Elogio di Fabrice Hadjadj, che si vuole dedicare alla famiglia (la sua)

Fabrice Hadjadj

Tempi, 25 gennaio 2018

di Rodolfo Casadei

Da un filosofo normalmente ci si aspettano lezioni di pensiero e di rigore intellettuale, ma stavolta è arrivata una lezione di vita. Qualche giorno fa Fabrice Hadjadj, pensatore cattolico francese che i lettori di Tempi conoscono bene, ha colto l’occasione della sua rubrica sul mensile francese Panorama per annunciare che non accetterà più richieste di tenere conferenze e che interromperà tutte le sue collaborazioni giornalistiche.

Il motivo? La volontà di dedicare più tempo alla famiglia. Lui e la signora Siffreine attendono di diventare, a marzo, genitori per l’ottava volta: una coppia di sposi che decisamente non ha nessun problema con l’Humanae Vitae. Né con l’insegnamento di Giovanni Paolo II, che sottolineava che ogni essere umano è unico e irripetibile: Hadjadj scrive che anche questo figlio atteso sarà «unico, ancora una volta».

L’autore di Mistica della carne, La fede dei demoni, Farcela con la morte e di un’altra dozzina di saggi intelligenti, originali e brillanti spiega di essersi trovato in una situazione paradossale che gli ha aperto gli occhi: dover spiegare ai figli, insofferenti per le continue assenze da casa, che i suoi allontanamenti sono dovuti a conferenze e incontri ai quali viene invitato per tessere l’elogio della famiglia, e dell’importanza di dedicarle tempo ed energie…

Il palpabile disagio della prole davanti alle sue spiegazioni e il ricordo delle confidenze del politico Philippe de Villiers, che gli confessò il suo senso di colpa per aver trascurato il rapporto coi figli per la maggior parte della propria vita dominata da impegni pubblici, hanno convinto Hadjadj a cambiare strada: d’ora in poi e per molto tempo a venire la vita familiare avrà la priorità sugli impegni pubblici.

E nel suo ultimo contributo al periodico anticipa la replica di quanti, per autogiustificarsi o giustificare il proprio beniamino, diranno che non è giusto che chi ha ricevuto il dono di una certa genialità lo riservi a pochi e lo neghi a molti: se Dio ti ha dato qualità eccellenti -dicono costoro -, che sia nell’ambito del pensiero, dell’arte, della scienza o della leadership spirituale, evidentemente sei chiamato a un impegno di vita pubblica, il tuo lavoro e la tua testimonianza saranno là.

Hadjadj vede la cosa in tutt’altro modo: gli exploit di genialità e di leadership che vediamo intorno a noi non sono sempre spontanei come si vuole far credere, bensì spesso sono l’esito creativo di una fuga dai rapporti reali: «Alcuni hanno scritto dei capolavori per non dovere occuparsi della propria famiglia. La fuga dona le ali, e il genio sembra poter scusare tutto. Si argomenta la propria “missione” e il proprio “talento”, ed è così che si diventa quel grande artista, quella vedette così brillante sotto i proiettori, ma il cui focolare non è più che un mucchietto di ceneri fredde».

Ormai ci abbiamo fatto l’abitudine, ma lo spettacolo di attori, cantanti, artisti contemporanei, politici, conduttori televisivi, sacerdoti e vescovi che hanno bisogno dello psicologo o dello psicanalista per risollevarsi dalle dipendenze più pericolose e devastanti (alcol, droghe, psicofarmaci, sesso con maggiorenni e con minorenni) o dalla depressione, che rottamano rapporti affettivi serialmente e che muoiono prematuramente e in modi drammatici, dovrebbe averci insegnato che identificarsi con un ruolo pubblico a scapito dei rapporti personali reali, privilegiare le sfide della competizione pubblica rispetto a quelle del rapporto con la differenza irriducibile e l’unicità delle persone che ci sono vicine, comporta una fatale compromissione dell’umano di cui siamo fatti.

L’amore per i vicini sarebbe ingiusto perché mette in secondo piano i lontani, alla cui cura sono evidentemente destinati i nostri talenti? È vero il contrario: condizione di un amore per i lontani e gli sconosciuti che non sia narcisistico (chi sale su un palcoscenico o su una tribuna o siede a un tavolo di presidenza sotto l’occhio di una telecamera, chi legge il proprio nome e le proprie parole sui grandi giornali, si compiace della propria immagine negli occhi del pubblico, dei sentimenti di ammirazione che suscita negli spettatori/elettori/discepoli) è l’amore per il vicino, è la vera amicizia con alcuni, è la paternità/maternità carnale e spirituale (anche solo spirituale) che ci fa dedicare il nostro tempo ad alcune poche persone che ci impegneranno in un rapporto affettivo “plenario”, avrebbe detto Paolo VI; cioè un rapporto dove sono implicate tutte le nostre caratteristiche umane: l’intelletto, i cinque sensi, le emozioni.

Dove manca anche una sola delle tre componenti – fisica, emotiva, intellettiva – il rapporto non è pienamente umano, il rapporto resta a livello virtuale, e prima o poi si paga e si fa pagare agli altri il prezzo dell’incompletezza.

Nietzsche in Così parlò Zarathustra biasima l’amore per il prossimo predicato dal cristianesimo e gli contrappone l’amore per il lontano: non a caso è il profeta del mondo individualista e post-umano (il post-umano è la vera cifra del superuomo di Nietzsche, che sarebbe più corretto definire un oltre-uomo).

Ma l’amore si apprende alla scuola dei rapporti familiari, comunitari, di villaggio. Per questo nel decalogo mosaico “onora il padre e la madre” viene prima di “non uccidere” e di “non rubare”. E Cristo prima insegna che i comandamenti e la legge si riassumono nell’amore per Dio e per il prossimo; poi nella parabola del buon samaritano estende il concetto di “prossimo” al forestiero e all’estraneo.

È logico: Dio conosce la natura di ciò che ha creato, perciò la Sua pedagogia del soggetto umano è conforme ad essa. Per chi non la accetta e non la segue, la strada è segnata, ed è quella della sterilità generativa e dell’aridità affettiva. Nietzsche, che predica l’amore del remoto e invita ad amare nell’amico il superuomo, non si è sposato né ha avuto figli.

Lo stesso vale per molti altri maestri del pensiero che hanno cercato di istruire gli uomini sul modo migliore di vivere, astraendosi loro stessi dai rapporti umani: Platone, Leibniz, Kant, Schopenhauer, Voltaire, Sartre per dire solo alcuni dei maggiori non hanno avuto figli. Jean-Jacques Rousseau, uno dei padri della pedagogia moderna, ne ha avuti sei ma ne ha affidati cinque all’orfanotrofio e uno a un parente.

Diversamente da tutti questi, Hadjadj ha chiaro che l’unico modo per influenzare veramente lo spirito di una persona, di un figlio carnale o spirituale, e far nascere in lui sentimenti di gratitudine è dedicargli del tempo in un modo esclusivo e personale, è farlo sentire unico e insostituibile, indispensabile alla pienezza di vita, al senso di riuscita, del genitore, maestro, amico.

Come scrive Giancarlo Cesana nel libro Ed io che sono?: «La verità è una persona che vive per te. Non si tratta di un’idea, ma di un’esperienza. Un insegnante, un genitore devono comunicare a un ragazzo che è necessario, che non sarebbe la stessa cosa se non ci fosse; che, se mancasse, al mondo mancherebbe qualcosa di importante. Se non si comunica questo, la libertà resta spenta».

Vale anche il reciproco: il padre, la madre, l’insegnante scopre la sua unicità, la sua singolarità, il senso della sua vita personale dentro alla relazione affettiva col ragazzo. I guru religiosi o politici che pontificano da un palco o dagli schermi televisivi, gli uomini e le donne dello spettacolo che si esibiscono su di un palcoscenico, se identificano il loro rapporto con gli altri con questa esteriorità fanno del male anzitutto a se stessi, perché si condannano all’aridità affettiva. Fanno del male a spettatori e discepoli perché li inducono a confondere vita e recitazione, reale e virtuale, rapporto umano e teatrino della vanità.