Dopo la sconfitta in Iraq e Siria, l’IS alla conquista dell’Africa

Aleteia 17 Luglio 2018

La presenza jihadista nel Sahel, una minaccia che non va presa alla leggera

 Paul De Maeyer 

E’ uno sbaglio pensare che dopo la sconfitta in Iraq e Siria, la “brutale ideologia” dello Stato Islamico (IS) sia morta. Sta infatti prendendo piede in Africa, così avverte la nota rivista britannica Economist, in un articolo pubblicato il 12 luglio scorso sul sito Internet.

Dopo la caduta del “califfato” — proclamato il 29 giugno 2014 dalla Grande Moschea di Al Nuri, a Mosul, da Abu Bakr al-Baghdadi — è iniziata una fase di decentramento o frammentazione, la quale ha visto molti combattenti fuggire o trasferirsi in Africa, in particolare verso la zona del Sahel, questa arida fascia di transizione dal deserto del Sahara alla savana.

La letalità dei combattenti dell’IS in Africa supera quella dei loro compagni di guerra in Iraq, così sostiene l’Economist. L’anno scorso hanno ucciso circa 10.000 persone, soprattutto civili. I loro fighters sono anche numerosi. Il gruppo ISWAP (Islamic State West Africa Province o “Provincia dell’Africa occidentale dello Stato Islamico”) conta in Nigeria circa 3.500 militanti, probabilmente un numero più elevato di quello dei combattenti dell’IS originale ancora presenti in Iraq e Siria.

Anche se la minaccia costituita dall’IS agli interessi occidentali nella fascia del Sahel è ridotta, così continua l’Economist, i suoi tentacoli arrivano fino in Occidente, come dimostrano gli attentati del 22 maggio 2017 a Manchester e del 19 dicembre 2016 a Berlino, in cui morirono rispettivamente 23 e 12 persone. In entrambi i casi gli attentatori avevano legami con la Libia, dove l’IS è presente a sud di Sirte.

Presenza jihadista nel Sahel

Si tratta infatti di una minaccia che non va presa alla leggera. Come spiega il sito Difesa & Sicurezza, vari gruppi jihadisti attivi nella zona si sono infatti uniti sotto il nome di Stato Islamico nel Grande Sahara (Islamic State Greater Sahara o ISGS) per combattere la forza congiunta antiterrorismo costituita da cinque Paesi del Sahel, ossia Burkina Faso, Ciad, Mali, Mauritania e Niger.

Nota con la sigla FC-G5S (dal francese Force Conjointe du G5 Sahel), questa forza lotta insieme con le truppe francesi dell’Operazione Barkhanee le forze di altri Paesi, fra cui Stati Uniti e Germania, contro i gruppi jihadisti e ha raggiunto di recente la sua piena capacità operativa (FOC o Full Operational Capability in gergo militare).

Che il pericolo costituito dall’ISGS non vada preso sottogamba lo dimostra ad esempio l’imboscata tesa il 4 ottobre del 2017 in Niger nei pressi del villaggio di Tongo Tongo, vicino al confine con il Mali, in cui quattro soldati delle forze USA e cinque militari nigeriani sono rimasti uccisi.

A dirigere l’ISGS è Adnan Abu Walid al-Sahrawi. L’ex portavoce e sedicente emiro del gruppo armato jihadista Al Mourabitoun ha giurato nel maggio 2015 fedeltà all’IS e al califfo Abu Bakr al-Baghdadi (riconosciuta ufficialmente soltanto nell’ottobre 2016), una mossa che ha provocato una scissione con l’altro ramo del movimento, guidato dall’algerino Mokhtar Belmokhtar. Quest’ultimo gruppo diventa nel dicembre 2015 una brigata o katiba di Al-Qaida nel Maghreb Islamico (AQMI).

Al Mourabitoun è il movimento armato legato ad Al Qaeda, che ha rivendicato l’attacco terroristico lanciato contro l’albergo Radisson Blu nella capitale del Mali, Bamako, in cui morirono nel marzo 2015 ben 20 persone (più due attentatori).

Infine, nel marzo 2017, quattro gruppi armati legati ad Al QaedaAnsar Dine, inoltre Al-Qaida nel Maghreb Islamico (AQMI), il ramo di Al Mourabitoun di Mokhtar Belmokhtar e infine il gruppo jihadista dell’etnia Peul, il Fronte di Liberazione della Macina — hanno annunciato la loro fusione nel nuovo movimento Jama’at Nusrat al-Islam wal Muslimeen, che tradotto significa “Gruppo di Supporto all’Islam e ai Musulmani”.

Perché il Sahel?

Come ricorda l’Economist, il fenomeno del jihadismo destabilizza nella zona del Sahel tutta una serie di Paesi poveri e spesso mal governati, ma anche con una elevata crescita demografica. “Se cadono nel caos — avverte la rivista — l’Europa può aspettarsi milioni di rifugiati in più.”

“L’ascesa del jihadismo in Africa è radicata nel malgoverno, aggravata dalla pressione demografica e dai cambiamenti climatici”, continua l’articolo, il quale aggiunge che in questo tipo di situazione “la promessa di giustizia religiosa da parte degli insorti può sembrare allettante”.

Il 26 giugno scorso, il ministro marocchino degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, Nasser Bourita, si è rivolto a Skhirat (tra Casablanca e Rabat) ai partecipanti dell’incontro dei direttori politici della coalizione globale contro l’IS, dicendo che l’Africa conta più di 10.000 combattenti o jihadisti, che sfruttano abilmente le vulnerabilità del continente.

Rapporto della Fondazione Mo Ibrahim

A confermare queste preoccupazioni è un rapporto presentato nell’aprile dell’anno scorso dalla Fondazione Mo Ibrahim. Intitolato Africa at a tipping point (“L’Africa al punto di non ritorno”), il documento presenta una serie di dati impressionanti, che aiutano a capire le proporzioni della sfida che attende il continente.

Dal 2015 al 2050, il numero di giovani africani quasi raddoppierà, da 230 a 452 milioni. Nel 2015, il 60% della popolazione africana — più della metà, anzi quasi due terzi (!) — aveva meno di 25 anni. In media quasi la metà della popolazione africana non ha ancora raggiunto la soglia d’età per esercitare il diritto di voto. Inoltre, meno di un quarto della gioventù africana si dichiara “molto interessata agli affari pubblici”.

Per la mancanza di prospettive, tra un terzo e la metà della popolazione con livello di istruzione terziaria di Kenya, Uganda, Liberia, Mozambico e Ghana lascia il Paese in cerca di una vita migliore altrove. Negli ultimi dieci anni, il numero di proteste e di rivolte è aumentato più di dieci volte in Africa.

Per quanto riguarda il terrorismo, quattro Paesi africani risultano nella Top Ten mondiale col più alto livello di terrorismo. Si tratta di Nigeria, Somalia, Egitto e Libia. Nell’ultimo decennio il numero di attacchi o attentati terroristici ha conosciuto del resto in Africa un aumento di più del 1.000%, rivela il rapporto.

I Paesi africani con il maggior numero di vittime sono la Nigeria e la Somalia, con rispettivamente 17.930 e 6.278 vittime nel periodo che va dal 2006 al 2015. I gruppi terroristici più attivi in questi due Paesi sono il gruppo anti-occidentale Boko Haram (diventato poi ISWAP nel 2015) in Nigeria e Al Shabaab in Somalia.

In quest’ultimo Paese, che non fa parte del Sahel (anche se alcuni vorrebbero includerlo), sono emersi due altri relativamente nuovi gruppi legati all’IS. Si tratta dello Stato Islamico in Somalia (abbreviato ISS) e di Jahba East Africa, chiamato anche Stato Islamico in Somalia, Kenya, Tanzania e Uganda (ISISSKTU). In entrambi i casi si tratta di gruppi secessionisti di Al Shabaab.

Il dramma dei bambini

Particolare attenzione va data al dramma dei bambini che vivono sulla propria pelle la cieca violenza dei gruppi terroristici. Secondo il rapport Silent Shame. Bringing out the voices of children caught in the Lake Chad crisis (“La vergogna silenziosa. Far emergere le voci dei bambini catturati nella crisi del lago Ciad”), reso pubblico nell’aprile del 2017 dall’UNICEF, nella regione del Lago Ciad (che si sta del resto prosciugando) ben 1,3 milioni di bambini sono sfollati e 123.000 sono profughi in Paesi vicini.

Una prassi diffusa è il sequestro di bambini e soprattutto di bambine. Ben viva è la memoria delle 276 ragazze rapite nel 2014 a Chibok, nello Stato nigeriano di Borno, da miliziani di Boko Haram. Che il gruppo terroristico non sia ancora stato sconfitto in Nigeria lo dimostra la scomparsa di 111 studentesse dopo un attacco effettuato a Dapchi, nello Stato di Yobe.

Come emerge dal rapporto UNICEF, alle bambine rapite dai jihadisti viene spesso assegnato un “marito”, vengono inoltre stuprate e sottoposte a maltrattamenti, e se sono incinte — anche in giovanissima età — sono costrette a partorire senza alcuna assistenza.

Raccapricciante è un’altra cifra fornita dal rapporto del Fondo per l’Infanzia delle Nazioni Unite. Sin dall’inizio del mese di gennaio 2014, ben 117 bambini, di cui più dell’80% bambine (a causa delle loro lunghe e coprenti vesti), sono stati usati in attacchi “suicidi” in Nigeria, Niger, Ciad e Camerun.

Tutto questo dimostra che la sfida posta dal jihadismo è seria. Anche se la lotta contro il terrorismo islamico è pericolosa — due militari francesi sono morti nel febbraio scorso, quando il loro blindato ha colpito una mina artigianale –, non bisogna ripetere l’errore commesso nel 1993 dall’allora presidente americano Bill Clinton, che decise di ritirare le truppe USA dalla Somalia, lasciando il Paese alla deriva, così sostiene l’Economist. E’ più facile lasciar andare in pezzi il Sahel, che ricomporlo, avverte la rivista.