In ginocchio da Te, la virtù dell’umiltà

La Nuova Bussola quotidiana

20 dicembre 2018

 L’umiltà è come la carta d’identità del cattolico, specie quello che vuole riferirsi ad una spiritualità vicina al monachesimo, all’ideale del cavaliere cristiano. Inginocchiarsi esprime la voglia di tornare a Dio per mostrare che “l’altro” non è nulla per noi e che riconosciamo le nostre colpe ed è la porta che conduce all’umiltà.

di Aurelio Porfiri

L’umiltà è come la carta d’identità del cattolico, specie quello che vuole riferirsi ad una spiritualità vicina al monachesimo, all’ideale del cavaliere cristiano. Meister Eckhart diceva: “Dio opera maggiormente in un cuore umile, perché è là che trova la maggiore possibilità di operare, trovandovi la maggiore somiglianza con se stesso“.

Certo, dobbiamo anche esser attenti a riconoscere che l’umiltà può avere il suo lato negativo, può divenire in alcuni “superbia dell’umiltà”, il voler ostentare umiltà per esaltarsi agli occhi degl’altri, un pericolo che il caustico giornalista Roberto Gervaso così descrive: “Di tutte le forme d’orgoglio l’umiltà è la più calcolatrice”. O Romano Battaglia: “L’umiltà è la prerogativa di coloro che conoscono i propri limiti… e li amano”. François de la Rochefoucauld infine osservava: “L’umiltà spesso non è che una finta sottomissione, di cui ci si serve per sottomettere gli altri; è un artificio dell’orgoglio che si abbassa per esaltarsi; e benché si trasformi sotto mille spoglie, non è mai meglio camuffato e più ingannevole di quando si nasconde sotto la maschera dell’umiltà”.

Plinio Corrêa de Oliveira ci ha insegnato l’importanza della contemplazione sacrale sulle cose del mondo, cioè l’avere uno sguardo sempre capace di leggere tutto nella prospettiva soprannaturale. Si può applicarlo pensando ad una canzone di Gianni Morandi di molti decenni fa, In ginocchio da te. I primi versi dicono: “Ritornerò in ginocchio da te, l’altra non è niente per me, ora lo so, ho sbagliato con te, ritornerò in ginocchio da te”. A parte il riferimento a “l’altra”, sono molto più spirituali questi versi che quelli di molti canti liturgici nelle nostre chiese.

Il nostro continuo ritorno a Dio, non può che essere in ginocchio. L’atto dell’inginocchiarsi, nella liturgia e nella preghiera privata, è proprio un segno fondamentale del proprio desiderio di creatura di mostrare sottomissione al Creatore, il desiderio di farsi nulla per far sorgere il tutto. Questa voglia di tornare a Dio per mostrare che “l’altro” non è nulla per noi e che riconosciamo le nostre colpe è la porta che ci conduce all’umiltà. Solo chi si tiene in questo stato riesce a vedere quello che la superbia tiene fatalmente nascosto. E si deve mantenere questo stato di umiltà specialmente se si è consapevoli di trovarsi in stato di peccato anche grave.

San Giovanni Paolo II ben diceva quando affermava: “Il Signore tanto ama l’umiltà che, a volte, permette dei peccati gravi. Perché? Perché quelli che li hanno commessi, questi peccati, dopo, pentiti, restino umili”. Non sarebbe bello se fossimo capaci di trasformare i nostri peccati, o meglio la meditazione sugli stessi, come un mezzo di elevazione spirituale?

Il domenicano Marie-Dominique Philippe poteva dire: “L’umiltà, quando diventa una virtù divina, fa tabula rasa: non si accontenta più di vincere l’orgoglio, di appiattirne gli eccessi; scava l’abisso della piccolezza, perché l’Amore di Dio possa riempirlo della sua presenza, per attirare questo amore con maggiore violenza ed audacia”. Ecco, l’umiltà ci svuota di ciò di cui siamo pieni per riempirci di ciò di cui siamo vuoti, diremmo con Sant’Agostino. Per questo bisogna tornare a inginocchiarsi più spesso. E invece si vada in chiesa ad osservare e si nota come molta gente preferisce stare in piedi, in momenti in cui ci si dovrebbe inginocchiare davanti la Maestà di Dio.

Solo chi riconosce la Sua Signoria sarà poi capace di non inginocchiarsi davanti agli uomini. Invece si vedono persone prostrate davanti agli uomini per convenienza e che facevano volentieri a meno di mostrare questa adorazione verso Dio. Lo scrittore francese Jean Guitton affermava: “Credere in Dio significa credere in un essere inintelligibile, ma di cui si conosce la capacità di ascolto. Ecco cosa significa inginocchiarsi”.

Quando si è in grado di scavare dentro se stessi si è anche in grado di aprire uno spazio in cui un dialogo vero può prendere corpo. Fëdor Dostoevskij poteva affermare: “Vivere senza Dio è un rompicapo e un tormento. L’uomo non può vivere senza inginocchiarsi davanti a qualcosa. Se l’uomo rifiuta Dio, si inginocchia davanti ad un idolo”. Proprio quello: se non ti inginocchi davanti a Dio presto ti inginocchierai davanti agli uomini.

Una delle qualità principali della Messa Tridentina è quella di essere una “messa scomoda”. Si sta così spesso in ginocchio e su panche a volte senza i cuscinetti. Ma è meglio così, anzi si cerchi di aumentare la scomodità, perché proprio in questo annientamento risiede la nostra possibilità di conversione. In un blog (coraggiodellacastità.blogspot.com) è citato questo pensiero sulla mortificazione del Cardinale Desiré Mercier: “La mortificazione cristiana ha per fine la neutralizzazione degli influssi maligni che il peccato originale esercita ancora sulle nostre anime, anche dopo che il battesimo ci ha rigenerati. La nostra rigenerazione in Cristo, anche se annulla completamente il peccato che è in noi, ci lascia tuttavia molto distanti dalla rettitudine e dalla pace originali. Il concilio di Trento riconosce che la concupiscenza, ovvero la triplice brama della carne, degli occhi e dell’orgoglio, si fa sentire in noi anche dopo il battesimo, al fine di esercitarci alle gloriose lotte della vita cristiana. E’ questa triplice bramosia che la Scrittura chiama tanto il vecchio uomo, opposto all’uomo nuovo, che è Gesù vivo in noi e noi stessi vivi in Gesù, quanto la carne ovvero la natura decaduta, opposta allo spirito ovvero la natura rigenerata dalla grazia sovrannaturale. E’ questo vecchio uomo ovvero questa carne, cioè tutto l’uomo con la sua duplice vita morale e fisica, che bisogna, non annientare – perché è cosa impossibile nella vita presente – ma mortificare, cioè ridurre praticamente all’impotenza, all’inerzia e alla sterilità di un morto; bisogna impedirgli di fare il suo frutto, che è il peccato, e annullare la sua azione in tutta la nostra vita morale. La mortificazione cristiana deve dunque abbracciare tutto l’uomo, estendersi a tutte le sfere di attività in cui la nostra natura è capace di insorgere. Tale è l’oggetto della virtù della mortificazione: ne indicheremo ora la pratica, percorrendo successivamente le manifestazioni molteplici in cui si traduce nella nostra vita”.

Ricordiamo che una delle forme più importanti di mortificazione è proprio quella di inginocchiarsi, perché si umilia la propria dignità ma per elevarla alla sua vera e sola natura.

In un videomessaggio del 2009, Benedetto XVI affermava: “Il sacerdote, certamente uomo della Parola divina e del sacro, deve oggi più che mai essere uomo della gioia e della speranza. Agli uomini che non possono concepire che Dio sia puro amore, egli dirà sempre che la vita vale la pena di essere vissuta e che Cristo le dà tutto il suo senso perché Egli ama gli uomini, tutti gli uomini. La religione del Curato d’Ars è una religione della felicità, non una ricerca morbosa della mortificazione, come a volte si è creduto: “La nostra felicità è troppo grande; no, no, non lo capiremo mai” (Nodet, p. 110), diceva.

O ancora: “Quando siamo in cammino e vediamo un campanile, questa visione deva far battere il nostro cuore come quella della casa dove dimora il suo amato fa battere il cuore della sposa” (Ibidem)”. Insomma, la mortificazione, l’inginocchiarsi non sono un fine in se stessi, ma sono il mezzo per estirpare in noi quanto c’è di male per aprire un sentiero per la gioia più autentica e vera.