Eugenio Corti, 90 anni in prima linea

Eugenio_Cortila Bussola quotidiana 15 gennaio 2011

di Antonio Giuliano

«C’è un eroe dell’Iliade che amo più di tutti gli altri: Ettore. Incarna l’uomo che non si arrende. E non teme la sconfitta perché dà sempre tutto se stesso».

Eugenio Corti, che di battaglie se ne intende, non ha nessuna intenzione di risparmiarsi. Anche sulla soglia dei novant’anni che si appresta a festeggiare venerdì prossimo.

Nel salone della storica villa di famiglia, a Besana in Brianza, lo scrittore avanza piano, con incedere epico, sottolineato da un bastone da profeta e dal folto pizzetto bianco. Il caminetto è spento. Ma un fuoco sembra animarlo quando come un antico aedo si siede e racconta. Le lancette dell’orologio scorrono via veloci.

Lo sguardo austero diventa quello paterno di un nonno che ricorda lucidamente i suoi trascorsi e gli occhi azzurri brillano quando rievoca l’esperienza che ha segnato la sua vita: «Penso spesso alla campagna di Russia del 1942. Ai colpi di cannone da rimanere sordi. Sei mesi in cui mi son ritrovato da novellino in prima linea. Quando ci hanno accerchiato per 28 giorni nei dintorni di Arbusov, nella cosiddetta Valle della morte, avevo già seminato e distrutto tutto ciò che avevo addosso: ero sicuro di finire prigioniero dei russi. E poi centinaia di chilometri a piedi, 15 gradi sotto lo zero, con unica coperta in testa come riparo. Ho visto molti amici cadere. Eravamo 1700, tornammo in 300».

Da questa vicenda è nata una delle sue prime perle, il diario I più non ritornano (1947). Ma è in Russia che ha deciso di diventare scrittore?

«No. Ho sempre sognato di fare lo scrittore. In prima media mi sono ritrovato in mano i poemi omerici e ne sono stato conquistato dalla loro bellezza. Ho subito provato il desiderio di emularli. Mi piace molto la figura di Ettore. Ma anche il coraggio di Ulisse, cantato magnificamente pure da Dante: “e volta nostra poppa nel mattino, de’ remi facemmo ali al folle volo”…».

Lo stesso coraggio che l’ha portata poco più che ventunenne sul fronte russo…

«Io non avrei mai chiesto di andare sotto le armi. Figurarsi per un cattolico poi… Tanto più che gli studenti erano esonerati. Ma cedetti al bellicismo della Gioventù universitaria fascista. Non avevo simpatia per questa organizzazione, ma pensai: “Perché i nostri compagni operai sono sotto le armi e noi studenti no?”. Così mi arruolai e scelsi il fronte russo. E non mi sono mai pentito. Sentivo di non poter diventare uno scrittore del mio tempo se non avessi preso parte a quell’evento. Ero certo che sarebbe stata una delle grandi esperienze del secolo. Volevo vedere sul campo l’esperimento comunista di costruire un mondo nuovo contro Dio».

E che idea si fece?

«Ho parlato molto con i russi. C’era un compagno siciliano, Antonino Allegra, che aveva imparato benissimo il russo e mi faceva da interprete. Chissà se c’è ancora quel ragazzo lì… Non è rimasto più nessuno di allora…(e gli occhi si fanno lucidi). Chiedevo ai russi del comunismo, ma ne parlavano malvolentieri. Avevano tutti parenti fucilati o deportati. Capii che la collettivizzazione forzata era stata per loro un dramma. I comunisti avevano portato via la terra ai contadini. Sequestravano il loro grano e lo cercavano nelle case anche sollevando i pavimenti. Così per fame la gente ha iniziato a mangiare prima il miglio, poi di tutto: cani, gatti, l’erba dei campi, fino al cannibalismo».

L’utopia comunista è al centro di un’altra sua opera Processo e morte di Stalin (1962) circolato anche in russo e in polacco come “samizdat” (stampa clandestina). Fu però rifiutato da numerosi editori italiani. Le stesse difficoltà incontrò il suo capolavoro Il cavallo rosso (1983) prima che lo pubblicasse la casa editrice Ares: oggi è giunto alla 25° edizione. Ma il  nome di Corti in Italia non è ancora molto conosciuto…

«La grande stampa laicista e il mondo della cultura di stampo marxista mi hanno sempre ignorato o attaccato. Ma anche una parte del mondo cattolico mi ha scomunicato. Anche Avvenire in passato mi ha emarginato, soprattutto ai tempi del divorzio, quando mi esposi in prima fila nel Comitato lombardo per l’indissolubilità del matrimonio e mi scontrai con Lazzati e altri cattolici. E all’Università Cattolica fino a pochi mesi fa erano bandite le tesi che parlassero delle mie opere: in questi anni sono solo 6-7 quelle che mi riguardano. E per giunta solo alla facoltà di Lingue, cioè lavori sui miei testi tradotti all’estero…».

Eppure un’Associazione culturale internazionale (Aciec) che porta il suo nome e un comitato ad hoc della sua Brianza promuovono la sua candidatura al Nobel… 

«Li ringrazio molto, ma per un cattolico oggi è molto difficile ricevere questo premio. C’è grande difficoltà ad accettare la cultura cristiana. Il Nobel è un’istituzione prestigiosa, ma in anni recenti è stato premiato anche chi con la cultura ha poco a che fare… A me basta che le mie opere siano conosciute e che magari Il cavallo rosso venga letto nelle scuole. Poi penso sempre che se non hanno dato il Nobel a Tolstoj, posso star tranquillo…».

Alcuni critici stranieri, paragonano la sua opera proprio a quella di Tolstoj…

«Sono onorato. Tolstoj è il più grande narratore del Novecento, l’erede dei migliori scrittori della letteratura occidentale: Omero, Virgilio, Dante… Purtroppo dalla seconda metà del Novecento le opere letterarie nascono già morte. La scrittura è arte. E come nell’arte assistiamo da Picasso in poi a un disfacimento delle figure, così in letteratura. Non si è più in grado di rendere l’universale nel particolare…»

In che senso?

«Facciamo un esempio. Prendiamo Manzoni: è riuscito a ritrarre così bene la figura dell’avvocato fumoso che oggi Azzeccagarbugli è diventato sinonimo per antonomasia. E così la Perpetua è diventata la domestica del parroco. La scrittura deve riuscire a cogliere la realtà e tradurne la bellezza che è in essa. Ma nel panorama italiano novecentesco, l’ultimo scrittore originale è stato Riccardo Bacchelli con il suo Il mulino del Po».

Il suo monumentale Cavallo rosso è stato tradotto in otto lingue, perfino in giapponese e da poco anche in olandese. Quasi tremila pagine per un affresco di oltre trent’anni di storia italiana. Ma uno studioso protestante, Jean Marc Berthoud, ha scritto che il personaggio principale del romanzo è Dio…

«È vero. Però credo che Il cavallo rosso sia un romanzo riuscito non perché abbia una visione religiosa. Ma perché riesca a tradurre l’universale nel particolare. Penso al passo che amo di più e quello preferito dai tanti studenti che mi scrivono: la morte del capitano Grandi, esprime tutta l’umana tragedia. Alcuni sostenitori in Inghilterra mi dicono che Il cavallo rosso riesce a rendere tutti i maggiori problemi della cultura contemporanea: come il nichilismo. Se oggi i giovani hanno smarrito i valori la responsabilità è di molti genitori e professori cresciuti con il mito del ’68».

Anche per la Chiesa e per i cristiani nel mondo non sembra un buon momento…

«I cristiani hanno il martirio nel dna, è nella loro storia ma siamo sopravvissuti anche agli orrori delle ideologie del ‘900. Più della pedofilia o delle minacce del fondamentalismo islamico, la Chiesa deve temere la perdita della fede o una fede tiepida. Uno dei problemi maggiori è che ci sono troppe teste, anche nel clero, che vogliono insegnare al Papa a fare il Papa. E poi purtroppo i cattolici son divisi tra progressisti e conservatori. Ecco perché seguo con entusiasmo e fiducia La Bussola Quotidiana: occorre raccogliere le fronde sparse. Che il Papa poi sia attaccato da “intellettuali” laicisti che deviano le masse non è una novità».

Non a caso li chiama “intellettuali”…

«Sì preferisco essere considerato uomo di cultura più che “intellettuale”, figura che nasce nel 1700 e incarna l’utopismo senza Dio. I primi segnali ci furono già alla fine del Medioevo. Poi l’Illuminismo francese e l’Idealismo teorizzarono apertamente l’ateismo e la morte di Dio: pensiero che nel ‘900 è uscito dalla storia e illudendo popoli interi ha prodotto milioni di morti con nazismo e comunismo».

A che cosa sta lavorando oggi?

«Sto curando una nuova edizione de Il fumo nel tempio (1995), l’unico mio libro di saggistica, dedicato al naufragio dei cattolici in politica: è una sintesi degli errori della Democrazia Cristiana, il cui guaio maggiore purtroppo son state le correnti, come profetizzò De Gasperi. Oggi poi abbiamo personaggi che non sono politici. C’è molto personalismo e arrivismo. Ci vorrebbe davvero uno come Catone l’antico (il titolo di un altro mio romanzo del 2005)».

Pensa di scrivere altri libri?

«Ringrazio il cielo per i 90 anni, sono tanti, ormai non mi resta molto: in media ci metto 5 anni per scrivere un libro, a parte gli 11 per Il cavallo rosso in cui ho voluto approfondire la radice del male. Sono 1500 fogli scritti a macchina. Oggi per fortuna c’è il computer, anche se scrivo sempre prima a mano con la matita. Il testo deve essere bello, deve avere una sua musicalità».

Come festeggerà il suo compleanno?

«Sarà una Babilonia… Non farei nulla per paura di scontentare qualcuno: dovrei organizzare una festa con i nipoti (sono il maggiore di 10 fratelli). Una per tutti gli amici. Una per le associazioni… La mia giornata è molto sbalestrata. Riesco a rispondere solo a metà delle migliaia di lettere che mi arrivano. Spesso accolgo con piacere gruppi di studenti che mi vengono a trovare. Molti giovani mi mandano i loro libri per chiedermi un parere. Li metto sul comodino e la sera li leggo. Do i miei consigli, ma poi come dico a tutti “tocca a voi riscriverli”…».

Nell’aldilà si vede ancora come scrittore?

«No… Penso di aver scritto abbastanza. In cielo vorrei soltanto riabbracciare i miei genitori, i miei fratelli, tutti quelli che ho amato sulla terra. Ho sempre ammirato la carità irraggiungibile di mio fratello, missionario in Ciad e di un altro, medico, che ha fondato un ospedale in Uganda. Io mi sono impegnato con la penna a trasmettere la verità. Ma fino a che punto ci son riuscito è un punto interrogativo. Per me la cosa più importante è la misericordia divina. Ho fatto tanti errori, ma quando mi presenterò a Dio credo che mi riterrà ancora uno dei suoi».

La speranza non è mai venuta meno neanche nei momenti più drammatici?

«Durante l’accerchiamento dei Russi nel 1942 ho pensato davvero di non uscirne vivo. Avevamo finito viveri e munizioni. Ed eravamo costretti ad abbandonare i feriti. L’odio che ho visto in guerra, con i prigionieri bruciati vivi, non è paragonabile nemmeno ai 47 gradi sotto zero toccati in una notte. Ma altri momenti terribili li ho vissuti con il Corpo Italiano di Liberazione, spesso ignorato quando si parla di Resistenza. Erano quei militari italiani che nell’esercito regolare hanno combattuto contro i tedeschi insieme con gli Alleati. Io però sono un “paolotto” (un cattolico praticante) della Brianza, e ho sempre avuto fiducia nell’angelo custode. Pensavo a mia madre che a casa pregava. Feci un voto alla Madonna: se esco da questo inferno mi impegno come scrittore a battermi per il suo Regno, come dice il Padre Nostro».

Come ha fatto a mantenere una fede così granitica?

«Esperienze come quella russa hanno rinforzato la mia fede. Ho sperimentato che Dio non abbandona l’uomo. Siamo noi casomai ad abbandonare Lui. Nel romanzo Gli Ultimi soldati del re (1994) racconto di quando stavo in trincea nelle Marche e pensavo a quando sarebbe finita quella maledetta guerra. Vidi alcune farfalle che mi dettarono questa riflessione: questi insetti non sanno nemmeno di esistere eppure danno dimostrazione di come la realtà dipenda da qualcosa di trascendente. La loro bellezza mi faceva pensare a quanta felicità deve esserci in Dio».