Donne e Islam: Rachida e le altre

Rachida

L’Occidentale 17 Luglio 2017

di Lorenza Formicola

Con Souad Sbai, parliamo di donne e islam.

Che cosa vuol dire in Italia morire perché apostata?

“Libertà, libertà”, se ne riempiono la bocca un po’ tutti. Ma non è vero che c’è tutta questa libertà, soprattutto religiosa, in Italia come in Occidente: si muore di apostasia anche da queste parti. E vivere da apostati, vuol dire vivere nascosti, nell’incubo di entrare in una chiesa, nell’angoscia di farsi vedere pregare. Vuol dire rischiare di morire ogni giorno. Quando sono venuta in Italia 36 anni fa non avrei mai pensato che in un Paese come questo, cattolico, occidentale, qualcuno potesse morire perché convertito dall’islam al cattolicesimo. E invece succede, è successo all”anima clandestina’ di Rachida.

Chi era Rachida?

Ho conosciuto l’anima di Rachida (Rachida. Un’apostata in Italia è l’ultimo libro di Souad Sbai) quando è venuta a mancare. L’ho conosciuta dalle parole di quanti le erano accanto. E mi hanno disegnato il profilo di una persona umile, gentile, dal sorriso grande e buono. Rachida era una giovane donna che si era messa a fare le pulizie in chiesa per poter godere della libertà di pregare.

Ma cosa le è successo?

Rachida, un 35enne, marocchina, residente a Levante di Brescello era una donna che è stata massacrata con un martello che le ha ridotto la testa a cinque centimetri, davanti alle sue figlie, di 3 e 5 anni. Massacrata dal marito perché qualcuno della comunità gli aveva riferito di averla vista in ginocchio a pregare. Se non fosse stato lui ad ucciderla, l’avrebbe fatto qualcun altro della comunità, uccidendo il marito per primo per non aver saputo educare la moglie. Rachida ha subito una specie di fatwa perché pregava il Dio dei cattolici ed è stata abbandonata, come una reietta, per cinquanta giorni in un obitorio. Un corpo umiliato, che nessuno ha lavato, che nessuno ha coperto, ha accarezzato, direi anche che nessuno ha coccolato. Perché anche la morte ha bisogno di coccole e dignità.

Souad Sbai

Come è possibile che la comunità islamica del posto non abbia mosso un dito e l’abbia lasciata sola, nel freddo umido?

Perché sono complici. Qualcuno era contento, eccome se era contento!, della morte di Rachida, qualcun altro ha avuto paura di parlare. Perché probabilmente viveva la sua stessa condizione esistenziale. Nessuno ha avuto il coraggio di alzare la voce e dire “Sono anch’io Rachida”. E non mi riferisco solo agli islamici, ma anche agli italiani.

Perché dirsi islamici è considerato un valore aggiunto, e, invece, convertirsi al cattolicesimo dall’islam è un marchio pericolosissimo d’infamia anche in Europa?

I cattolici, o i sedicenti tali, non hanno saputo reagire al finto ideologismo, non hanno saputo difendere chi si avvicina al cattolicesimo. Si preferisce nascondersi dietro l’avamposto del martirio. Eppure prima andrebbe difesa la libertà di conversione, se poi il rischio di morte diventa reale, si pagano, va bene, tutte le conseguenze, ma oggi non ci si può lavare le mani su storie come quelle di Rachida. Faccio proprio appello alla Chiesa: non si può far finta che non sia mai esistita. La sua storia è una ferita aperta. Il suo martirio va riconosciuto. E se l’appellativo di “martire” è chiedere troppo, almeno chiamatela “serva di Dio”.

Rachida ci ha insegnato cosa vuol dire essere la moglie di un musulmano?

Sicuramente. Ma ci ha indicato, in maniera eclatante la dimensione non solo delle donne, ma anche di tutti quegli uomini che vivono nel terrore di abbandonare l’islam. Vittime di quei musulmani che arrivano in Occidente, nella culla della “democrazia”, della civiltà e dei diritti, e che usano la loro personalissima forma di ‘democrazia’: ignorare il concetto di sacralità della vita e di agire nel rispetto di chi vorrebbe pensarla in un altro modo.

C’è un momento nel suo libro in cui scrive: “Difendendo in tribunale come parte civile donne uccise o vittime di violenza, ho avuto la netta sensazione che nessuno si interessasse della loro sorte se non per motivi strettamente legati alla propria convenienza, quella derivante dalla pubblicità”. Perché cosa succede in tribunale?

Oh, finalmente posso dirlo. E’ incredibile come appena muore qualcuno c’è una gran confusione, il clamore, tutti ad alzare la manina e pure la bandierina. Una bla-bla che dura il tempo dell’attenzione mediatica. E a volte neanche quello… Sono entrata in tribunali gelidi, freddi, e più le fasi del processo avanzano, più diventa gelida l’atmosfera, e sei costretta anche a scontrarti con il pm che osa controbattere: “è la loro tradizione, è la loro cultura”. Nel vuoto e nel silenzio delle aule di tribunale, però non c’è mai nessuno. Né la parte islamica, né quella cattolica, né quella laica e atea. Dove vanno tutti quando c’è da combattere?

Perché da quelle parti non ci sono le telecamere.

Esattamente, non ci sono le telecamere e quindi nessuno può fare la comparsa. Ma a me questo ha insegnato cos’è il silenzio, ha insegnato ad avere pazienza, ad ingoiare i rospi. Combattere per Rachida è significato lottare anche per le sue figlie. Perché un domani possa essere per loro motivo d’orgoglio sapere che la mamma è morta da apostata. Magari un giorno sarà un appellativo nobile. E non una vergogna. Una fedele, piuttosto che un’infedele.

I giudici che si aggrappano alla fantomatica “loro cultura”, hanno idea di quale cultura stanno parlando?

Non credo. Mio padre ha mandato tutti e cinque noi fratelli, quando eravamo in Marocco, a scuola dalle suore. Era un’abitudine consolidata per le famiglie che potevano permettersi un certo livello d’istruzione: tutti sapevano che quello era il meglio, e non lo disprezzavano. La ricordo ancora la scuola che ho fatto, ricordo ancora i loro nomi e la loro severità. Sono crescita in un ambiente, e in un contesto familiare, senza pregiudizi. Come mio padre, anche io sono cresciuta tra i francesi, e non abbiamo mai avuto diffidenza nei loro confronti perché occidentali. Non abbiamo mai avuto problemi con il fantomatico spettro del colonialismo. Ho un sacco di amiche francesi. Mia mamma aveva amiche francesi e si scambiavano anche le ricette. Io ho vissuto in quel mondo. Ma quando sono arrivata in Italia ne ho conosciuto un altro di mondo.

Un altro mondo? Possibile che abbiamo abbassato lo standard delle sue aspettative?

Arrivata qui io ho conosciuto il mondo dell’aggressività. Quello che voluto disegnare una bella linea di demarcazione tra loro e l’Occidente, un confine da non valicare. Con dei ‘valori’ che o li condividi o li condividi. Ma io, per esempio, sulla sacralità della vita non arretro nemmeno di un centimetro. E neanche sulla libertà di pensiero. Spesso mi rinfacciano che uso parole forti, a me interessa la verità. E che non esista più un’altra Rachida in Italia, perché si possa vivere nella libertà di convertirsi al cattolicesimo e condurre un’esistenza serena con i propri figli. E non in una comunità in cui essere odiati.

A proposito di linee di demarcazione, come si può pensare che il burqa sia simbolo della libertà?

Era il 2009 e io presentai una proposta di legge anti-burqa con Manlio Contento. La legge aveva fatto tutto l’iter parlamentare, ma venne archiviata dal presidente Napolitano. Nel frattempo il presidente della Repubblica italiana, infatti, aveva ricevuto una lettera della comunità islamica che denunciava il disegno di legge come discriminatorio verso le donne che portavano il velo. Ricordo benissimo quei momenti. E’ una legge che avevo discusso alla Camera con la voce che mi tremava, con il pensiero rivolto a quelle donne segregate in quel burqa, che non è altro che una galera ambulante.

Ma in quel momento la vita mi ha dato un’altra lezione: l’ingiustizia. Perché io le ho conosciute le donne sotto il burqa. Sono donne infelici, che soffrono nel profondo dell’anima. Mettiamo da parte la “convertita” esaltata che va in giro convinta di avere un’ideale. E pensiamo alle altre, a quante arrivano in Italia e sono costrette a portarlo il burqa o il hijab. Sono donne che non possono condividere un sorriso, una parola, un paio d’occhi che brillano, un pianto. In Marocco hanno vietato la vendita di qualsiasi indumento del genere, e in Italia, invece, si riempiono la bocca di diritti umani e poi consentono che una persona si annulli totalmente perché è la loro cultura.

Si può affermare che il velo sia un simbolo di disprezzo per i valori occidentali?

E’ una mera politica di demarcazione del territorio. Fa parte del progetto dei Fratelli musulmani: “è attraverso le donne che – dicono – facciamo vedere quanto siamo forti, quanto siamo potenti”. In quel gesto c’è il disprezzo di chi ti sta dimostrando di poter comandare a casa tua. Impongono la loro “tradizione tribale” – che non ha niente a che vedere con l’islam (perché non ci sono tracce del nel Corano): è un mero progetto politico. Ed è impensabile restare indifferenti o complici di una tortura come il burqa.

Ma se ci si esprime in questi termini si viene tacciati di islamofobia in Europa.

L’islamofobia non esiste. E’ una parola che hanno inventato per metterci il bavaglio alla bocca. Per non farci più parlare. E’ un escamotage nato in Europa per bloccare la libertà di espressione, i giornalisti, i liberi pensatori. Per zittirci per tutti. Qualsiasi giudizio fuori dagli schemi del politicamente corretto è considerato islamofobia. Ma se parlare di diritti delle donne, per esempio, vuol dire essere islamofobi, allora io sono la quintessenza delle islamofobe. E se denunciare il progetto politico dell’islam è islamofobia, sono fiera di esserlo. L’appello che faccio ai giudici è di smettere di usare ed abusare di quella parola studiata a tavolino. Perché quando i cristiani sono sgozzati, quando gli israeliani sono boicottati e perseguitati non c’è un titolone sulla cristianofobia?

E’ possibile che l’Europa sia, di nuovo, terra di conquista islamica e che l’Occidente si stia avviando al baratro?

Preferisco guardare tutto con ottimismo. Penso alla decisione presa dalla Corte di Strasburgo qualche giorno fa, e trovo forza e una felicità immensa: “Vietare il velo in pubblico non viola nessuna libertà e non discrimina”. Dobbiamo ripartire dalla decisione di Strasburgo perché ha confermato le nostre battaglie e che il multiculturalismo è un fallimento totale. Immagino un nuovo multiculturalismo, dove i diritti e i principi occidentali non vengano calpestati e non siano negoziabili.