Si vuole arrivare al riconoscimento del diritto alla morte, quindi all’eutanasia legale e dell’aiuto al suicidio.

Osservatorio Internazionale Cardinale Van Thuân sulla Dottrina sociale della Chiesa

Newsletter n.890 del 15 Maggio 2018

Il penalista Mauro Ronco alla Scuola di Cultura Cattolica di Bassano del Grappa.

di Andrea Mariotto

“In nome della legge. Quando il diritto va contro la vita” è il tema sul quale è intervenuto, lunedì 7 maggio 2018 a Bassano del Grappa, il prof. Mauro Ronco, insigne penalista e presidente del Centro Studi Rosario Livatino, invitato dalla Scuola di Cultura Cattolica.

Richiamandosi anzitutto al grande insegnamento di Giovanni Paolo II in Evangelium Vitae, il prof. Ronco ha spiegato che oggi il sentiero sul quale ci si è inoltrati, e ne è un chiaro esempio il processo in corso all’esponente radicale Marco Cappato per il quale si attende un pronunciamento della Corte Costituzionale, è quello dell’abolizione del divieto all’aiuto al suicidio e l’introduzione del diritto alla morte. Da qui allo sdoganamento dell’eutanasia, ha commentato Ronco, il passo è breve.

La cultura che ha condotto a questa situazione, ha spiegato, affonda le radici negli anni ’80, quando sono iniziate le prime “sperimentazioni” in Olanda e in Belgio, due Paesi nei quali si riscontravano minori resistenze all’introduzione dell’eutanasia, peraltro negando scientemente, da parte dei promotori di questa iniziativa, che vi fosse il rischio dello “slippery slope” (pendio scivoloso).

Questa tendenza, ossia il pericolo che, una volta ammessa l’eutanasia, il valore della vita fosse via via sempre più misconosciuto, si è confermata nei fatti negli anni successivi: nella sola Olanda, dopo i primi 9 anni di vigenza della legge durante i quali il trend di crescita è stato relativamente moderato, si è assistito ad un’esplosione di casi di “morte legale”. “Dal 2010 al 2016 – ha illustrato Ronco – i casi di soggetti uccisi su richiesta o suicidatisi con l’aiuto di un terzo sono raddoppiati, passando dai 3136 casi del 2010 ai 6091 del 2016, fino a toccare la percentuale del 4 per cento sul totale dei morti”.

Era iniziato tutto come una “sperimentazione”, che però poi ha preso piede in maniera drammatica con chissà quanti casi limite di soggetti “eutanasizzati senza volerlo”; uno di questi casi ha convinto il neurologo Ludo Van Opdenbosch, componente della Commissione federale di controllo dell’eutanasia in Belgio, a rassegnare le dimissioni a settembre del 2017 dalla stessa Commissione, colpevole di aver autorizzato la soppressione di un paziente affetto da demenza su richiesta dei parenti e senza che il malato si fosse espresso precedentemente in merito.

“Non si tratta di eutanasia perché il paziente non aveva richiesto ciò; si è trattato di soppressione della vita. Non conosco altra parola per descrivere questo fatto se non la parola omicidio” sono le parole con le quali Van Opdebosch ha denunciato l’operato della Commissione.

Questo dimostra, come ha evidenziato Ronco, che “una volta che viene infranto il ‘tabù’ della morte volontariamente data, è ovvio che si imponga via via una sempre più dilatata accettazione dell’eutanasia e dell’assistenza al suicidio, che non può non travolgere qualsiasi requisito formale eventualmente contemplato dalla legge”.

È questo il rischio che si corre anche con l’introduzione delle DAT, le disposizioni anticipate di trattamento, ha aggiunto. Perché se sono “dichiarazioni” sono “l’espressione di un desiderio anche legittimo di non sottoporsi a un trattamento che si presume eccessivo”; se invece si tratta di “disposizioni”, come nel caso italiano, siamo di fronte a un “ordine tassativo al medico di obbedire alla volontà remota del soggetto, e non è consentita obiezione”.

A ben vedere, inoltre, le DAT sono “intrinsecamente contraddittorie, sono l’esatto contrario del consenso informato perché, per dare un consenso informato su un trattamento, è necessario conoscere diagnosi e prognosi”. Il presupposto, insomma, è che il paziente sia a conoscenza del percorso clinico a cui verrà sottoposto e possa valutare se questo sia congruo o sproporzionato. Con le DAT, invece, “la richiesta di interruzione delle cure viene data ora per allora”, negando così il principio dell’attualità del consenso.

Nei Paesi che hanno introdotto l’eutanasia, la discussione si è svolta attorno al tema dell’introduzione del “diritto al suicidio”. Va da sé che introdurre un tale diritto per un malato incapace di esprimersi e di agire postula che vi debba essere un terzo che lo pratica: “il diritto alla morte presuppone un corrispettivo dovere di uccidere”.

Quindi, ha spiegato Ronco, “la decisione sul momento in cui eseguire la soppressione è affidata esclusivamente all’operatore sanitario. Spetta a lui decidere se e quando iniettare nel corpo del paziente il veleno letale”. È evidente che “questa decisione, coperta artificialmente dalla direttiva anticipata, ha come inevitabile fondamento il giudizio del terzo sulla non meritevolezza dell’esistenza”, come recentemente capitato nel caso del piccolo Alfie Evans, la cui vita è stata ritenuta “futile” dal giudice che ha decretato per lui l’interruzione della ventilazione artificiale.

Se la legge sulle DAT approvata dal Parlamento italiano non introduce direttamente l’eutanasia, è innegabile che contenga dei punti improntati a un evidente sentiment eutanasico. Primo fra tutti, ha dichiarato Ronco, l’assenza del riconoscimento del diritto inviolabile alla vita e la sua parificazione – all’art. 1 della legge – con il diritto all’autodeterminazione. Nel provvedimento è scomparso il divieto dell’aiuto al suicidio e all’omicidio del consenziente; è stata eliminata l’obiezione di coscienza ed anche abolito il principio di beneficialità come fondamento dell’attività medica.

Inoltre, l’idratazione e la nutrizione vengono considerati trattamenti sanitari (che diventano così rifiutabili), mentre invece si tratta di sostegni vitali irrinunciabili. Un grande problema è costituito poi da come potranno essere gestiti i casi dei minorenni e degli incapaci: la legge prevede infatti che il consenso all’interruzione dei trattamenti possa essere dato anche solo dal tutore o dall’amministratore di sostegno, aprendo in questo modo la strada all’eutanasia “passiva” e “non si può non intravedere in questa norma il rischio concreto dell’espropriazione del diritto alla libertà e alla vita nei riguardi di un sempre maggior numero di persone”.

Anche a questo proposito, la cronaca recente della famiglia Evans si è incaricata di dare una dimostrazione di che cosa significhi assecondare questo sentiment eutanasico. È una vicenda che ha scosso le coscienze di molti e sulla quale in tanti hanno preso posizione.

Tra le altre, non è mancata quella dell’Osservatorio Van Thuân, che con mons. Crepaldi ha fatto sentire la sua voce. “La sentenza su Alfie ha eliminato il diritto naturale, ha fatto piazza pulita del diritto a fare obiezione di coscienza, ha raso al suolo il concetto di oggettività del bene”, ha commentato, sottolineando come nel caso del piccolo di Liverpool fossero stati calpestati tutti i principi della Dottrina sociale della Chiesa: “il bene comune svanisce se si uccide un innocente, non come fatto accidentale ma come obiettivo voluto e ufficialmente decretato dall’autorità. Non c’è sussidiarietà se lo Stato si impossessa di una bimbo sottraendolo ai genitori. Non c’è solidarietà se il bene di Alfie è stabilito da un giudice secondo le proprie categorie di qualità della vita. Non c’è scelta preferenziale per i poveri se è proprio un povero bambino ad essere assassinato. Non c’è dignità della persona umana se la vita viene così calpestata”.