Il trionfo dell’impresa familiare

Radici Cristiane n.130

– Gennaio-Febbraio 2018

Le aziende familiari vanno di moda e piacciono a tutti. Ai manager per la loro visione di lungo termine, ai politici perché creano posti di lavoro relativamente più sicuri ed all’opinione pubblica perché mantengono un legame con le comunità locali. Eppure su di loro pesano ingenerosi stereotipi e luoghi comuni, peraltro infondati, come è possibile dimostrare, cifre alla mano

 di Riccardo Pedrizzi

Ci sono stereotipi, leggende metropolitane delle e sulle imprese familiari, che facilmente possono essere smontati. Si dice che siano tutte piccole, che durino di meno nel tempo, che non crescano, che manchi la meritocrazia, che abbiano una bassa capitalizzazione… Invece l’impresa familiare è fortissima, soprattutto per i valori che incarna: ha un azionariato più stabile e dà più garanzie sul lungo termine; non è legata ai valori di Borsa ed è fortemente legata al territorio d’appartenenza.

UNA GARANZIA

Basta fare analisi serie per uscire dai luoghi comuni. Si scopre così come siano proprio le imprese familiari a dare continuità e stabilità alla politica economica, infatti il controllo familiare si traduce in un vantaggio competitivo nell’ottica a lungo termine. Inoltre tendono ad essere meglio patrimonializzate. Il loro indebitamento è in media inferiore del 20% rispetto alle concorrenti a controllo pubblico, così come inferiore è la quota di utili destinata ai dividendi, perché si preferisce lasciarli in azienda. Oltre tutto si fanno maggiori investimenti. Questa maggiore attenzione alla solidità di bilancio produce una crescita maggiore di fatturato, di margini e flussi di cassa.

Qualche numero: le imprese su base familiare rappresentano il 90% del totale del pianeta. Secondo il Boston Consulting Group il 33% delle società americane, il 40% di quelle francesi e tedesche sono ancora controllate da famiglie. Questo vale anche per l’Italia, dove le imprese familiari rappresentano il 61% della Borsa di Milano ed il 50% delle società con fatturato oltre i 50 miliardi.

TUTT’ALTRO CHE UN’ECCEZIONE

La public company, dunque, non è l’unico modello possibile ed il capitalismo familiare non è più considerato come un’eccezione rispetto a quel modello. Le aziende a controllo familiare non sono affatto in via di estinzione in Europa. Anzi. Rispetto al 2005: si è passati dal 15% al 19% nelle imprese del Fortune Global 500; 36,7% in Germania, 36% in Francia, 35,6% in Spagna e 32,9% in Svezia. Supera tutti gli altri Paesi l’Italia, dove il capitalismo familiare è predominante come modello, rappresenta un volano di crescita e durante la crisi ha fatto registrare performance migliori e perdite più contenute rispetto alle altre imprese; inoltre, è presente con il 40,7% tra le 300 imprese più grandi del Paese. Da noi alcune di esse sono diventate internazio­nali, come Luxottica, Autogrill, De Agostini Gtech: si tratta di aziende che hanno fatto il salto di qualità e dimensionali ed oggi stanno avendo successo nonostante la crisi degli ultimi anni.

Non poche tra le maggiori imprese mondiali sono sottoposte ad un controllo familiare: la più grande per fatturato, Walmart, è per l’appunto tale. Non è quindi vero che la famiglia impedisce all’azienda di crescere o almeno non sempre. La famiglia esprime spesso una capacità di resistenza, anche nelle circostanze avverse. Un esempio: nella crisi che colpì l’industria automobilistica americana dopo il 2008, l’unica delle tre grandi case di Detroit, che non fece ricorso agli aiuti dello Stato, fu la Ford, che registra tuttora la presenza de­terminante, nel capitale e nel board, della famiglia del fondatore.

In Italia, nello stesso settore automobilistico, dopo la scomparsa di Gianni e Umberto Agnelli, la famiglia decise di non cedere l’azienda in un momento difficilissimo e pochi anni dopo è stata protagonista del recupero di Chrysler, una delle società automobilistiche americane.

I PRO DELL’AZIENDA FAMILIARE

La famiglia, come si vede, difende a tutti i costi l’azienda in cui si identifica, sia perché rappresenta per essa un valore non soltanto finanziario, sia perché ne conosce meglio degli esterni le capacità di recupero. Volontà di questo tipo difficilmente si trovano nelle società a capitale diffuso, in cui i manager hanno convenienza a decidere in base alle quotazioni di borsa ed agli interessi degli azionisti, cioè in base al profitto immediato, facendoli prevalere su ogni considerazione di lungo termine.

L’Osservatorio Aub (Aidaf, Unicredit e Bocconi) sulle aziende familiari italiane ha certificato che spesso esse riescono anche a fare un buon numero di acquisizioni. Nel decennio 2005-2015, infatti, le pmi (piccole e medie imprese) hanno realizzato il 43% dei deal perfezionati in Italia. Inoltre, fatti 100 i ricavi del 2007, nel 2015 le imprese familiari medio-grandi sono arrivate a 145,2, mentre le altre a 131,8. «Le più grandi sono tornate ai livelli pre-crisi ed ora sono sovracapitalizzate perché le proprietà hanno ridotto la politica dei dividendi e le banche hanno chiesto di ridurre l’indebitamento», si legge. La quota di imprese familiari con Roi negativo è quasi ritornata ai livelli pre-crisi e la sottocapitalizzazione nella maggiore parte dei casi ormai appartiene al passato.

Credit Suisse, in un recente report, ha analizzato le performance delle società quotate a controllo familiare nel corso di oltre dieci anni, mettendole a confronto sia con il resto del mercato, sia con aziende concorrenti ma a controllo pubblico. Le 1000 aziende familiari di tutto il mondo prese in esame hanno garantito un ritorno cumulato del 126% dal 2006 ad oggi, il 55% in più della media dei mercati azionari globali. Le società quotate a controllo familiare hanno fatto meglio non solo della media del mercato, ma anche delle loro concorrenti non quotate.

E DOPO, CHE FARE?

Uno dei problemi però decisivi per il destino delle aziende familiari è quello della successione. Meglio puntare sulla continuità familiare col rischio che i successori non siano all’altezza del compito oppure è meglio affidarsi a professionisti esterni, se non addirittura vendere e passare la mano?

Il problema del capitalismo familiare spesso sono proprio gli eredi perché riluttanti ad assumere la guida delle aziende. Non c’è da sorprendersi, perché si tratta di scegliere tra vivere comodamente di rendita, sperperando il patrimonio accumulato dai padri, e vivere lavorando sodo, con grandi responsabilità e la probabilità di fare peggio di chi li ha preceduti. Si sceglie perciò la seconda opzione solo quando si è ricevuta un’educazione im­prenditoriale, altrimenti è facile e comode scegliere la prima.

La sfida dunque per i capifamiglia non è “passare” semplicemente l’azienda, bensì generare nuova capacità imprenditoriale di cu: l’azienda si nutre e soprattutto trasmettere valori con la consapevolezza che anche oggi le aziende familiari vanno di moda e piacciono ai manager per la loro visione di lungo termine, ai politici perché creano posti di lavoro relativamente più sicuri ed all’opinione pubblica perché mantengono un legame con le comunità locali.