Etica pubblica e corruzione

da Il Corriere del Sud n. 5 anno XXVII

Crotone 15 giugno 2018

Temi centrali, oggi, letti alla luce degli insegnamenti del Catechismo della Chiesa Cattolica e del recente Magistero di Papa Francesco (e un riferimento all’ordinamento italiano, in primo luogo all’ANAC)

di Mauro Rotellini

Papa Francesco, fin dall’inizio del suo pontificato, ha trattato con molta frequenza i temi dell’etica pubblica e della corruzione nella società contemporanea. Il Catechismo della Chiesa Cattolica (CCC), del resto, fa di quest’ultima degenerazione dell’utilizzo dei poteri pubblici uno dei capisaldi di quel “rispetto dei beni altrui” imposto dal settimo comandamento.

Al n. 2409, fra l’altro, tale documento universale fatto promulgare nel 1992 da San Giovanni Paolo II, ha il merito d’identificare così i tre principali comportamenti che danno luogo ad una grave violazione dell’etica pubblica:

– sviare il giudizio di coloro che devono prendere decisioni in base al diritto;

– operare o favorire l’appropriazione o l’uso privato dei beni sociali;

– coprire o realizzare lavori eseguiti male, frodi fiscali, contraffazione di assegni e di fatture, spese eccessive, sperpero di risorse o beni pubblici.

Tutto ciò, continua il CCC, arrecando «volontariamente un danno alle proprietà private o pubbliche, è contrario alla legge morale ed esige il risarcimento» (n. 2409).

Nei suoi interventi in tema Papa Francesco ha avuto il merito di collegare frequentemente il fenomeno della corruzione con quello della mafia sia come organizzazione criminale sia come “mentalità”. Parlando ad esempio all’udienza generale del 28 marzo 2018, il Pontefice ha condannato quei “cristiani finti” che dicono di essere “uomini d’onore” mentre vivono «una vita corrotta».

Questi “cristiani finti”, proclama il Santa Padre nella stessa circostanza, «finiranno male». E aggiunge: «Il cristiano, ripeto, è peccatore – tutti lo siamo, io lo sono – ma abbiamo la sicurezza che quando chiediamo perdono il Signore ci perdona. Il corrotto fa finta di essere una persona onorevole, ma, alla fine nel suo cuore c’è la putredine. […] Pensiamo – per non andare lontano – pensiamo a casa, pensiamo ai cosiddetti “cristiani mafiosi”. Ma questi di cristiano non hanno nulla: si dicono cristiani, ma portano la morte nell’anima e agli altri».

Parole che mitigano quelle terribili pronunciate da Papa Francesco il 23 ottobre 2014, in Vaticano, rivolgendosi alla delegazione internazionale di diritto penale: «la corruzione è un male più grande del peccato […] tuttavia il Signore non si stanca di bussare alle porte dei corrotti. La corruzione non può nulla contro la speranza».

In un intervento più recente, infine, il Santo Padre è ritornato in maniera “fulminante” sull’argomento, invocando da Dio «la forza di andare avanti [e] di continuare a lottare contro la corruzione» (tweet del 19 luglio 2018).

Inutile girarci intorno, il problema è particolarmente avvertito soprattutto nei Paesi un tempo cattolici che, perdendo l’identità e l’etica cristiana, sprofondano sempre più, a cominciare dalle loro “classi dirigenti”, nella corruzione. Ma anche quegli Stati nordici portati continuamente ad esempio dai media ed opinionisti occidentali nei confronti di quelli del Sud Europa che, a loro dire, non sarebbero stati “illuminati” dalla c.d. riforma protestante, hanno i loro problemi di mancanza di etica pubblica e di malaffare.

La corruzione, infatti, non ha solamente una matrice mafiosa o camorristica, ma ha anche quella delle consorterie, più o meno segrete, delle connivenze, degli aiuti interessati, dei reciproci favori che si trovano ovunque. In Francia, ad esempio, è recentissima la denuncia di Alexis Kohler, segretario generale dell’Eliseo, braccio destro del presidente Macron per “traffico di influenze”. È insomma un atteggiamento, una debolezza tipica della natura umana quella della corruzione, che non potranno certo essere vinte con sempre nuove norme o legislazioni più severe.

Potrebbe essere di aiuto il cambiamento della percezione sociale del funzionario (o imprenditore) “corrotto”. Non è facile, perché alla fine il corrotto “aiuta” (se mi si passa il termine) altre persone che – in quel momento – sono in uno stato di bisogno (bisogno – sia chiaro – che spesso è originato da loro volontà non lecite: il costruttore che vuole utilizzare più sabbia o cemento ha bisogno che il funzionario non controlli la composizione del cemento stesso etc.).

In ultima analisi ha un ruolo “positivo” per il corruttore, che è la persona che conosce quanto accaduto ed è quindi la sola a poterla smascherare con efficacia. Ovviamente i danni li paga la società nel suo insieme. Ma questi danni, ripartiti sulla generalità dei cittadini non si avvertono subito, o si avvertono molto poco.

Resterebbe poi inoltre il dubbio ruolo della “sanzione sociale” che, come noto, può essere ben indirizzata dai poteri dominanti, con esiti inquietanti. Come affrontare quindi la situazione d’illiceità grave, gravissima, della situazione odierna? E qui si può agire solo ritornando sul piano morale, a partire, mi si consenta, da quella “parola ultima” detta sempre da Papa Francesco, anche parlando in tema di etica pubblica e di lotta alla corruzione. Vale a dire la speranza.

La speranza della società di divenire più moralmente pulita? Sì certo. Ma queste sono le speranze laiche che, non vedendo il peccato originale, si riducono alla fine in meri e fatui auspici.

Quella di cui il Santo Padre ci parla è invece la speranza del corrotto e del corruttore di liberarsi e recuperare la propria dignità, riconoscendo il peccato e, di conseguenza, il reato. Ma ciò può avvenire solo chiedendo perdono e perdonandosi, affrontandone le conseguenze e riscattando la propria persona. Certo, magari anche usufruendo di sconti di pena che il legislatore può dare, ma soprattutto cogliendo ed alimentando la luce che la speranza del riscatto (eterno, ma anche contingente) può accendere dentro di lui. Occorre allora una nuova evangelizzazione, un nuovo impegno della Chiesa, alla sequela di Papa Francesco, anche su questo versante.

Per offrire un approfondimento tecnico di come gli ordinamenti pubblici possano o meno aiutare a contrastare i fenomeni degenerativi dell’etica pubblica parliamo della situazione italiana e, in particolare, dell’organismo-principe ideato negli ultimi anni, l’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC).

Non è un argomento scelto a caso. Nel contratto di governo M5S-Lega, entrato in azione dopo le ultime elezioni politiche del 4 marzo 2018, infatti, si legge che nell’ambito delle misure anti corruzione è necessario «abbinare, oltre che un potenziamento dell’Autorità Nazionale Anti-corruzione e del piano di prevenzione della corruzione, una modifica delle disposizioni vigenti – ad oggi non del tutto efficaci – in termini di prevenzione e repressione, anche rafforzando le tutele per il whistle-blower [= il dipendente pubblico che segnala gli illeciti]. In materia di intercettazioni è opportuno intervenire per potenziarne l’utilizzo, soprattutto per i reati di corruzione».

Ma cosa è esattamente l’Autorità Nazionale Anticorruzione?

Si tratta di un’Autorità indipendente il cui scopo – si legge sul sito istituzionale – è quello di prevenire la corruzione nell’ambito delle amministrazioni pubbliche, cercando di diffondere e migliorare l’attuazione della normativa in materia di trasparenza e svolgendo un’attività di vigilanza nell’ambito dei contratti pubblici, degli incarichi e comunque in ogni settore della pubblica amministrazione che potenzialmente possa sviluppare fenomeni corruttivi.

Il nodo essenziale è che l’ANAC agisce intervenendo in sede consultiva e di regolazione, nonché mediante attività conoscitiva allo scopo di creare una rete di collaborazione nell’ambito delle amministrazioni pubbliche e aumentare l’efficienza nell’utilizzo delle risorse, riducendo i controlli formali.

La presenza di questa Autorità pone però molteplici problemi. Bisognerebbe infatti ricondurre l’ANAC all’interno dell’ordinario funzionamento della Pubblica amministrazione, comprimendone un po’ i poteri, ma certamente non si prospetta un’azione facile, almeno per un governo e per un ministro, come quello della giustizia Alfonso Bonafede, che hanno fatto del giustizialismo una delle loro bandiere.

Ma ritornando al punto: qual è esattamente l’attività cui è istituzionalmente preposta l’ANAC? Si può dire che sia quella di regolare la disciplina dei contratti pubblici in Italia. Su questo punto dovrebbe intervenire e, giustamente, su questo tema verte oggi il dibattito. In merito, l’ANAC utilizza lo strumento delle “Linee Guida”, strumento che il Codice degli Appalti, al suo articolo 213, mette a disposizione dell’Autorità di Cantone per esercitare il suo potere di vigilanza e controllo sugli appalti pubblici.

Il problema sta nel fatto che attraverso questo strumento, l’ANAC definisce e dettaglia il contenuto della norma del Codice degli Appalti. Svolge, quindi, in ultima analisi un’attività legislativa, che si pone essa ai confini della legittimità costituzionale. Si tenga inoltre presente che alcune disposizioni contenute nelle “Linee Guida” hanno natura vincolante. Lo stesso Consiglio di Stato ha sottolineato nel suo parere 855/2016 che il sistema è contraddittorio.

Lo è perché non si può sostenere che delle “linee guida” (per loro natura generali e non di dettaglio) possano essere vincolanti e perché anche se potessimo considerarle atti amministrativi di natura generale e tecnica (e quindi non atti legislativi), difficilmente sarebbe sostenibile che esse possano intervenire in settori per i quali non esista o sia sconsigliato un intervento di natura legislativo (come per esempio negli interventi di regolazione del mercato dell’Autorità sulla Concorrenza).

E se così fosse, come potrebbero vincolare le Regioni nelle materie di loro competenza sulle quali la Costituzione riconosce potestà regolamentare?

Un esempio concreto: quando l’ANAC emana una disposizione nelle “Linee Guida” che definisce criteri di selezione ex art. 83 del Codice degli Appalti, svolge non un’attività tecnica, ma applica principi di opportunità e una discrezionalità tipica del legislatore regolando i rapporti tra cittadini, pubblica amministrazione e imprese. Essa appare essere quindi più una nuova fonte del diritto che un regolamento di applicazione… Sarebbe dunque necessario riconoscere a tali tipi di interventi normativi natura di legge. Ma questo è escluso dalla Costituzione, che riconosce solo nei due rami del Parlamento la potestà legislativa. E allora?

In effetti, come abbiamo velocemente rappresentato, i rapporti tra l’attuale configurazione dell’ANAC e il processo legislativo sarebbero da rivedere. Nel tentativo di combattere la corruzione, quindi, ruoli, competenze e obiettivi dovrebbero essere del tutto rivisti.

Ma tutto ciò non toglie che per un cristiano è evidente come anche nel fenomeno della corruzione pubblica si manifesti quel mysterium iniquitatis che è e sarà sempre parte ineliminabile della natura umana. Ma non possiamo accettarlo supinamente. Il Magistero di Papa Francesco è su questo punto continuo e “mobilitante”. Bisognerebbe davvero ascoltarlo perché ridice la millenaria sapienza della Chiesa.