Ulisse, cura anti apatia

Corriere della Sera luned’ 5 Marzo 2018

di Alessandro D’Avenia

«Ultimo anno, cinque insufficienze nel primo trimestre. Dovrebbero preoccuparmi, ad agitarmi è invece la mancanza di passioni di mio figlio, il non studio credo sia solo la conseguenza. Sembra appagato solo quando è vestito in un certo modo ed esce con gli amici. Da anni ha questa resistenza allo studio e fino ad ora mi son sempre detta: maturerà. Ha recuperato insufficienze peggiori, non vuole esser bocciato, ma quando gli ho chiesto cosa vuol fare nella vita mi ha detto che non c’è niente che voglia fare, niente che lo appassioni».

Sono le parole di uno dei tanti genitori amareggiati per un figlio che, alla fine del percorso scolastico, sembra non aver raggiunto il fine dell’adolescenza: elaborare la propria unicità a partire dalla conoscenza di sé, liberandosi così dalle illusioni che lo portano a sottovalutarsi o a sovrastimarsi. Il ragazzo si aggrappa a un’identità momentanea e passeggera vestendosi alla moda tra gli amici, ma non si appassiona a nulla, perché la passione, a differenza del piacere, riguarda il futuro e non il presente: la passione non si compra ma si scopre, si coltiva e spinge a entrare nel territorio incerto del possibile per realizzarsi, non a caso passione ha la stessa radice di pazienza. «Passione» è infatti una parola felicemente a due facce, perché indica sia il trasporto erotico sia la capacità di soffrire per qualcosa.

Ai miei studenti faccio imparare a memoria il proemio dell’Odissea: devono ricordare per tutta la vita che Ulisse è colui che «conobbe le città e i pensieri di molti uomini,/molti dolori patì sul mare nell’animo suo,/per acquistare a sé la vita e il ritorno ai compagni». In altre parole, la conoscenza e la passione come strumenti di salvezza, propria e altrui.

La vita si fonda su questo eroico caposaldo: per salvarsi bisogna conoscere e patire. Oggi purtroppo però alla salvezza, intesa come esplorazione rischiosa del futuro, preferiamo spesso la sicurezza, che ci protegge da ogni caduta ma ci impedisce la presa sulla realtà: creiamo una bolla che ci serve a confermare fino alla noia ciò che già siamo e crediamo, quando è invece solo il contatto faticoso con «l’altro da me» a restituirci la consistenza appassionante delle cose.

Si è persa quella che Andrea Marcolongo chiama nel suo nuovo libro «La misura eroica» del vivere. L’autrice, commentando il mito degli Argonauti, giovani a caccia di avventure per definire se stessi, ricorda che Platone aveva inventato un’etimologia che fa discendere la parola «eroe» da «eros»: non c’è eroe senza eros perché senza passione non si lascia il proprio recinto confortevole per intraprendere la via che porta al compimento di sé, poiché anche se si patisce ne vale la pena.

L’apatia dei ragazzi è argomento frequente delle lettere che ricevo, a conferma che viviamo in un’epoca di passioni infeconde, cioè senza eros e quindi senza uscita da sé. Prevalgono quelle autoreferenziali (narcisistiche), autodistruttive (le dipendenze) o distruttive (varie forme di violenza), tutte frutto del desiderio bloccato per assenza di chiamata e quindi mancanza di futuro come esplorazione del possibile. Come fare a risvegliare il desiderio, affrancarlo dalla paralisi della paura e dell’iper-sicurezza, dell’inquieto adeguarsi a piaceri troppo rapidi per dare consistenza alla felicità? Come restituire alla vita quotidiana una misura eroica e appassionata? Come andare oltre le passioni tristi?

Il fine che muove Ulisse è il ritorno a Itaca, per sé e i compagni. Diventare responsabili di qualcuno è accensione della vita, la scintilla che dà fuoco al desiderio umano di compiersi e superare se stessi. I ragazzi si ripiegano nell’apatia, che a volte produce violenza, proprio per sentire meno il dolore del desiderio imprigionato, del compimento interrotto: avere qualcosa per cui patire è ciò che trasforma una comparsa in un protagonista (in greco colui che combatte in prima fila), ma prima bisogna aver reso la pietrosa Itaca il luogo più bello per cui lottare, proprio grazie ai legami che la rendono «Itaca».

Solo così si può realizzare ciò a cui ogni uomo si scopre chiamato: diventare se stesso, evitando sia la comoda inerzia sia la scomoda fuga da sé spesso nascosta dall’accelerazione smisurata del ritmo della vita. Tornare a Itaca consente di trasformare ciò che ci è dato e non abbiamo scelto, cioè il nostro destino, in una destinazione, che si manifesta in una vera e propria novità da creare con quegli elementi. Ma dov’è finita Itaca?

Viktor Frankl, psichiatra sopravvissuto ai campi di concentramento racconta che, tra i compagni di prigionia, riuscivano a salvarsi solo quelli che riattivavano il desiderio: «Due compagni rinchiusi con me nel lager rivelarono “di non sperare più nulla dalla vita”. Ad entrambi si poteva chiarire ancora che la vita si aspettava qualcosa da loro, che qualcosa li aspettava nel futuro. In effetti risultò che una persona attendeva uno dei due: il figlio adorato “attendeva” all’estero il padre.

L’altro non aveva nessuno, ma l’“attendeva” una cosa: la sua opera! Infatti quest’uomo, uno studioso, aveva pubblicato su un certo tema una collana di testi che attendeva il suo compimento. Quest’uomo era indispensabile per quest’opera; nessuno avrebbe potuto sostituirlo, proprio come l’altro era insostituibile nell’amore del figlio: quell’unicità e originalità che distinguono ogni individuo e che conferiscono — esse sole — alla vita il suo significato.

L’essere indispensabile e insostituibile fanno apparire nella giusta misura, non appena affiorano nella coscienza, la responsabilità che un uomo ha della sua vita. Un uomo pienamente consapevole di questa responsabilità nei confronti dell’opera che l’attende o della persona che lo ama e l’aspetta, non potrà mai gettar via la sua esistenza» (Uno psicologo nei lager).

Persino in condizioni disperate il desiderio può essere risvegliato aiutando a passare dal «non mi aspetto nulla dalla vita» al «che cosa la vita si aspetta da me?», solo la risposta a questa domanda rende l’uomo insostituibile e l’esistenza appassionante. La risposta è oggi ostacolata anche dalla concezione del talento come autoaffermazione contro gli altri, quando proprio il talento è la strada che porta a compiere se stessi compiendo anche gli altri e il mondo, in un gioco in cui vincono tutti, sia chi dà sia chi riceve.

Ho deciso di fare l’insegnante e farlo in un certo modo perché questo dà senso alla mia esistenza, e l’energia impegnata per i ragazzi cresce invece di esaurirsi, perché so che mi aspettano, anche quando il sistema scuola mi deprime. Ma io lavoro per loro, non per l’ottusità del sistema.

Il talento è un dono fatto per esser donato, come sa bene l’artista, la sua opera non è per sé ma per un ampliamento del mondo. Leopardi in uno degli ultimi pensieri dello Zibaldone scriveva: «Uno dei maggiori frutti che mi propongo e spero dai miei versi è contemplare le bellezze e i pregi di un figliuolo, non con altra soddisfazione che di aver fatta una cosa bella al mondo; sia essa o non sia conosciuta per tale da altrui».

Fare qualcosa di bello al mondo è il desiderio radicale di ogni uomo, e il riconoscimento altrui ne è solo una conseguenza possibile e non necessaria, perché la felicità consiste puramente nel realizzare «la cosa bella». Anche il poeta contemporaneo Daniele Mencarelli lo ha sperimentato con sofferenze enormi, come racconta nel suo recente romanzo autobiografico «La casa degli sguardi».

Distrutto dalla dipendenza dall’alcol, in preda alla disperazione chiede aiuto a un amico che gli trova un posto di addetto alle pulizie nell’ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma. Il dolore dei piccoli e la responsabilità di un lavoro da far bene per loro risvegliano la passione quasi distrutta per la vita. Proprio in mezzo al patire dei bambini trova la sua Itaca, tocca a lui prendersi cura di loro che lo attendono, forte e lucido, ogni giorno: «Non mi posso più permettere di fuggire, d’avere la vista annebbiata, voglio guardare in faccia le cose».

Noi diventiamo capaci di «attendere a» (bella forma italiana per indicare il prendersi cura) qualcosa o qualcuno, solo quando diventiamo consapevoli che quel qualcosa o qualcuno ci «attende». La mia passione cresce quando attendo a un alunno, a una pagina, perché sono insostituibilmente responsabile di quell’alunno e di quella pagina che aspettano ogni mio sforzo creativo.

Il letto da rifare oggi è un compito che la famiglia e la scuola non possono improvvisare, perché non è frutto del caso ma di azioni quotidiane, per permettere ai ragazzi di riconoscersi unici e insostituibili per qualcuno o qualcosa. Uno dei migliori giovani compositori contemporanei, Nils Frahm, racconta in un’intervista al NYTimes di dover tutto al suo maestro di pianoforte che, quando Nils era un adolescente annoiato e indisciplinato, «mi fece capire che avevo bisogno di soffrire per qualcosa di molto bello»

Senza soffrire per il bello del mondo non troveremo mai nulla di bello da fare al mondo.