaust, tr. it., 2 voll., Milano 1976, vol. I, w. 340-343, p. 19.

8) M. Eliade, Il mito  della reintegrazione, tr. it., Milano 2002, p. 4.

9) G. W. F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della religione, tr. it., 2 voll., Milano 1974, vol. Il,p.317.

10) R. Caillois, Nascita di Lucifero, tr. it., Milano 2002, p. 31.

11) M. Praz, La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica, Firenze (ediz. 1999),p,58.

12) Ivi.

13) C. Baudelaire, Journaux intimes, cit, in: M. Praz, La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica, op. cit., p. 55.

14) H. Bloom, Rovinare le sacre verità. Poesia e fede dalla Bibbia a oggi, tr. it., Milano 1992, p. 106.

15) W. Blake, Il matrimonio del Cielo e dell’Inferno, tr. it., in: Selected Poems of William Blake, Torino 1999, pp. 24-25.

16) P. B. Shelley, Difesa della Poesia, cit. in: M. Praz, La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica, op. cit., p. 59.

17) H. Bloom, Rovinare le sacre verità. Poesia e fede dalla Bibbia a oggi, op. cit., p. 105.

18) G. W. F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della religione, op. cit., vol. Il, pp. 315-316 e 324, nota.

19) M. Praz, La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica, op. cit., pp. 59-60.

20) Op.cit.,p.64.

21) Op.cit.,p.96.

22) Op.cit.,p.135.

23) Citato in op. cit., p. 147.

24) Citato in op. cit., p. 161.

25) Lautréamont, Lettere, tr. it. in: Lautréamont, I canti di Maldoror, Torino 1989, p. 531.

26) Citato in: M. Praz, La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica, op. cit., p. 199.

27) E. Bloch, Spirito dell’utopia, tr. it., Firenze 1980, p. 314.

28) Op.cit.,p.252.

29) W. Blake, Il matrimonio del Cielo e dell’Inferno, op. cit., pp. 19-20.

30) G. W. F. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, tr. it., 4 voll., Firenze 1973, vol.lll(2),p.35.

31) Citato in: F. Cuniberto, Jacob Bòhme, Broscia 2000, p. 119.

32) G. W. F. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, op. cit., vol. lll(2), p. 42.

33) C. G. Jung, Septem Sermones ad Mortuos, tr. it., in: Ricordi, sogni, riflessioni di C. G. Jung, Milano 1990, p. 454.

34) Op. cit, pp. 454-455.

35) Op.cit.,p.456.

36) Ivi

37) M. Buber, L’eclissi di Dio, tr. it., Milano 1983, p. 139.

38) Ivi.

39) C. G. Jung, Psicologia e religione, tr. it., in: C. G. Jung, Opere, vol. XI, Milano 1984,p.83.

40) C. G. Jung, Saggio d’interpretazione psicologica del dogma della Trinità, tr. it., in: C. G. Jung, Opere, vol. XI, op. cit., p. 191.

41) Op.cit.,p.190.

42) C. G. Jung, Prefazione a Z. Weblowsky, “Lucifero e Prometeo”, tr. it., in: C. G. Jung, Opere, vol. 11,op.cit.,p. 299.

43) C. G. Jung, Saggio d’interpretazione psicologica del dogma della Trinità, op. cit., p.171.

44) Op.cit.,p.174.

45) H. Hesse, Demian. Storia della giovinezza di Emil Sinclair, tr. it., in: H. Hesse, Peter Camenzind – Demian. Due romanzi della giovinezza, Roma 1993, p. 185.

46) Op. cit., p. 185. Corsivi nostri.

47) Op.cit.,p.216.

48) Op.cit.,p.207.

49) R. Guardini, Diario. Appunti e testi dal 1942 al 1964, tr. it., Brescia 1983, p. 245.

50) R. Guardini, Lettere teologiche a un amico, tr. it., Milano 1979, p. 63.

51) E. Zolla, Discesa all’Ade e resurrezione, Milano 2002.

52) G. Bataille, Frammenti su William Blake, tr. it., in: Selected Poems of William Blake ,op.cit.,p. 163.