Il socialismo del XXI secolo

John Maynard Keynes

Istituto Bruno Leoni. Focus 10 ottobre 2015

 Il ritorno del “keynesismo idraulico”?

di Eugenio Somaini (*)

Gira e rigira le posizioni di quanti si oppongono alle politiche di rigore finanziario e/o a riforme di stampo liberale ruotano intorno ai seguenti punti: la spesa pubblica non deve essere tagliata, ma piuttosto aumentata e riqualificata, concentrandola sugli investimenti in infrastrutture, sulla ricerca e sul sostegno alle fasce più bisognose e alle aree più arretrate; l’osservanza di vincoli di bilancio è da evitare in una fase di recessione in quanto pro-ciclica, ma nel più lungo periodo può essere resa compatibile con un sensibile aumento della spesa pubblica grazie agli effetti espansivi che la stessa avrebbe sul reddito (e quindi anche sul gettito fiscale), soprattutto quando il prelievo si concentri sulle fasce di reddito più elevate; le misure di liberalizzazione, in particolare quelle riguardanti i rapporti di lavoro, non danno alcun contributo al superamento della crisi, ma piuttosto ne aggravano le conseguenze sociali e rappresentano comunque un attentato a diritti fondamentali.

Tali idee condivise dalle correnti più radicali dei partiti di sinistra (da Corbyn, a Tsipras, alla sinistra del PD) non sono in fondo che una riproposizione di quella combinazione di keynesismo e di welfare che potremmo definire socialdemocratica e che ha dominato la scena negli anni che vanno dalla fine della Seconda Guerra Mondiale alla metà degli anni ’70.

Le ipotesi sulle quali quelle posizioni si fondano sono sostanzialmente tre: I) la prima, e più generale, è che i comportamenti economici rispondano in modo prevedibile agli impulsi che vengono loro impartiti e possano essere plasmati dai governi attraverso un dosaggio di stimoli e di freni, conciliando gli obiettivi immediati di natura congiunturale con quelli di lungo periodo di una crescita sostenuta e di una società più equa e democratica; II) la seconda è che i soggetti con redditi più elevati abbiano una propensione al risparmio sistematicamente superiore a quella del resto della popolazione e che pertanto un inasprimento del prelievo fiscale a loro carico accompagnato da un uguale alleggerimento di quello sulle fasce di reddito inferiori abbia di per sé effetti espansivi; III) terza è che i redditi generati dalla spesa pubblica abbiano non solo un titolo di autenticità pari a quello dei redditi generati privatamente, ma anche uno status e una valenza superiori, in quanto motivati da scelte più lungimiranti (riguardanti la crescita, il rispetto dell’ambiente ecc.) e in quanto modellabili secondo criteri di equità distributiva.

La prima ipotesi è un portato dell’influenza che la vulgata keynesiana (da non confondere con il pensiero del grande economista inglese, che pure ne porta qualche responsabilità) ha esercitato e continua ad esercitare sull’impostazione delle politiche economiche, influenza che ha raggiunto il suo apice nel cosiddetto ‘keynesismo idraulico’, intellettualmente screditato ma tutt’altro che scomparso.

Tale visione ha dominato la scena fino alla metà degli anni ’70, quando ha ricevuto una critica devastante da parte di Robert Lucas (la cosiddetta ‘Lucas critique’), secondo la quale le reazioni degli operatori alle misure di politica economica non potevano essere previste basandosi su meccaniche estrapolazioni dell’esperienza passata, in quanto la condotta degli operatori dipendeva dall’interpretazione che essi davano di quelle misure e dalle indicazioni che ne ricavano riguardo alla possibile futura condotta dei governi.

La portata della critica di Lucas risulta ampliata ed approfondita se si tiene conto del fatto che dopotutto la politica economica è una delle forme della politica in generale e che ogni misura concreta in materia di spesa pubblica o di fiscalità è un elemento di un sistema complesso di interazioni tra la sfera politica e quella economica, in cui la seconda concorre a determinare la prima non meno di quanto questa a sua volta faccia nei confronti della seconda.

Malgrado il carattere precario e deludente dei risultati prodotti, l’approccio alla politica economica basato sulla vulgata keynesiana è riuscito a sopravvivere al colpo potenzialmente mortale delle critiche che gli sono state mosse grazie da un lato al fatto che gli interessi di politici, ceti burocratici e gruppi organizzati che ruotano intorno al ruolo dello stato e alla gestione della spesa pubblica sono troppo corposi per cedere di fronte a un attacco poderoso ma puramente teorico e dall’altro al danno che alla critica di Lucas è derivato dal fatto di essere in qualche modo associata alle teorie delle aspettative razionali e dei mercati efficienti, le cui debolezze sono state messe drammaticamente in luce dalla recente crisi finanziaria.

L’opportunità di concentrare il prelievo sulle fasce di reddito più elevate è un tassello fondamentale delle strategie di cui parliamo, essa viene solitamente motivata supponendo (in un’ottica che corrisponde al keynesismo idraulico di cui si è detto sopra) che i soli effetti rilevanti della spesa pubblica e della tassazione siano quelli, previsti dal cosiddetto meccanismo del moltiplicatore, legati alle variazioni dei consumi da esse indotti.

La tesi di fondo è che misure redistributive a favore delle fasce di reddito più basse hanno effetti di stimolo sulla domanda aggregata dovuti al fatto che la propensione al risparmio sui redditi più elevati è superiore a quella sui redditi delle fasce inferiori. Trasferire un miliardo di Euro dai membri di un gruppo che risparmia il 50% del proprio reddito a uno che consuma per intero quello di cui dispone comporterebbe uno stimolo alla domanda di 500 milioni; effetti analoghi si otterrebbero concentrando sul primo gruppo la copertura fiscale di una spesa pubblica di pari ammontare.

L’effetto positivo non sarebbe limitato alla domanda, ma si farebbe sentire anche sulla finanza pubblica, in quanto la manovra si concluderebbe con un saldo positivo per la finanza pubblica dovuto al fatto che l’aumento del reddito sarebbe accompagnato da un aumento anche del gettito fiscale. La formula per uscire tanto dalla recessione quanto dalla crisi fiscale sarebbe quindi semplice e si ridurrebbe alla formula: ‘aumenta la spesa e tassa i ricchi’.

L’idea che la crisi, o più propriamente le crisi, sono colpa del carattere capitalistico dell’economia sarebbe confermata in modo lampante, in quanto a tutto si potrebbe porre rimedio con una piccola dose di socialismo, consistente nell’aumentare la spesa pubblica e nel redistribuire ricchezza in senso ugualitario. La soluzione ideale sarebbe addirittura quella di una consistente imposta patrimoniale, ritenuta auspicabile sia per i suoi effetti ugualitari, sia perché, applicandosi a stock già esistenti, avrebbe effetti restrittivi minori di quelli di un’imposta sui redditi (fosse pure concentrata su quelli delle fasce più elevate).

Se è vero che i percettori di redditi più elevati hanno effettivamente una propensione media al risparmio più elevata di quella dei soggetti delle fasce inferiori, ciò non vale tuttavia sistematicamente anche per la loro propensione marginale al risparmio, e nemmeno è certo che la propensione a risparmiare su incrementi dei redditi disponibili sia la stessa che si applica a decrementi degli stessi.

L’ipotesi contraria, e cioè che i ricchi possano proporsi di stabilizzare non tanto i consumi, sacrificando i patrimoni, quanto di conservare i patrimoni, riducendo i consumi, è anch’essa plausibile, e in alcuni casi addirittura più realistica. La letteratura ha frequentemente proposto sia la figura di chi dilapida ingenti patrimoni per mantenere lo stile di vita acquisito in passato, sia quella di chi trae soddisfazione più dalla consistenza dei patrimoni che dallo sfarzo o dall’opulenza dei consumi.

Entrambe le figure hanno concreta rilevanza sociologica, ma non è detto che la prima sia quella che meglio corrisponde alla condotta tipica e media delle classi in questione ed è comunque quantomeno imprudente farne la base per la definizione di misure di politica fiscale. Non mi risulta che il tema della propensione al risparmio delle diverse fasce di reddito sia stato oggetto di analisi empiriche rigorose e sufficientemente disaggregate per tenere conto delle possibilità che abbiamo delineato sopra.

Evidenza occasionale e plausibili considerazioni psicologiche inducono piuttosto a ritenere che una riduzione del reddito disponibile non temporanea, ma dovuta a mutamenti strutturali del sistema di tassazione, possa determinare una drastica riduzione dei consumi di lusso e inessenziali, a volte anche in misura più che proporzionale all’aggravio fiscale.

Aggiungerei che vi sono buone ragioni per ritenere che i consumi di queste categorie non solo siano sensibili alla tassazione, ma che la loro riduzione produca effetti contrattivi sulla domanda interna e sull’occupazione particolarmente intensi e superiori a quelli di analoghe contrazioni dei consumi di altre categorie. Si tratta di una congettura non suffragata da dati empirici di cui io sia a conoscenza, ma che mi sembra plausibile alla luce del fatto che i consumi di beni o di servizi di lusso sono in genere del tipo labour-intensive e personalizzato, e si indirizzano quindi frequentemente a fonti che sono spazialmente vicine ai luoghi in cui vivono coloro che ne fruiscono.

Se le due congetture che abbiamo fatto sono plausibili è possibile che, soprattutto in una fase di recessione, l’inasprimento della tassazione dei redditi più elevati (e ancor più dei patrimoni) produca consistenti effetti contrattivi sulla domanda interna e sia quindi marcatamente pro-ciclico.

Riserve non meno serie si possono avere sul contributo della spesa pubblica alla formazione del reddito di un paese e alla crescita della sua economia. Per quanto riguarda il problema della crescita, e quindi degli investimenti, di superiorità della soluzione pubblica si può parlare solo per investimenti destinati a produrre beni che sono accessibili a tutti (beni pubblici per l’appunto) o di investimenti che hanno una rilevante componente spaziale e territoriale (vie di comunicazione, reti di trasmissione ecc.), mentre gli investimenti privati sono meglio capaci di soddisfare le mutevoli esigenze dei mercati, rafforzano la competitività internazionale delle imprese e sono in genere più fortemente innovativi da un punto di vista tecnologico e/o merceologico.

Per quanto riguarda invece il contributo comparativo della spesa pubblica e di quella privata alla formazione del reddito, i problemi derivano dalla radicale eterogeneità dei criteri sui quali si basa la valutazione dei servizi e dei beni prodotti dallo stato rispetto a quelli di origine privata.

In entrambi i casi si tratta di un insieme di elementi qualitativamente diversi, la cui aggregazione si basa su criteri che sono in ultima analisi convenzionali: la differenza sta nel fatto che i beni e i servizi di origine privata sono aggregati sulla base del loro prezzo, e cioè di quanto i soggetti che ne fanno effettivamente uso sono disposti a pagare per procurarseli, mentre per quelle prodotti dallo stato l’aggregazione avviene sulla base di quanto lo stesso ha pagato per produrli.

Nel primo caso l’elemento convenzionale ha un fondamento oggettivo e internamente coerente, in quanto il sistema dei prezzi è unico, costituisce la base sulla quale i soggetti concretamente valutano le alternative che loro si prospettano, è noto a tutti ed è determinato in contesti aperti e concorrenziali, che operano una selezione tra le diverse alternative, premiando quelle che corrispondono a beni qualitativamente migliori o a costi più bassi e stimolando continue correzioni in risposta al mutare delle preferenze individuali e delle circostanze oggettive in cui la produzione avviene.

Per contro la determinazione del valore dei servizi pubblici non è soggetta ai vincoli e alle condizioni cui è soggetta quella dei beni e dei servizi privati: una perdita di efficienza o un evento che aumenta i costi di servizi qualitativamente invariati (p.es. un incremento dei salari dei dipendenti pubblici) viene intesa come un aumento del valore degli stessi; misure che sono doppiamente negative, perché arrecano direttamente dei danni e perché comportano dei costi, vengono valutate positivamente sulla base di questi ultimi.

Non si intende negare che solo lo stato può realizzare (senza peraltro doversela addossare direttamente) la produzione dei cosiddetti beni pubblici e di altri servizi essenziali e in generale garantire che certe condizioni di vita siano godute anche da coloro che non hanno mezzi adeguati per procurarsele da soli, ma semplicemente sottolineare che non tutti i servizi pubblici hanno tali caratteristiche e che l’assenza di concorrenza in cui solitamente operano gli enti pubblici fa sì che essi lascino spesso a desiderare sia dal lato qualitativo sia da quello dei costi.

In molti casi è l’esistenza di risorse spendibili a determinare la spesa più che la necessità di questa a richiedere la raccolta di quelle risorse. A ciò si deve aggiungere che il settore pubblico rappresenta un terreno fertile per l’acquisizione di posizioni di rendita, i cui beneficiari possono essere gruppi politici, apparati burocratici e anche personale esterno che vende in condizioni privilegiate i propri servizi ad organi pubblici.

Quando sono acquisite all’interno degli apparati statali o attraverso di essi, tali posizioni sono in genere più solide e redditizie, in quanto meno esposte alla concorrenza di altri rent-seekers di quanto non siano quelle che si formano nella sfera privata. I flussi di reddito (stipendi, premi, parcelle e amenities varie) che esse generano sono assimilabili a delle forme di tassazione praticate da individui o gruppi privati con l’intermediazione dello stato.

Si può quindi dire che: dal punto di vista dell’offerta quella parte della spesa pubblica che non corrisponde alla produzione di servizi utili, o che deriva da costi eccessivi per la produzione degli stessi, rappresenta uno spreco di risorse e una perdita di reddito potenziale la cui entità corrisponde a quanto si sarebbe ottenuto da un impiego migliore di quelle risorse; (1) da quello della domanda essa equivale a un trasferimento, e cioè alla semplice attribuzione di mezzi spendibili di un dato ammontare a soggetti diversi da quelli che se li erano originariamente e autonomamente procurati. (2)

Le tesi che abbiamo esaminato riassumono, almeno sul piano economico, quello che potremmo definire il socialismo del XXI secolo. Il fatto che esse siano una semplice riedizione di idee in voga tra la fine della Seconda Guerra Mondiale e la metà degli anni ’70 testimonia dell’esaurimento della spinta innovativa del socialismo e del fatto che esso sia ormai diventato un sintomo di una situazione di generale depressione, circostanza che è in fondo confermata dal fatto che i nostalgici chiamino ‘trentennio d’oro’ gli anni in cui esse sono state in auge, un periodo che vedeva il mondo diviso in due blocchi ostili, una pace garantita dalla minaccia della reciproca distruzione e metà dell’Europa sotto regimi dittatoriali (fascisti a sud e comunisti ad est).

Nel corso del trentennio citato le politiche che si ispiravano alle tesi qui discusse hanno certamente svolto un ruolo importante sia sul piano politico sia su quello economico, contribuendo a scongiurare minacce rivoluzionarie o reazionarie in Europa e accompagnando trasformazioni strutturali del ruolo dello stato e degli assetti sociali legate ai processi di industrializzazione e di modernizzazione.

In seguito esse hanno assunto sempre più un carattere inerziale, attivando processi politici perversi e forme di parassitismo che ne hanno fatto una delle cause principali della crisi che stiamo attraversando: riproporle oggi equivale ad affrontare i disturbi cui va incontro chi cerca di disintossicarsi da una droga con una forte somministrazione della stessa

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(*) Eugenio Somaini è Professore emerito di Politica economica presso l’Università di Parma.

1) Ad essa potrebbe convenientemente applicarsi la nozione smithiana, ripresa da Marx, di lavoro improduttivo.

2) La sostituzione di tale parte della spesa con trasferimenti equivalenti sarebbe preferibile, in quanto otterrebbe gli stessi effetti benefici (o supposti tali) sulla domanda aggregata, senza accompagnarli allo spreco di risorse di cui si è detto.