Perché non è per niente facile aiutare gli africani “a casa loro”

da Atlantico

6 Aprile 2019

di Anna Bono

Succedono cose in Africa di cui i mass media parlano poco o niente e invece saperne di più servirebbe a capire qualcosa di quel continente: ad esempio, che non è per niente facile aiutare gli africani “a casa loro”, persino quando non si tratta di proporre piani di sviluppo e investimenti produttivi, ma di evitare che muoiano di fame e malattie.

È il caso del ciclone Idai che a metà marzo ha devastato Mozambico, Malawi e Zimbabwe. In Mozambico, il paese più colpito, si contano quasi 600 morti, secondo il più recente bilancio, circa 130.000 sfollati e centinaia di migliaia di persone bisognose di assistenza.

La prima emergenza sono le malattie, soprattutto il colera per far fronte al quale l’Organizzazione mondiale della sanità si è infatti immediatamente attivata organizzando una prima spedizione di 900.000 dosi di vaccino che sono state recapitate il 2 aprile consentendo l’avvio delle vaccinazioni il giorno successivo.

Come sempre in questi casi, le agenzie umanitarie delle Nazioni Unite hanno attinto ai rispettivi fondi e innumerevoli donatori privati e pubblici hanno risposto alle richieste di aiuto. Quasi subito sono partiti i primi soccorsi consistenti in cibo e altri generi di prima necessità… e subito interi carichi hanno incominciato a sparire.

Il 3 aprile Augusta Maita, direttore generale dell’Istituto mozambicano per la gestione dei disastri naturali, ha spiegato che sono stati rafforzati i controlli in seguito alle crescenti denunce di aiuti rubati e “stornati”.  Dalla capitale Maputo il giornalista della Bbc Jose Tembe ha confermato che dei responsabili della distribuzione degli aiuti, specialmente quelli alimentari, sono stati accusati di trattenerne una parte.

Ancora non si conosce l’entità degli aiuti “stornati”, dice il giornalista, ma il segretario generale del partito di governo Frelimo, Roque Silva, ha dichiarato che i colpevoli saranno puniti per dare un esempio e il fatto che se ne parli pubblicamente, se non altro dovrebbe indicare che si intende mettere fine ai furti evitando che la situazione si aggravi.

Augusta Maita in una serie di successivi messaggi ha chiesto collaborazione e promesso impegno: “Aiutateci a controllare, fateci sapere se qualcuno ruba”, “stiamo facendo il possibile per garantire che i beni donati arrivino a chi ne ha veramente bisogno”, “ci impegniamo affinché le operazioni di soccorso siano trasparenti fino alla fine, anche se può darsi che qualcosa ci sfugga”.

“È già successo in passato – ha commentato l’inviato della Bbc – che degli aiuti siano stati rubati e venduti”. Chi segue le vicende africane lo sa bene. Nel 2017, ad esempio, per la prima volta dopo sei anni, è stato dichiarato lo stato di carestia, causato da conflitti armati, in tre stati africani: Somalia, Sudan del Sud e Nigeria. Le agenzie Onu hanno organizzato la distribuzione di kit di sopravvivenza a 20 milioni di persone in estrema difficoltà.

“Dal 1945 non si verificava una crisi di queste proporzioni, stiamo vivendo un drammatico momento storico – spiegava Stephen O’Brien, capo delle agenzie umanitarie dell’Onu, parlando al Consiglio di Sicurezza – dall’inizio dell’anno è in atto la più grande crisi umanitaria da quando esistono le Nazioni Unite. Senza uno sforzo globale collettivo e coordinato, tanta gente morirà di fame e molti di più saranno i morti per malattia. Bambini denutriti, senza neanche più la forza di andare a scuola – è lo scenario apocalittico evocato da O’Brien – comunità senza mezzi di sussistenza, senza un futuro, senza speranze, sempre meno capaci di reagire alle avversità, anni di progressi persi, milioni di sfollati che continueranno a spostarsi per cercare di sopravvivere rendendo ancora più instabili estese regioni”.

Memorabile allora è stato l’appello di Saleh Saeed, direttore del Comitato di emergenza per i disastri: “La situazione è talmente grave che non importa se, come al solito, una parte dei fondi andranno perduti, verranno dirottati dai governi e finiranno nelle mani di gruppi armati”. Cosa che è puntualmente successa.

In Nigeria, nelle regioni del nord est infestate dai jihadisti Boko Haram, la carestia minacciava circa due milioni di profughi. Altri sei milioni di persone avevano bisogno di assistenza alimentare. Ma si ritiene che almeno metà degli aiuti alimentari internazionali recapitati alle autorità nigeriane non siano stati distribuiti.

Lo ha ammesso il governo parlando di “diversione di materiali di soccorso”, un eufemismo per dire che erano stati rubati per finire nella maggior parte dei casi in vendita nei mercati locali. Al mercato sono finite anche le 200 tonnellate di datteri donate dall’Arabia Saudita affinché i profughi del nord est potessero con questi frutti rompere il digiuno come prevede la tradizione islamica durante il mese sacro del Ramadan.

Il governo nigeriano si è scusato per il cibo dirottato, ma solo con l’Arabia Saudita. Nel frattempo nel Sudan del Sud i convogli umanitari venivano attaccati, i magazzini saccheggiati da chiunque disponesse di armi. Si diceva che il governo impedisse ai soccorsi di raggiungere i territori abitati dalle etnie dei gruppi ribelli.

E in Somalia? Come sempre, a partire dal 1991 quando è incominciata la guerra civile, i convogli umanitari dovevano pagare dazio per entrare nei territori controllati dalle formazioni antigovernative al Shabaab, non importa che gli aiuti fossero destinati ai loro stessi famigliari nella morsa della fame.

Dei generi di prima necessità rubati e rivenduti in Mozambico è difficile trovare notizia sui mass media italiani. In compenso basta andare on line e compaiono decine di articoli in cui, sposando la assai dubbia teoria dell’origine antropica del riscaldamento del pianeta, fenomeno su cui peraltro non tutti gli esperti concordano, si spiega che il ciclone Idai è colpa del cambiamento climatico e che quindi i paesi sviluppati che ne sono responsabili devono intensificare gli sforzi per ridurre le emissioni di gas serra.

In Mozambico, si legge a conclusione di un articolo pubblicato sul quotidiano La Stampa il 27 marzo “centinaia di migliaia di persone sono oggi vittime e testimoni delle conseguenze devastanti del cambiamento climatico in corso, pagandone il prezzo più alto senza esserne la causa (l’Africa è responsabile del 4 per cento delle emissioni di gas serra sul pianeta)”.

Solo che ogni anno quando arriva il Monsone il Mozambico è battuto da piogge torrenziali che qualche volta diventano uragani e cicloni tropicali che provocano enormi danni, vittime e centinaia di migliaia di sfollati. Negli ultimi 30 anni sul paese se ne sono abbattuti 12.

Il ciclone Nadia, ad esempio, nel 1994 ha colpito con particolare violenza quattro province del paese. In quella di Nampula ha distrutto l’86 per cento delle case e il 75 per cento dei raccolti, lasciando circa 1,5 milioni di persone senza casa, 170.000 nella sola città di Nacala.