Cina, la mattanza segreta dei dissidenti

La Nuova Bussola quotidiana

13 Aprile 2018

 l nuovo rapporto sulla pena capitale realizzato da Amnesty International e pubblicato con il titolo Condanne a morte ed esecuzioni nel 2017 è colmo di dati. Una notizia buona: le condanne a morte sono in calo. E una cattiva: non sappiamo nemmeno quante sentenze capitali siano state eseguite in Cina.

di Marco Respinti

 Il nuovo rapporto sulla pena capitale realizzato da Amnesty International e pubblicato con il titolo Condanne a morte ed esecuzioni nel 2017 è colmo di dati. Su tutti, uno spicca in positivo e un altro in negativo.

La notizia buona è che nel 2017 le esecuzioni capitali sono diminuite: 993 in 23 Stati, il 4% in meno rispetto al 2016 (1032 esecuzioni) e addirittura il 39% in meno rispetto al 2015 (1634), anno peggiore dal 1989. Quanto alle sentenze capitali, sono state 2591 in 53 Stati, sempre in calo rispetto alle 3117 del 2016. È una notizia buona e non buonista perché da sempre i Paesi in cima alla graduatoria sono Paesi dove vige una concezione del diritto lontana da quella occidentale; e se dunque nel mondo l’uso della pena di morte diminuisce, significa che qualcosa cambia in meglio in Paesi poco o per nulla democratici.

Il problema vero della pena di morte è infatti il suo utilizzo repressivo e politico da parte di governi dispotici o comunque poco garantisti.

A dirlo è proprio Amnesty International: «Nella maggior parte dei paesi in cui le persone sono state condannate o messe a morte, la pena capitale è stata comminata dopo procedimenti giudiziari non in linea con gli standard internazionali sul giusto processo. […] In diversi paesi, inclusi Arabia Saudita, Bahrain, Cina, Iran e Iraq, alcune incriminazioni e sentenze capitali sono state basate su “confessioni” probabilmente estorte con la tortura o con altri maltrattamenti: in Iran e in Iraq alcune di esse sono state trasmesse in televisione prima che avesse luogo il processo, con ulteriore violazione del diritto degli imputati alla presunzione di innocenza fino a comprovata colpevolezza. Sentenze capitali sono state imposte senza che l’imputato fosse presente al processo in Bangladesh e in Palestina (Stato di)».

Come osserva il rapporto, «il solo Iran è responsabile di più della metà (51%) di tutte le esecuzioni registrate. Questo paese, insieme ad Arabia saudita, Iraq e Pakistan, ha eseguito l’84% di tutte le sentenze capitali registrate a livello mondiale». Anzi, in controtendenza rispetto al dato generale (e ad Arabia Saudita, Pakistan e Iran che, pur restando in vetta alla classifica, hanno seppur di poco ridotto le uccisioni), «le esecuzioni in Iraq sono aumentate del 42%, da 88 nel 2016 a più di 125 nel 2017».

A rafforzare il dato ci sono poi Bahrain, Emirati Arabi Uniti, Giordania e Kuwait che «[…] hanno ripreso le esecuzioni dopo un periodo di interruzione». Basta del resto pensare che «la diminuzione del numero di esecuzioni registrate nel 2017 è legata in larga parte al decremento del 31% in Pakistan», Paese ambiguo a dire il meno, e che nel 2017 la pena di morte è stata abolita da Guinea e Mongolia, con il Guatemala che l’ha abrogata per i reati comuni, e Burkina Faso, Ciad, Gambia e Kenya che «[…] hanno fatto importanti passi avanti verso l’abolizione della pena di morte».

Per la precisione, il primato 2017 spetta ancora all’Iran con 507 esecuzioni accertate ufficialmente e diverse altre stimate, seguito dall’Arabia Saudita (146), dall’Iraq (125 e oltre) e dal Pakistan (60 e oltre). Se non fosse infido, farebbe dunque ridere quanto la Repubblica scrive nel catenaccio sotto al titolo di un pezzo di Giampaolo Cadalanu, «[…] meno di mille esecuzioni nel mondo, quasi tutte in sei Paesi: Usa, Giappone, Iran, Arabia Saudita, Iraq e Pakistan», con Cadalanu stesso che scrive «gli irriducibili: Usa, Cina, Arabia Saudita, Pakistan».

L’anno scorso, le esecuzioni capitali negli Stati Uniti sono infatti state 23 e in Giappone 4, numeri cioè lontanissimi da quelli di Iran, Arabia Saudita, Iraq e Pakistan, ma del resto inferiori (nel caso del Giappone molto, molto inferiori) anche a quelli di Egitto (35 e oltre) e Somalia (24). E comunque incommensurabili, in rapporto alla popolazione e al territorio, anche alle 15 della Giordania, alle 8 di Singapore – Paese per molti versi surreale, da Grande Fratello, che, scrive Amnesty, «[…] ha raddoppiato il numero delle esecuzioni rispetto al 2016» -, alle 6 della Gaza di Hamas (6) e alle 4 del Bahrain (3).

Ora la notizia cattiva, questa: «a causa del segreto di stato che circonda la pena di morte e del limitato accesso alle informazioni, il numero delle esecuzioni non include le migliaia di sentenze capitali che Amnesty International ritiene siano state eseguite in Cina, né quelle in Corea del Nord e Vietnam». Dei Paesi comunisti e neopostocomunisti non si sa cioè nulla, Paesi con cui disinvoltamente l’Occidente commercia, in tutti i sensi. In particolare la Cina, dove l’uomo-partito Xi Jiping si è appena trasformato in una semidivinità laica.

Per questo «nel 2009 Amnesty International ha interrotto la pubblicazione delle stime sull’uso della pena di morte in Cina, dove le informazioni sulla pena capitale sono considerate segreto di stato. Piuttosto, Amnesty International ha sfidato le autorità cinesi a dimostrare l’affermazione sulla riduzione dell’uso della pena di morte pubblicando essa stessa i dati».

Ebbene, secondo le stime di Amnesty, nel 2017 la Cina è stata, ancora una volta, «[…] il paese che esegue la maggior parte delle sentenze capitali nel mondo, mettendo a morte più persone rispetto al resto degli stati mantenitori [della pena capitale] messi insieme», persone a «migliaia». Benché la maggior parte delle sentenze eseguite abbia riguardato casi di omicidio e di traffico di droga, nel Paese «la pena di morte resta applicabile per 46 reati, tra cui alcuni crimini non violenti». Difficile, insomma, parlare di rule of law.

Il motivo per cui la Cina tiene segreto il numero delle sentenze capitali è peraltro facilmente intuibile. Anzitutto perché tale numero è, stima Amnesty, elevatissimo. In secondo luogo perché nella Cina rossa la pena di morte – come la condanna ai campi di lavoro schiavistico – è sempre stata utilizzata per colpire dissidenti, contro-rivoluzionari e minoranze etniche o religiose.

In terzo luogo perché le esecuzioni capitali sono sempre state la fonte principale degli organi per trapianto di cui il Paese ha a lungo fatto un commercio enorme. Ne sanno qualcosa gli aderenti al Falun Gong (o Falun Data), la minoranza religiosa che ha pagato il conto più salato, seguiti da tibetani, cristiani e uiguri, l’etnia turcofona islamica che vive nel nord-ovest, in specie nella regione autonoma dello Xinjiang.

Da tempo gli uiguri sono infatti uno degli obiettivi preferiti di queste mattanze. Oggi la Cina è impegnata a dire al mondo che il commercio di organi umani è solo un ricordo del passato, ma chi non è d’accordo sono proprio gli uiguri. Amnesty International sull’argomento non si pronuncia, eppure significativamente il suo nuovo rapporto esprime «[…] particolare preoccupazione in merito alla mancanza di trasparenza e alla potenziale sottostima dei casi di pena capitale nella Regione autonoma uigura dello Xinjiang».