Uno sguardo sull’islam politico.

Osservatorio Internazionale Cardinale Van Thân sulla Dottrina sociale della Chiesa

Newsletter n.917 del 20 Settembre 2018

Recensione a Marie Thérès Urvoy, Islamologie et monde islamique

di Stefano Fontana

Il mondo cattolico affronta il problema dell’islam soprattutto dal punto di vista del dialogo interreligioso. La crescente presenza di musulmani nei Paesi di antica tradizione cristiana impone però di esaminare il mondo islamico anche dal punto di vista strettamente sociale e politico, cosa diversa, anche se non contraria, alla prospettiva del dialogo interreligioso.

Per farlo, i cattolici dovranno utilizzare la Dottrina sociale della Chiesa che, quindi, si trova davanti ad un nuovo compito, quello di esaminare la dimensione politica della religione islamica e di valutarla non solo in rapporto alla visione politica dell’occidente cristiano, che può avere elementi di diversità dal cristianesimo anche se, in qualche modo, da esso deriva, ma proprio in rapporto al proprio corpo dottrinale.

A questo scopo può essere utile il volume in esame, scritto da una grande esperta capace di scendere in profondità nei contenuti della religione di Maometto. Sul mercato, infatti, circolano molti strumenti sull’islam non sempre attendibili ma spesso frutto al massimo di buon giornalismo. In questo caso, invece, siamo in presenza di un testo veramente scientifico.

Il libro è diviso in quattro parti. La prima parte è dedicata ai dati fondamentali e chiarisce il senso della “lettera” nell’islam, la nozione di persona umana e la natura della morale islamica. La seconda parte tratta alcuni aspetti particolari, come la famiglia, l’economia, la società, la politica e l’ideologia.

In questa stessa parte vengono esaminati il problema del terrorismo, della laicità, della concezione dei diritti umani nell’islam. La terza parte parla delle relazioni tra islam e cristianesimo e del dialogo reciproco.

Importante, in queste terza parte, il capitolo sul discorso di Benedetto XVI a Ratisbona del 2006. Nell’ultima parte si esaminano alcuni aspetti culturali significativi. Cercheremo di far emergere, qui di seguito, alcuni aspetti di particolare interesse per il confronto con la Dottrina sociale della Chiesa.

La legge islamica

Il termine sharia, o legge islamica, è oggi molto noto in occidente, tanto che ormai molti sistemi giuridici di Paesi occidentali ne accolgono alcuni principi. Altrettanto spesso a questo termine si dà una interpretazione non fissista ma evoluzionista, come se non esistesse una legge islamica sempre uguale ma in divenire nella storia.

A questo proposito la Urvoy conclude delle annotazioni di grande interesse per spiegare come sia possibile oggi un “ritorno alla sharia” (pp. 17-21). Infatti nell’islam esiste una logica secondo la quale l’ignoto va ricondotto al noto ossia a quanto rivelato o definito dal consenso tradizionale.

Per questo nel 1923 la costituzione egiziana adottò la formula “l’islam è la religione dello Stato e l’arabo è la sua lingua ufficiale”. Qui di sharia non si parlava nemmeno. Ma nel 1971 la vecchia formulazione su sostituita con la seguente: “i principi della sharia islamica sono fonti essenziali della legislazione”.

Finché, nel 1982, il testo fu ulteriormente mutato affermando che la sharia era “la fonte (quindi l’unica) essenziale della legislazione”. Se poi si cerca di approfondire cosa sia la sharia si arriva sempre alla conclusione che essa altro non è che il Corano preso alla lettera.

E la cosa è comprensibile perché il Corano è la parola di Dio, e quello che Dio dice non ha bisogno di essere precisato perché è chiaro in sé, la rivelazione coranica è increata e la stessa lingua araba è la lingua di Dio, quindi una lingua sacra e consustanziale a Dio, quella stessa da Lui utilizzata per parlare al Profeta, una lingua sub specie aeternitatis.

L’osservazione è importante dal punto di vista politico, in quanto rimanda alla dimensione letterale del libro sacro “dettato” da Dio e che diventa quindi immediatamente politico, contenendo prescrizioni precise cui obbedire quotidianamente. Tra sacro e profano non c‘è distinzione.

Il concetto di persona nell’islam

Illuminanti osservazioni vengono condotte anche a proposito del concetto di persona nell’islam (pp. 23-44). La concezione cristiana di persona ha una origine trinitaria e come tale si è poi tradotta anche nel concetto filosofico e culturale occidentale. Ma per l’islam è impossibile attribuire a Dio l’aggettivo “personale”, perché “il Dio dell’Islam è collocato in una dimensione assoluta che impedisce di sollevare una tale questione” (p. 24).

Alcuni autori hanno parlato di una dimensione “personalista” nel Corano e nella tradizione profetica, sostenendo che la persona verrebbe emancipata dalla tribù e collocata nella Umma, ossia in una comunità trascendente i quadri di una appartenenza tradizionale. Inoltre essa sarebbe stata responsabilizzata in quanto dovrà presentarsi sola davanti al giudizio divino.

Ma la Urvoy precisa che la parola individuo è presente in sole due occorrenze del Corano, che essere “solo” davanti a Dio non necessariamente evoca una qualità ma piuttosto una debolezza, che la parola sachs indica qualcosa che appare, similmente al senso originario del termine geco prosopon che però in seguito ha assunto ben altri significati. Il testo del Corano, quindi, non consente un “personalismo” islamico.

Secondo la Urvoy, il fatto di un Dio che parla ai fedeli ha suscitato un interesse filosofico per il problema della “persona”, ma la filosofia islamica non ha influenzato veramente il mondo islamico, sicché la persona è stata sviluppata dalla mistica e dal diritto che l’ha collocata dentro il primato della comunità.

La morale

Sempre nella Prima parte rientrano due capitoli sulla morale e l’etica nell’islam ove se ne evidenzia la profonda diversità rispetto alla visione cattolica. Nell’islam non si dà il concetto di natura nel senso greco e poi cristiano del termine. Ne ha parlato la corrente razionalista del mu’tazilismo ma non ha avuto seguito.

Nel rispetto della assoluta trascendenza di Dio, nell’islam non esiste un diritto naturale né una morale naturale (p. 46). “È la parola di Dio ad indicare cosa si deve fare o non fare, ciò che è da lodare o da disprezzare, altrimenti detto ciò che è bene e ciò che è male” (p. 46). “La distinzione tra bene e male è assimilata all’opposizione legale di permesso e vietato” (p. 47).

Ciò che fa dell’uomo un valore unico nel creato è che, dovendo rispondere a Dio, egli non si rivolge dapprima a se stesso per consultarsi (p. 47), ma nell’islam la virtù non si fonda sulla natura umana ma consiste nell’accogliere la rivelazione di Dio (48): “Niente virtù, quindi, come crescita ontologica e sviluppo dell’essere. La morale, come la virtù, è l’atto virtuoso.

L’uomo morale altro non è colui che possiede una virtù acquisita, ma colui che pratica l’atto morale” (p. 48). La vita morale è una successione discontinua di atti per cui si capisce che Dio è “rapide contable”. C’è però dell’altro. Dio solo è l’autore degli atti umani e la virtù è fondata in modo estrinseco mediante la preferenza divina accordata al soggetto. “La virtù islamica non è una proprietà interiore dell’anima, è lo stato di un’anima spogliata di se stessa dai suoi atti di obbedienza” (p. 51).

La morale islamica comprende la taqiyya (dissimulazione) secondo la quale i credenti sono dispensati di obbedire alle regole della religione sotto il peso della necessità o davanti ad un pericolo.

Il concetto di comunità

All’interno della Seconda Parte del libro, il capitolo 11 tratta della nozione di comunità nell’islam. Dopo l’egira, Maometto scrisse la “Costituzione di Medina” con la quale trasformò il legame tribale in una nuova comunità (Umma). Uno degli hadits più antichi dice: “Ho ricevuto l’ordine di combattere gli uomini fino a quando diranno: Nessun Dio al di fuori di Allah” (p. 144).

Fu creata una confederazione guerriera. Gli affiliati alla Umma sono i credenti, gli “affidati”, ha quindi un significato religioso reso possibile da Allah che si rende garante del patto stabilito da Maometto.

La Costituzione di Medina dice al suo inizio che la Umma è una comunità unica con l’esclusione di tutti gli altri (p. 146). L’adesione alla fede in Allah la rende esclusiva e permette la gihad, la guerra comune: “la guerra sul sentiero di Allah”. Una legislazione casistica permette anche di sfuggire alla pena se la vittima è estranea al gruppo.

La Umma è una solidarietà fraterna a risonanza religiosa, il suo nome deriva da umm: mamma. I partecipanti sono fratelli in modo esclusivo. Il commentatore al-Razi dice “nessuna fraternità se non tra musulmani” (p. 147). Tale fraternità aveva una ripercussione per esempio sull’eredità: un infedele non può ereditare da un musulmano.

Oltre ad avere un significato esclusivo, la Umma ne ha anche uno speciale: “Voi siete la comunità migliore che sia stata creata dagli uomini; voi ordinate di fare il bene, disprezzate il male e credete in Dio” dice il Corano. La fraternità della Umma ha come fondamento il Libro., il Corano eterno e immutabile che le dona un forte senso di appartenenza.

La situazione è diversa da quella della Chiesa per i cristiani. La Umma invece è “uno stato giuridico direttamente voluto e decretato da Dio” (p. 148). Qui la teologia diventa giuridismo, un ordine giuridico che fa dei musulmani “una comunità coerente e aggressiva verso tutti coloro che le sono estranei”. Essa ha un valore assoluto e di superiorità in terra – “la migliore che sia mai sorta tra gli uomini” – assicura una retribuzione concreta in paradiso e questo fa assumere coscienza al credente.

Ciò spiega perché l’abbandono volontario della comunità è un crimine capitale (p. 149) in quanto la legge coranica corrisponde all’ordine pubblico. Ogni grande peccato può essere perdonato ma questo merita la pena capitale e la condanna per l’eternità. Ancora oggi è vietato ad un musulmano di convertirsi ad un’altra religione.

La prova della coesione della Umma è il dar-al-islam, l’insieme delle terre dove si osserva le legge coranica (p. 150). Ciò va inteso dal punto di vista politico. A ciò è collegato il dar-alharb costituito dalle terre da conquistare tramite la gihad. Non si tratta solo di ottenere conversioni personali ma il rispetto globale dei diritti di Dio previsti dal Corano e da Maometto suo profeta. Tutta la dignità dell’uomo deriva dalla volontà divina. Il diritto distingue: uomini e donne, liberi e schiavi, musulmani e non musulmani. Ciò assegna un senso privilegiato alla comunità dei credenti.

Una definizione completa di Umma si trova a pag. 152 del libro della Urvoy. È importante che di essa si dica che è anche un fatto territoriale, abita delle terre le “terre dell’islam”, abita una casa, la “casa dell’islam”, essa ha sei città sante prima di tutte La Mecca e Gerusalemme, essa vive attorno alle moschee con i minareti eretti verso il cielo come simboli dell’Uno che fonda anche l’unicità dei musulmani, si manifesta mediante gli appelli quotidiani dei muezzin, i pellegrinaggi, le feste e le preghiere (p. 152).

La Umma riguarda quindi non solo la religione ma anche la politica, la società e l’economia. “La umma è ontologicamente l’islam”, essa prefigura la comunità che, rinnovata dal patto pre-eterno di Dio. Si lascia riunire nell’unità di un’unica sottomissione al suo Maestro e Signore.

La situazione oggi è molto diversa. Però hanno qualcosa in comune, la sottomissione alla trascendenza. Sono diverse ma sono tutte “città di Allah, del Corano e della Legge” (p. 153). Da qui la tendenza a costituzionalizzare che l’islam è la religione non di Stato ma dello Stato. Dagli anni Settanta si è cominciato a codificare la sharia e oggi il diritto islamico è stato integrato in tutti gli Stati arabi o islamici. Negli anni 80 si è cambiato l’atteggiamento verso l’economia negando che il prestito delle banche arabe sia usura, vietata dal Corano. Quindi è nato il problema del velo. 

La politica

Dopo la morte di Maometto ci fu la divisione in Sciiti, Sunniti e Kharigiti che si affrontarono per la questione del califfato, il capo supremo dell’islam. La sede del califfato fu a Damasco, Cordova, Bagdad, Il Cairo, e dal 1512, a Istambul dove nel 1924 Mustafa Kemal decretò la fine del califfato. Il corano dice “Obbedite a Dio, obbedite al profeta e coloro tra voi che hanno autorità su di voi”. La Umma è sia la comunità sottomessa al califfo sia la comunità locale, è sia la comunità nella sua totalità che una parte di essa. Ciò complica la situazione del potere nell’islam, soprattutto nei rapporti tra poteri religioso e politico dato che nell’islam non c’è una distinzione precisa tra il sacro e il profano. “Il Corano contiene dei precetti, individuali e collettivi, conosciuti come la stessa parola di Dio” (p. 171).

Ragione e fede, la lezione di Regensburg

Di notevole interesse il capitolo della III parte del libro riguardante il discorso di Benedetto XVI a Ratisbona in quanto tocca il tema del rapporto tra fede e ragione nell’islam (pp. 335-347). Nella lezione di Ratisbona Benedetto XVI tocca l’islam due volte. La prima è quando dice che l’autore cristiano rimprovera al musulmano di voler diffondere la sua fede con la spada.

Il tema riguarda l’argomento caldo della gihad o guerra santa. L’analisi lessicale del Corano fatta dalla Urvoy non lascia alcun dubbio che la sura IX al versetto 123 parla non di un combattimento spirituale ma fisico e bellico (pp. 335-336).

Il secondo passaggio è quando il Papa dice che “per la dottrina islamica, al contrario, Dio è assolutamente trascendente. La sua volontà non è legata a nessuna delle nostre categorie. Fosse anche quella di ragionevole”, per questo “Dio non è legato dalla propria parola, e niente lo obbliga a rivelarci la verità. Se questa fosse la sua volontà l’uomo dovrebbe praticare l’idolatria”.

Qual è il posto della ragione nella religione islamica? Essa ha un valore strumentale a “comprendere” la parola di Dio, ciò anche quando legge i “segni” della creazione. La ragione non è mai vista come arbitro o un riferimento che valga per se stesso (p. 337). La tradizione islamica ha conosciuto delle fasi di “razionalismo” come quella del Mu’tazilismo secondo cui l’uomo è capace con la sua ragione di conoscere l’esistenza di Dio e dei principi morali fondamentali, ma fu poi condannato dall’ortodossia sunnita e la visione costitutiva e non solo strumentale della ragione fu negata.

Essa è vista come esigenza logica e viene rifiutato che possa avere un ruolo di fondamento dell’etica: “L’etica è necessariamente vista, nel mondo islamico, sotto le categorie giuridiche dell’obbligatorio e del vietato, del raccomandato e del biasimevole (la categoria del lecito non ne è che il semplice residuo) e il tutto è sanzionato dalla punizione o dalla ricompensa” (p. 339).

Niente è obbligatorio dal punto di vista della ragione. Non è obbligatorio che quanto una autorità superiore ha dichiarato obbligatorio. La filosofia musulmana di a-Gazali (XI secolo) ha una visione della ragione che rifiuta qualsiasi tipo di teodicea e “la filosofia sviluppata successivamente nella Spagna islamica non avrà alcuna influenza sul resto del mondo islamico” (p. 340).

Circa la gihad viene poi ricordata la formula “nessun contrasto in religione” che si legge nella sura II, ma è stato ampiamente accertato che essa appartiene al periodo iniziale quando Maometto non aveva alcun potere ed era minacciato (p. 345).

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Marie Thérèse Urvoy, Islamologie et monde islamique,Cerf, Paris 2016