Smascherate le 8 bufale propugnate dai paladini del suicidio assistito

Libertà e Persona 2 Maggio 2018

di Lorenza Perfori

I paladini del suicidio assistito e dell’eutanasia basano la loro battaglia volta all’introduzione delle pratiche eutanasiche in sempre più Stati del mondo, su alcuni capisaldi che – secondo costoro – attesterebbero la bontà e la convenienza di queste leggi per la comunità. In realtà, questi capisaldi altro non sono che delle bufale che qui provvederemo a smascherare una ad una.

BUFALA 1: La maggior parte delle persone è favorevole

Per supportare i loro argomenti a favore della legalizzazione, gli attivisti del suicidio assistito e dell’eutanasia affermano che la maggioranza della popolazione è favorevole alla legalizzazione di queste pratiche come dimostrano i sondaggi realizzati per monitorare il consenso tra i cittadini, ma se si esaminano più attentamente i fatti si può vedere che queste asserzioni si fondano su fraintendimenti e dati falsificati.

I fraintendimenti nascono dal fatto che i sondaggi sono predisposti in modo tale da indurre perlopiù una risposta favorevole e dal fatto che molte persone non sono effettivamente a conoscenza di come stanno le cose. Un sondaggio su qualsiasi argomento è infatti attendibile solo nella misura in cui la domanda posta sia realistica e se gli intervistati abbiano un’effettiva conoscenza della questione sulla quale sono chiamati a esprimersi. Spesso le persone intervistate hanno solo una vaga idea di ciò che queste leggi affermano e permettono.

Una domanda del tipo: “Secondo lei, se una persona ha una malattia incurabile allo stadio terminale e sperimenta un dolore che non può essere controllato, i medici dovrebbero oppure no essere autorizzati dalla legge ad aiutare il paziente a suicidarsi se il paziente lo richiede?”, è non solo chiaramente strumentale, ma anche irrealistica, in quanto ignora (consapevolmente) che oggi, grazie ai progressi della medicina palliativa, il dolore di una malattia terminale può essere controllato.

Inoltre, ad ascoltare i discorsi dei promotori delle pratiche eutanasiche sembrerebbe che esse siano ormai praticamente diffuse in tutti i Paesi del mondo: niente di più falso. Negli Stati Uniti, per esempio, dopo la legalizzazione del suicidio assistito in Oregon, nel 1997, e nello Stato di Washington, nel 2008, vi sono stati solo altri quattro Stati (Vermont, California, Colorado e Hawaii) più il Distretto di Columbia (Washington DC) ad aver approvato leggi simili.

Negli ultimi vent’anni, negli Stati degli USA, sono stati promossi molti referendum popolari volti all’approvazione del suicidio assistito, che sono stati ripetutamente bocciati dalla popolazione. Nel 2017 sono stati 26 gli Stati USA a confrontarsi con la legalizzazione del suicidio assistito e tutti e ventisei lo hanno respinto.

Gli Stati americani che vietano il suicidio assistito senza eccezioni, sono attualmente 42, dieci dei quali hanno addirittura approvato nuove leggi contro questa pratica, da quando nel 1997 la legge dell’Oregon è entrata in vigore. Tre di essi hanno varato nuove leggi proprio nell’ultimo anno: l’Alabama e lo Utah hanno approvato nuovi divieti e l’Ohio ha aggiunto sanzioni penali alla sua legge del 2003 che prevedeva solo sanzioni civili. Gli altri 32 hanno invece mantenuto i loro statuti o divieti di legge, nonostante i ripetuti tentativi della lobby del suicidio assistito contro tali politiche.

Un risultato analogo lo ritroviamo anche in Europa, dove ad oggi vi sono solo quattro Stati (Olanda, Belgio, Svizzera, Lussemburgo) ad avere al proprio interno legislazioni che permettono il suicidio assistito e/o l’eutanasia. Nonostante questo scenario incontrovertibile, i media e i paladini dell’eutanasia hanno la sfacciataggine di affermare che le pratiche eutanasiche stanno guadagnando terreno.

BUFALA 2: Il dolore non alleviabile è il problema principale

Che un dolore non alleviabile non sia la motivazione principale per la quale le persone chiedono di morire con il suicidio assistito, lo dimostrano i dati dei (pochissimi) Paesi che hanno introdotto le pratiche eutanasiche nei loro ordinamenti.

L’avvocato Margaret K. Dore, dello Stato di Washington, presidente dell’associazione “Choice is a Illusion” (“La scelta è un’illusione”), che si batte contro il suicidio assistito e l’eutanasia, osserva che nel 2016, secondo quanto riportato nel rapporto annuale dell’Oregon, vi sono state 47 persone morte avvalendosi della legge statale ad aver espresso come motivazione “Controllo del dolore inadeguato o preoccupazione per esso”, su un totale di 35mila decessi per suicidio medico-assistito.

Anche se tutte le 47 persone fossero ascrivibili a un controllo del dolore inadeguato e nessuna alla preoccupazione per esso, questo dato – osserva Dore – rappresenterebbe molto meno dell’1% (0,127%) dei decessi, confermandosi non significativo dal punto di vista statistico. Quasi la metà dei pazienti ha invece indicato come motivazione “onere per la famiglia, gli amici e chi fornisce le cure”.

Le statistiche dell’Oregon forniscono pertanto un supporto minimo e non significativo alla tesi secondo cui la legalizzazione del suicidio assistito sia necessaria per far fronte al dolore fisico non alleviabile dei malati.

Un dato analogo lo ritroviamo anche in Canada dove una ricerca recente effettuata su persone che avevano chiesto il suicidio assistito, ha evidenziato tra i motivi principali non il dolore fisico, ma la volontà di autodeterminare la propria vita. Paul Russell, noto attivista australiano contro l’eutanasia, osserva che questo dato dimostra come “la questione del ‘dolore non alleviabile’ è solo una forma di propaganda, visto che la questione di fondo è la rivendicazione dell’‘autonomia’”.

Tuttavia – aggiunge Russell – “il suicidio assistito non è in realtà una pratica autonoma, visto che coinvolge anche altre persone, e l’esercizio di questa scelta richiederebbe un cambiamento sostanziale dell’etica medica”.

BUFALA 3: I medici sono in grado di dirti quanto tempo ti resta da vivere

I medici possono fornire tassi di sopravvivenza a cinque anni. Nessun medico può dire quanto tempo rimane da vivere a un malato. Delle linee guida per il suicidio assistito che implichino un’aspettativa di vita non superiore a 12 mesi (come indicato per esempio nel disegno di legge presentato a Victoria, in Australia), o a 6 mesi (come previsto dalla legge oregoniana) è pura illusione.

Il disegno di legge di Victoria stabilisce che le persone sono idonee a richiedere il suicidio assistito se soffrono di una “patologia, malattia o problema medico” che comporti un’aspettativa di vita non superiore a dodici mesi, ma – osserva Margaret Dore – queste persone possono avere in realtà ancora molti anni di vita davanti a sé, e questo per tre ragioni.

1. Le cure possono portare al recupero della salute

Nel 2000, in Oregon, a Jeanette Hall fu diagnosticato un cancro e lei decise di ricorrere al suicidio assistito, ma il suo medico la convinse a sottoporsi alle cure le quali, alla fine, le permisero di sconfiggere la malattia. Questa è la sua dichiarazione: “Sono passati 17 anni dalla mia diagnosi di cancro, se il mio medico avesse creduto nel suicidio assistito sarei morta”.

2. Le previsioni sull’aspettativa di vita possono essere sbagliate

Le previsioni possono essere errate, sia a causa di errori effettivi (i risultati degli esami sono stati interpretati male) sia perché la previsione dell’aspettativa di vita non è una scienza esatta. Quando aveva 18 anni, a John Norton fu diagnosticata la SLA e gli fu detto che sarebbe progressivamente peggiorato fino a rimanere paralizzato, e che sarebbe morto entro i successivi 3/5 anni. Accadde invece che la malattia progressiva si fermò in maniera spontanea. Nel 2012, all’età di 74 anni, in una dichiarazione firmata Norton ha affermato: “Se negli anni ’50 avessi avuto a disposizione il suicidio assistito o l’eutanasia, avrei perso la mia vita e quella che avevo ancora da vivere”.

3. I malati cronici sono inclusi tra le persone idonee al suicidio assistito

La legge dell’Oregon si applica alle persone con un’aspettativa di vita inferiore ai sei mesi a causa di una malattia terminale. Di fatto, però, la legge è interpretata per includere anche le malattie croniche come il “diabete mellito”, per il fatto di comportare per poter vivere la dipendenza dai farmaci, in questo caso l’insulina. Il dottore oregoniano William Toffler, spiega: “Le persone con malattie croniche sono considerate terminali [e perciò idonee al suicidio assistito] se in mancanza dei loro farmaci hanno meno di sei mesi di vita. Ciò è significativo se consideriamo che un tipico 20enne insulino-dipendente vivrà meno di un mese senza l’insulina”. Toffler aggiunge che “le persone diabetiche insulino-dipendenti hanno probabilmente decenni di vita da vivere”, ma se la legalizzazione del suicidio assistito dovesse seguire l’esempio dell’Oregon “la legge si applicherà anche alle persone diabetiche dipendenti dall’insulina”.

BUFALA 4: Il suicidio assistito ha effetti solo sui singoli che lo chiedono

Falso. In realtà un cambiamento della legge influisce su tutta la comunità e, per quanto riguarda la legge sul suicidio assistito, anche sulla pratica medica. Se si osserva ciò che è successo in Paesi come Belgio, Olanda, Svizzera e negli Stati americani che hanno legalizzato le pratiche eutanasiche, si può vedere che i requisiti per la morte assistita si sono allargati sempre più, innescando il cosiddetto “pendio scivoloso”. Dai malati terminali che espressamente richiedono le pratiche eutanasiche, si è via via passati a inglobare tra gli idonei a uccidersi categorie sempre più vaste di malattie e di malati non terminali sofferenti per altri motivi.

A influire su tutta la comunità vi è inoltre il fenomeno del “contagio da suicidio”, cioè il fatto che la legalizzazione del suicidio assistito determina l’aumento dei suicidi ordinari nella popolazione generale. Questo è chiaramente documentato dai rapporti governativi dell’Oregon, i quali – osserva la Dore – “mostrano una correlazione precisa tra la legalizzazione del suicidio medico-assistito e gli altri suicidi”.

In Oregon, la legge sul suicidio assistito è entrata in vigore alla fine del 1997 e – spiega Dore – già “nel 2000 il tasso dei suicidi ordinari era significativamente aumentato. Nel 2007 risultava del 35% superiore alla media nazionale. Nel 2010 era del 41% superiore alla media nazionale e nel 2012 del 42% superiore alla media nazionale”.

Nancy Valko, infermiera specializzata di St. Louis e portavoce della “National Association of Pro Life Nurses”, la cui figlia si è suicidata a trent’anni di età seguendo le istruzioni contenute nel libro “Final Exit” di Derek Humphry, noto promotore dell’eutanasia in America, spiega che il suicidio assistito è contagioso.

Un articolo del 2015 del ‘Southern Medical Journal’ intitolato ‘Come può la legalizzazione del suicidio medico-assistito influire sui tassi di suicidio?’ – scrive Valko –, ha studiato i tassi dei suicidi non-assistiti in Oregon e Washington dopo l’approvazione delle leggi sul suicidio assistito”. Ebbene, “nonostante le affermazioni secondo le quali le leggi sul suicidio assistito ridurrebbero gli altri suicidi o si sostituirebbero semplicemente a essi, gli autori sono arrivati alla preoccupante conclusione che ‘al contrario, l’introduzione del suicidio medico-assistito sembra causare più morti auto-procurate di quante non ne inibisca’”.

Questo fatto non mi stupisce – osserva l’infermiera –. Non molto tempo dopo il suicidio di mia figlia, almeno due persone a lei vicine hanno tentato di uccidersi. Fortunatamente sono state salvate, ma il contagio da suicidio, meglio noto come ‘Effetto Werther’ è un fenomeno ben documentato. L’attenzione dei media o il clamore su qualcuno che si è ucciso possono incoraggiare altre persone vulnerabili a togliersi la vita”. “Secondo il Centers for Disease Control and Prevention – conclude Valko -, dal 2000, dopo decenni in diminuzione, i tassi di suicidio hanno iniziato ad aumentare. Oggi, negli Stati Uniti, il suicidio è la decima causa di morte, con oltre 44mila persone che si tolgono la vita ogni anno”.

BUFALA 5: I familiari sono sempre benevoli e premurosi

Anche il fatto che i familiari vogliano sempre il bene dei propri cari non corrisponde a verità. La realtà dimostra che gli abusi su malati e anziani, come osserva Russell, “è più probabile che provengano dalle persone vicine, in particolare i familiari. Una persona gravemente malata rappresenta per molti familiari una situazione molto stressante, foriera di sentimenti ambivalenti: da una parte si vuole che il malato continui a vivere, dall’altra si desidera che la vicenda finisca il prima possibile. Questo rende il malato grave vulnerabile all’imposizione del suicidio assistito da parte della sua famiglia”.

Margaret Dore osserva che le persone che assistono il malato al suicidio assistito “possono avere un secondo fine. Come nel caso, accaduto in Oregon, di Tammy Sawyer fiduciaria di Thomas Middleton. Due giorni dopo la sua morte per suicidio assistito, ha venduto la casa del defunto e ha versato il ricavato nel proprio conto in banca”. Ma anche il medico curante che dà l’assenso al suicidio assistito può avere un secondo fine, “come, per esempio, nascondere le proprie negligenze” o “come nel caso particolare del medico Michael Swango, ora in carcere, al quale piaceva uccidere le persone”.

Significativi sono anche i motivi riportati dalle persone per assistere al suicidio negli stati USA che l’hanno legalizzato, tra i quali – specifica Dore – oltre a “un desiderio di compassione e premura”, figurano anche “il ‘brivido’ che si prova nell’aiutare le persone a uccidersi’ e il ‘voler vedere qualcuno morire’”.

Al pari di Russell, anche Dore rileva che “coloro che abusano e sfruttano economicamente gli anziani sono spesso i membri della famiglia”. “Si inizia solitamente con dei piccoli reati – spiega Dore –, come rubare loro i gioielli e gli assegni in bianco, per poi passare a cose più grandi o a costringere le vittime a trasferire l’atto di proprietà della casa, a cambiare il beneficiario del testamento o a vendere i propri beni”.

L’abuso e lo sfruttamento economico sugli anziani talvolta può essere fatale, come nel “caso di ‘People v. Stuart’ dove il figlio adulto uccise la madre, soffocandola con un cuscino, per entrare in possesso dell’eredità”. Ora, grazie alle leggi eutanasiche, si può effettivamente eliminare un familiare malato ed ereditare i suoi beni senza finire in galera, perché – come vedremo nel paragrafo che segue -, la legalizzazione del suicidio assistito consente di realizzare il “delitto perfetto”.

BUFALA 6: La legge fornisce garanzie adeguate contro gli abusi

Alex Schadenberg, direttore esecutivo di “Euthanasia Prevention Coalition”, spiega che in realtà “a Washington e in Oregon, le leggi sul suicidio assistito consentono di avviare un percorso ‘legale’ inducendo un anziano a firmare una richiesta di dose letale. Una volta compilata la prescrizione, non vi è alcuna supervisione al momento della somministrazione del farmaco. Quandanche un paziente si fosse opposto, chi lo verrebbe a sapere?”.

La legge consente al paziente di assumere la dose letale in privato – aggiunge Dore -, senza la presenza di un testimone o di un medico. Inoltre, i farmaci solitamente utilizzati sono diluibili in acqua e alcol, questo fa sì che possano essere iniettati a una persona mentre sta dormendo o mentre viene forzatamente immobilizzata”.

Che la legge non sia una garanzia adeguata contro gli abusi, lo dimostra bene quanto previsto dallo Stato di Washington, dove il requisito di “auto-somministrazione” dei farmaci da parte del paziente, espressamente indicato nella norma, permette in realtà anche a qualcun altro di “auto-somministrare” il farmaco letale al malato. La legge di Washington, infatti – spiega Dore -, definisce “‘auto-somministrazione’ come l’atto di ingestione dei farmaci da parte di un paziente idoneo a porre fine alla sua vita, ma poi non definisce il termine ‘ingerire’”.

Tuttavia – continua Dore –, se consultiamo il dizionario, troviamo tra le definizioni di ingerire “introdurre (cibo, droghe, ecc.) nel corpo, come deglutire, inalare o assorbire” ed è palese che, “con una tale definizione, la dose letale messa nella bocca del paziente da qualcun altro si qualifichi come auto-somministrazione perché il paziente ‘ingoia’ la dose letale, cioè la ‘ingerisce’”.

Allo stesso modo risulta auto-somministrato anche “il cerotto transdermico applicato da qualcuno sul braccio del paziente, perché il paziente ‘assorbe’ la dose letale, cioè la ‘ingerisce’. E, analogamente, risulta idonea anche la somministrazione di gas, perché il paziente ‘inala’ la dose letale, ovvero la ‘ingerisce’”.

In sostanza – conclude Dore – con “una distorsione orwelliana del termine ‘auto-somministrare’”, la legge di Washington “fa sì che la dose letale possa essere somministrata da qualcun altro, come un membro della famiglia” e, considerato il fatto che – come abbiamo visto – “i membri della famiglia sono solitamente coloro che perpetrano gli abusi, i pazienti saranno inevitabilmente non in grado di controllare il loro destino”.

Se, poi, a tutto questo si aggiunge il fatto che la legge di Washington prevede espressamente che la causa di morte per suicidio assistito sia falsificata, si comprende ancora meglio perché – come abbiamo osservato – con la legalizzazione del suicidio assistito si possa in pratica realizzare il “delitto perfetto”.

La legge stabilisce infatti che, quando un paziente muore dopo aver assunto il farmaco letale, il medico riporti come causa di morte “la malattia terminale di base” (cioè la malattia per la quale aveva ottenuto il via libera per il suicidio assistito), per esempio cancro ai polmoni, anche se in realtà ciò che lo ha ucciso è stato il farmaco letale. Questo fatto – osserva Dore – “comporta l’impossibilità legale di incriminare l’esecutore” che abbia somministrato al malato la dose letale contro la sua volontà, perché “dal punto di vista giuridico, la causa ufficiale della morte non è un omicidio, ma una patologia, una malattia o un problema medico”.

BUFALA 7: Gli standard sanitari futuri non ne risentiranno

Non è così. Russell osserva che “come è chiaramente emerso oltreoceano, gli economisti della sanità si rendono presto conto che è probabilmente più economico per la pubblica amministrazione offrire un ‘farmaco confortante’ (pillola per il suicidio) che pagare per le cure palliative o la chemioterapia”. Pertanto è “molto probabile che una legislazione favorevole al suicidio assistito possa snaturare l’erogazione futura di assistenza sanitaria”.

In effetti, già nel 2009, un editoriale della rivista statunitense Newsweek intitolato “The case for killing granny” (“L’argomento per uccidere la nonna”), aveva affrontato la questione della riduzione dei costi sanitari mediante l’abbreviamento della vita dei malati. Se il 30% del budget sanitario viene usato per pagare le cure degli ultimi mesi di vita – osservava il Newsweek – il sistema non reggerà a lungo: la necessità “di risparmiare sulle cure agli anziani è l’elefante nella stanza della riforma sanitaria, tutti lo vedono, ma nessuno ne vuole parlare”.

Nel 2011 era stato il New York Times a sollevare la questione in un articolo, dove spiegava che una parte importante del deficit Usa era dovuto al tentativo di allungare la vita dei malati: si spendono ingenti somme di denaro pubblico per prolungare di qualche giorno, settimana, mese o anno, una vita che ormai non ha più senso, poiché la salute è compromessa dalla malattia e non è più recuperabile – scriveva il quotidiano statunitense – specificando che, nel 2005, i malati di Alzheimer da soli erano costati alle casse dello Stato 91 miliardi di dollari, spesa che nel 2015 era arrivata a 189 miliardi e che nel 2050 raggiungerà 1 milione di miliardi.

Questi discorsi teorici sono già una realtà negli Stati che hanno legalizzato il suicidio assistito. La professoressa di bioetica Margaret Somerville ha riportato il caso di Barbara Wagner, avvenuto in Oregon. La donna aveva fatto richiesta del sussidio per accedere alle cure chemioterapiche, ma l’autorità medica le aveva risposto che non potevano somministrarle gratuitamente i trattamenti, aggiungendo però, nero su bianco, che “il suicidio assistito è una soluzione indolore ed economica per porre fine alla propria vita”.

L’avvocato Rita L. Marker, autrice del libro “Deadly Compassion” (“Compassione Letale”), aveva osservato al riguardo che l’Oregon aveva “trovato un modo infallibile per ridurre i costi dell’assistenza sanitaria: comunica alla paziente che pagherà per i farmaci che metteranno fine alla sua vita, ma non per quelli che gliela allungherebbero”.

E aveva aggiunto che l’Oregon Health Plan aveva “ammesso di inviare regolarmente lettere simili ai pazienti che avevano poche possibilità di sopravvivere per più di cinque anni, informandoli del fatto che il piano sanitario avrebbe pagato per il suicidio assistito (eufemisticamente classificato come ‘confort care’), ma non per le cure che li avrebbero potuti aiutare a vivere per mesi o anni”. Marker aveva quindi concluso che questo era “il prezzo che inevitabilmente tutti pagheremo per la riduzione delle spese sanitarie, grazie al contenuto di leggi mortifere sull’esempio dell’Oregon”.

Più di recente, marzo 2018, è stato il 42enne canadese Roger Foley, affetto da una patologia neurodegenerativa, a sperimentare sulla propria pelle le conseguenze che legislazioni di tipo eutanasico possono avere sugli standard sanitari. Foley si è visto rifiutare la copertura per i servizi di assistenza e per una vita autonoma, ricevendo come soluzione alla sua malattia l’offerta gratuita di eutanasia.

La realtà dimostra pertanto che le legislazioni a favore di eutanasia e suicidio assistito possono condizionare, e di fatto già lo fanno, gli standard sanitari futuri, possono cioè avere – come nota Russell – “conseguenze (letteralmente) mortali” per le persone più vulnerabili.

BUFALA 8: Il suicidio assistito ti permette di morire in modo sereno

I sostenitori delle leggi eutanasiche hanno coniato il concetto di “dolce morte” per veicolare il messaggio secondo cui il suicidio assistito e l’eutanasia consentano al malato di morire in modo sereno e indolore, ma anche in questo caso ci troviamo di fronte a una bufala.

Il 28 settembre 2017, è uscita sul Journal of Law and the Biosciences una ricerca condotta dal ricercatore Sean Riley sui farmaci letali usati nell’ambito dei suicidi assistiti e delle esecuzioni capitali. Riley scrive che “la convinzione diffusa che i farmaci nocivi garantiscano una morte serena e indolore deve essere fugata” perché “la moderna medicina non è ancora in grado di realizzare quest’obiettivo”.

Certamente – continua il ricercatore – molte “delle esecuzioni e dei suicidi assistiti non hanno avuto complicazioni, ma questa idea ha fatto sì che gran parte dell’opinione pubblica pensi che essi avvengano con umanità e che non vi siano possibili potenziali problemi”. In realtà “le esecuzioni e i suicidi assistiti non sono mai stati così benfatti come appaiono, persino dopo gli sforzi di medicalizzazione avvenuti negli Stati Uniti a partire dagli anni ‘80”.

Tra i problemi riscontrati negli ultimi anni, Riley indica il brusco aumento dei prezzi dei farmaci letali: a causa della penuria di questi farmaci (Secobarbital o Pentobarbital) il loro prezzo è salito alle stelle, “prima del 2012 i pazienti avrebbero pagato circa 500 dollari per una dose letale adeguata del farmaco, ma dal 2016 i prezzi sono lievitati fino a raggiungere i 25mila dollari”.

Questo ha fatto sì che le carceri e i pazienti abbiano iniziato a rivolgersi alle farmacie che creano farmaci composti, cioè fabbricati direttamente dai farmacisti combinando le materie prime. Ma – osserva Riley – “da quando negli ultimi tre anni è bruscamente aumentato l’utilizzo dei farmaci composti, si è verificato un corrispondente aumento delle esecuzioni ‘fallite’”.

Questo perché i “farmaci prodotti nelle farmacie rischiano di essere sub-potenti”, cioè che non contengono i principi attivi sufficienti a svolgere la loro azione, “o super potenti o contaminati”. Per esempio – ricorda il ricercatore –, “nel Massachusetts, un ex farmacista è finito sotto processo per aver fornito farmaci contaminati che hanno causato un’epidemia di meningite a livello nazionale. I procuratori hanno riferito alla Corte che aveva usato ingredienti scaduti, falsificato i documenti, trascurato le norme igieniche, omesso di sterilizzare correttamente i farmaci, inviato i prodotti prima di testarli, e ignorato muffe e batteri nelle aree di fabbricazione”.

Riley aggiunge poi che è “difficile definire cosa sia un’‘esecuzione finita male’, ma gli ultimi momenti di vita di alcuni detenuti sono stati chiaramente strazianti”, inoltre, per quanto riguarda “le complicazioni nell’ambito dei suicidi assistiti, mancano dati precisi”. “Secondo i dati pubblicati dall’Oregon – afferma Riley -, il 5% dei pazienti ha incontrato delle difficoltà dopo l’ingestione del farmaco letale, come il rigurgito o le convulsioni”, tuttavia i report presentano molte lacune, come per esempio il fatto che “i dettagli sono stati riportati soltanto nel 51% dei casi”, che significa che per la metà dei decessi avvenuti per suicidio assistito le possibili complicazioni rimangono sconosciute.

Inoltre – aggiunge Riley – risultano anche “sei casi segnalati in cui i pazienti che avevano ingerito i farmaci letali hanno perso conoscenza, ma dopo qualche giorno si sono risvegliati”. Tra questi ricordiamo il caso di David Prueitt, che nel 2005, dopo aver bevuto il cocktail mortale è entrato in coma, ma tre giorni dopo si è risvegliato, domandando sbigottito: “Cosa diavolo è successo? Perché non sono morto?”.

Per questi e altri motivi, Riley conclude che “i trattamenti che portano alla morte saranno sempre, in una certa misura, un mistero” e, “allo stato attuale, il fatto che la morte sia serena e indolore è soltanto un’ipotesi”.

Anche il Dott. Kenneth R. Stevens, della “Physicians for Compassionate Care Educational Foundation”, punta il dito su alcuni casi andati drammaticamente storti nell’ambito dei suicidi assistiti praticati in Oregon, osservando che nel 2004, quattro persone sono vissute dalle 7,5 alle 31 ore, dopo l’assunzione del farmaco letale.

E il bioeticista americano Ezekiel Emanuel ha affermato che, come mostrano le statistiche, l’assunzione dei farmaci letali prolunga l’agonia dei pazienti nel 15% dei casi. Dall’ultimo lacunoso report diffuso dall’Oregon, risulta ancora una volta che nella maggior parte dei casi il tempo trascorso tra l’ingestione dei farmaci e la morte è rimasto sconosciuto, ma dai 40 casi in cui esso è noto risulta che i pazienti hanno impiegato fino a 21 ore per morire. Dal report emerge inoltre che almeno due pazienti hanno avuto le convulsioni dopo l’assunzione dei farmaci letali.

Lo stesso scenario si presenta anche in Olanda, dove – osserva la Marker – i medici sono dovuti intervenire con un’iniezione letale aggiuntiva nel 18% dei casi di suicidio assistito, che sono così diventati casi di eutanasia diretta. Inoltre, uno studio pubblicato nel 2000 sul New Englan Journal of Medicine ha rilevato che in Olanda, con i suicidi assistiti “si sono verificate complicanze nel 7% dei casi, e problemi con il completamento (un tempo più lungo del previsto per il decesso, il fallimento nell’indurre il coma o l’induzione del coma seguito dal risveglio del paziente) nel 16% dei casi”. Inoltre, per quanto riguarda i casi di eutanasia, lo studio ha evidenziato “complicazioni nel 3% dei casi e problemi di completamento nel 6% dei casi”.

Insomma più che di una “dolce morte”, questi dati ci raccontano di un fine-vita “amaro”, amaro come il veleno letale da ingerire edulcorato con la menzogna di una morte “dolce”.

In verità, come abbiamo visto, le menzogne propalate dai corifei dell’eutanasia e del suicidio assistito, per accrescere il consenso popolare verso le leggi eutanasiche, sono più di una. Nessuno abbocchi o si faccia ingannare, e soprattutto non dimentichi che la cultura della morte non si limiterà ad ammazzare i malati terminali, ma investirà tutto propagandosi come una grande macchia tossica di petrolio sversato in mare: all’assistenza sanitaria futura, al rapporto medico-paziente, ai rapporti familiari, alle persone sane ma vulnerabili… fino a colpire le generazioni venture (figli, nipoti, pronipoti).

E allora, prima di dirci favorevoli alle pratiche eutanasiche, o di apporre la nostra firma ai banchetti dei Radicali, o di firmare un testamento biologico (anticamera dell’eutanasia), o di dare il nostro voto a un partito favorevole alle pratiche eutanasiche, domandiamoci: è questo il futuro che vogliamo per noi e per i nostri figli? È questo il mondo che vogliamo lasciare alle generazioni future?

Note

  • Alex Schadenberg, “Despite massive push by euthanasia activists, just 6 States have legalized assisted suicide”, com, 2 aprile 2018.
  • Nicole Stacy, “Oregon euthanasia activists want to allow starving mentally ill patients to death”, www.lifenews.com, 12 marzo 2018.
  • Paul Russell, “7 myths about assisted suicide you might believe that are actually untrue”, com, 20 settembre 2017.
  • Margaret Dore, “11 reasons to oppose legalizing assisted suicide in Australia”, com, 30 ottobre 2017.
  • Nancy Valko, “Six things you need to know about Physician-Assisted Suicide”, com, 26 dicembre 2017.
  • Michael Cook, “Assisted Suicide is no peaceful death. Some patients regurgitate, have seizures, or wake up days later”, com, 9 ottobre 2017.