La seconda guerra mondiale e la Santa Sede

Luigi_Maglione_1927

Il card Maglione, Segretario di Stato vaticano dal 1939

La Civiltà Cattolica n.3838 – 15 maggio 2010

La letteratura storica sulla seconda guerra mondiale spesso ignora le fonti vaticane relative a tale periodo. Nell’articolo si analizzano sinteticamente le cause di ordine politico-diplomatico che condussero allo scoppio del micidiale conflitto e si esamina l’attività svolta dalla diplomazia della Santa Sede per frenare il precipitare degli eventi.

di Giovanni Sale s.i.

L’Europa e la seconda guerra mondiale

La letteratura storica sulla seconda guerra mondiale è ormai molto ampia e tocca tutti gli aspetti di quell’avvenimento bellico che avrebbe cambiato il futuro non soltanto dell’Europa, ma anche del mondo intero. I libri scritti negli ultimi decenni su tale materia sono spesso di buon livello e, soprattutto, sono ben documentati e precisi nel ricostruire i fatti, anche a motivo dell’abbondanza di fonti, sia diplomatiche (provenienti dai vari archivi statali) sia private o memorialistiche, messe a disposizione del ricercatore.

Su tale materia in questi anni sono stati pubblicati, anche da storici accademici, lavori di buona divulgazione che hanno avuto un discreto successo editoriale. Un recente volume dello storico inglese Richard Overy (1) — uno dei maggiori studiosi della seconda guerra mondiale — unisce la qualità di un lavoro svolto con grande rigore con le ragioni della buona divulgazione storica; il libro infatti è scritto in uno stile lineare e comunicativo.

Ci sorprende però come nella ricostruzione degli avvenimenti che condussero alla scoppio della guerra non si faccia mai riferimento, neppure incidentalmente, all’attività svolta dalla Santa Sede in relazione ai fatti così meticolosamente ricostruiti: eppure la documentazione vaticana su questa materia, raccolta negli Actes et Documents (2), riporta l’attività svolta dalla Santa Sede e dal Papa durante il periodo della seconda guerra mondiale a partire dai primi mesi del pontificato pacelliano.

Secondo Overy, l’inizio della seconda guerra mondiale, scoppiata nei primi giorni del settembre 1939, si può spiegare in modo adeguato soltanto nel contesto del progressivo degrado dell’ordine europeo durante il decennio precedente, quando «la crisi economica, l’ascesa delle dittature, le profonde divisioni ideologiche, i nazionalismi rivali e il fallimento degli sforzi di pace della Società delle Nazioni si combinarono per rendere probabile lo scoppio di un grande conflitto» (3), che ben più di quello precedente avrebbe avuto dimensioni non soltanto europee, ma mondiali. La causa immediata, cioè il casus belli che scatenò il conflitto, fu l’aggressione da parte di Hitler della Polonia, in difesa della quale intervennero le due maggiori potenze democratiche dell’Europa, Gran Bretagna e Francia.

La cosiddetta questione polacca nacque dopo la fine della prima guerra mondiale, quando le potenze vincitrici, a Versailles, decisero di ricostituire lo Stato indipendente della Polonia, da due secoli scomparso dalle carte geografiche europee, poiché i suoi territori erano stati spartiti tra l’impero tedesco, quello austriaco e quello russo. La città di Danzica, importante scalo navale sul mar Baltico, fu assegnata alla Polonia, insieme a un «corridoio» che, attraversando la Germania, collegava la città portuale con il nuovo Stato.

Per evitare contrasti intra-etnici, Danzica fu dichiarata «città libera», posta sotto il controllo della Società delle Nazioni e amministrata da un Alto Commissario da essa nominato. Tale soluzione fu naturalmente respinta dalla Germania, che considerava Danzica città tedesca e il cosiddetto corridoio come un vulnus all’integrità territoriale della nazione tedesca (4).

Nel gennaio 1939 il progetto tedesco di reintegrare Danzica nel Terzo Reich fu ancora una volta riproposto alla Polonia e, come previsto, fu nuovamente respinto dal Governo. Dopo questo, Hitler ordinò ai suoi generali di preparare un piano di invasione della Polonia, cercando di non coinvolgere, nella sua «guerra locale», le grandi potenze occidentali. Ma tale progetto non gli riuscì, come invece era accaduto un anno prima alla Conferenza di Monaco.

I Governi della Gran Bretagna e della Francia — dopo l’invasione della Cecoslovacchia da parte di Hitler (delle cui spoglie beneficiò in piccola parte anche la Polonia) e l’annessione forzata della città lituana di Memel — erano convinti che era necessario in ogni modo e a qualsiasi prezzo porre un limite alle mire espansionistiche del Reich verso i territori dell’Est: essi non avrebbero mai permesso che anche Danzica fosse occupata dalle armate tedesche.

Il 31 marzo 1939, il primo ministro inglese Neville Chamberlain davanti alla Camera dei Comuni dichiarava: «Nel caso di qualsiasi azione che metta direttamente in pericolo l’indipendenza polacca e alla quale il Governo polacco giudichi di suo interesse vitale resistere con le sue forze nazionali, il Governo di Sua Maestà si sentirà immediatamente obbligato a soccorrere la Polonia con tutti i mezzi possibili».

Qualche giorno dopo anche la Francia si impegnava a difendere con le armi l’indipendenza della Polonia. Il 13 aprile le stesse «garanzie» furono estese dai due «Governi democratici» alla Grecia e alla Romania. Naturalmente, la posta in gioco in quel momento era molto alta e andava oltre il «caso Danzica»: il vero obiettivo di tali «garanzie» era infatti di bloccare, con la minaccia dell’intervento armato di Paesi molto forti, le crescenti ambizioni tedesche di dominio dell’Europa dell’Est; impedire che la Germania, puntando sulle presunte debolezze e indecisioni delle democrazie europee, estendesse il proprio «spazio vitale» su metà dell’Europa, calpestando il diritto dei popoli e violando gli accordi internazionali.

Nonostante la rumorosa propaganda bellica, Hitler in questo periodo non desiderava estendere il conflitto oltre la Polonia, coinvolgendo in una guerra europea e mondiale Gran Bretagna e Francia. Il 23 maggio disse ai suoi capi militari: «II nostro compito consiste nell’isolare la Polonia. Il successo di questa azione d’isolamento è decisivo […]. Non deve portare a un simultaneo conflitto con l’Occidente».

Il Fuhrer, infatti, era convinto che, nonostante le garanzie date e più volte reiterate, la Francia e la Gran Bretagna, per mantenere la pace in Europa e per non mettere a repentaglio il loro vasto impero, alla fine avrebbero abbandonato la Polonia al proprio destino. Da parte occidentale, al contrario, si sperava che la politica della fermezza posta in essere sarebbe servita per scoraggiare Hitler dall’«azzardo», costringendolo in qualche modo a trattare con la controparte. «Questa speranza — scrive Overy — per quanto oggi possa sembrare vana, è stata un leitmotiv piuttosto insistente lungo tutta la crisi, fino allo scoppio della guerra. Entrambe le parti disponevano di informazioni che sembravano confermare il sospetto che all’ultimo momento gli altri avrebbero ceduto» (5).

La diplomazia vaticana e la guerra

Già durante la primavera del 1939, dopo l’occupazione di Praga e l’annessione del territorio dei Sudeti, che avevano dato nuova spinta alle ambizioni di conquista di Hitler, determinato a riunificare in una grande nazione tutte le popolazioni di lingua e di stirpe germanica, la prospettiva di una nuova guerra tra le grandi potenze europee diventava poco alla volta una triste realtà.

Mentre fra i principali attori implicati nella delicata vicenda si svolgeva una snervante battaglia diplomatica volta a evitare il peggio, coloro che avevano a cuore le sorti della pace, come il papa Pio XII e il presidente statunitense Franklin D. Roosevelt, cercavano con i mezzi a loro disposizione di incoraggiare le parti a trovare una soluzione di compromesso e a non lasciarsi vincere dalla tentazione della guerra. Pio XII, divenuto Pontefice appena un mese prima, nel discorso di Pasqua (9 aprile) parlò della pace e dei pericoli che la minacciavano.

Spiegò come «le turbolenze dell’ora presente sembrassero foriere di mali ancora più gravi», le cui radici andavano cercate nella miseria di molti, «nella mancanza di mutua compassione tra le nazioni, nella violazione dei patti sanciti e della parola data» (6) Si faceva così velatamente allusione a fatti che tutti in quel momento sapevano interpretare.

Il messaggio pontificio ebbe una forte eco anche fuori del mondo cattolico, come risulta dai dispacci inviati dai Nunzi in vari Paesi. Le parole del Papa furono ascoltate con parti­olare attenzione dal Presidente degli Stati Uniti, che vedeva nel nuovo Pontefice un prezioso alleato della sua «strategia di pacificazione tra le bellicose potenze europee».

Egli, pochi giorni dopo il discorso del Papa, inviò a Hitler e a Mussolini un messaggio nel quale invitava i due dittatori a desistere dalle loro mire espansionistiche, che minacciavano una pace faticosamente raggiunta, e li invitava a impegnarsi per un periodo di dieci anni a mantenere lo status quo in Europa e a non attaccare nessuna delle 31 nazioni, espressamente menzionate nel messaggio, e a risolvere eventuali divergenze attraverso negoziati paritetici.

Dalla documentazione vaticana, in gran parte riportata negli Actes et Documents, risulta che il presidente Roosevelt, per mezzo del sottosegretario di Stato agli Esteri Summer Welles, sollecitò l’appoggio del Papa al suo messaggio. Il delegato apostolico a Washington, mons. Amieto Cicognani, si affrettò a comunicare il 15 aprile alla Segreteria di Stato vaticana la richiesta del Presidente statunitense, affermando: «II presidente degli Stati Uniti Sig. Roosevelt prega rispettosamente Sua Santità di considerare se gli è possibile far pervenire ai Signori Hitler e Mussolini, qualora lo ritenga opportuno, un suo augusto incoraggiamento» (p. 112). La stessa richiesta fu portata in Vaticano anche da mons. Fontanelle a nome dall’ambasciatore di Francia.

Il Segretario di Stato, card. Luigi Maglione, tre giorni dopo rispose a mons. Cicognani che il Papa «è spiacente di non poter, in vista delle relazioni ora esistenti fra la Santa Sede e la Germania, intervenire direttamente presso il Fuhrer per appoggiare il tentativo fatto dal Sig. Roosevelt in favore della pace, tentativo che il Santo Padre segue con attenzione» (p. 114); quanto a Mussolini, confessava di averlo già fatto, ma di non nutrire grandi speranze a tale proposito.

Tale risposta fu accolta dal Presidente statunitense e dal suo entourage con una certa sorpresa. Il sottosegretario Welles, dopo aver letto la Nota vaticana disse: «Qui non si può credere che qualche pubblica manifestazione del Papa in favore del messaggio di pace non avrebbe i più benèfici effetti in tutto il mondo. Nutro la ferma fiducia che un’ulteriore considerazione possa essere data a questa possibilità» (p. 115).

E’ chiaro che in quel momento nell’amministrazione statunitense il ruolo del Papa nella politica europea venisse volutamente sopravvalutato (7): a partire da Versailles, dove la Santa Sede (su richiesta del Governo italiano) non fu invitata a partecipare al tavolo dei negoziati di pace, il ruolo della diplomazia vaticana perse terreno in materia politica nella nuova Europa e si concentrò soprattutto nei problemi di natura ecclesiastica o religiosa, come, ad esempio, la stipulazione di nuovi Concordati con gli Stati.

Da parte sua la Santa Sede, a partire da Benedetto XV, aveva scelto di rimanere neutrale nelle questioni di carattere politico-territoriale, che in quegli anni di esasperato nazionalismo continuavano ad agitare gli Stati, e di adoperarsi soltanto per difendere la pace tra le nazioni e piuttosto aiutare ovunque le vittime della guerra.

I rapporti con la Germania di Hitler poi erano andati progressivamente deteriorandosi, a motivo della forte denuncia pronunciata da Pio XI contro il nazionalsocialismo e la politica anticattolica, anticristiana e antisemita adottata dal Terzo Retch. A partire dal 1935 — scriveva in Segreteria di Stato il nunzio Orsenigo — le Note di protesta inviate al Governo del Reich dalla Santa Sede non venivano minimamente prese in considerazione; eppure le parole del Papa (in particolare i radiomessaggi) anche in questo Paese, nonostante la censura, erano attentamente ascoltate e, a quanto pare, non soltanto dai cattolici.

Diversa era invece la situazione in Italia; qui gli appelli del Pontefice avevano una forte eco sia nei cattolici sia anche nel Governo fascista. Mussolini, per ragioni politiche, era molto sensibile alle richieste e alle denunce vaticane e in diverse occasioni si era anche prestato a fare (inutilmente) da intermediario tra la Santa Sede e il Terzo Reich per appianare gli insanabili motivi di contrasto esistenti tra le due parti. Di fatto, le riserve espresse dal Vaticano a tale riguardo erano più che giustificate: il 28 aprile davanti al Reichstag, Hitler parlò in modo molto duro nei confronti della Polonia: denunciò l’accordo navale anglo-tedesco e rispose con sarcasmo al messaggio inviatogli dal Presidente degli Stati Uniti.

Nonostante le accennate riserve, Pio XII in ogni caso non lasciò cadere nel vuoto la richiesta del presidente Roosevelt e di altre persone «di buona volontà», tra cui gente semplice, che chiedevano al Papa di fare il possibile per scongiurare una guerra. Nella mente del Pontefice andò via via maturando l’idea di inviare un messaggio alle Potenze europee tra le quali esistevano contenziosi aperti — cioè Francia, Gran Bretagna, Italia, Germania e Polonia — invitandole a una Conferenza per risolvere in essa «le questioni che minacciavano di accendere il terribile incendio».

Prima, però, intendeva tastare il terreno e sapere se Mussolini avrebbe gradito un intervento del Pontefice su una materia così delicata, e se la Germania, con la quale il Duce era in ottimi rapporti (di lì a poco, infatti, il 22 maggio, sarebbe stato firmato a Berlino il «Patto d’acciaio» tra le due Potenze totalitarie), avrebbe aderito alla Conferenza. Il 21 aprile il p. Pietro Tacchi Venturi fu incaricato di recarsi a palazzo Venezia per informare il Duce sulla proposta pontificia. L’udienza fu accordata all’inviato papale il 1 maggio, alle ore 20. Dalla relazione del gesuita sappiamo che Mussolini dopo aver attentamente ascoltato la proposta della Santa Sede congedò il gesuita, fissandogli un’udienza per l’indomani.

«Le mie parole — annotava p. Tacchi Venturi — riuscirono visibilmente gradite all’on. Mussolini che, fattosi nel sembiante ancora più grave, mi rispose in questi precisi termini: “Trattasi di cosa seria che va ben ponderata, ora è tardi e ho bisogno di un giorno per pensarci su”» (p. 118). Subito dopo aggiunse, come parlando a se stesso: «La Germania non può illudersi che le riesca di fare con la Polonia ciò che le è riuscito con gli altri senza spargimento di sangue; la Polonia resisterà; sarà sopraffatta dalla prevalenza e forza tedesca e avremo una guerra europea» (p. 119).

Il giorno dopo il gesuita ricevette la risposta definitiva del Duce, il quale si dichiarava d’accordo con il Papa, aggiungendo che «tale iniziativa avrebbe incontrato l’approvazione di tutto il mondo civile». Mussolini suggeriva l’invio di uno stesso messaggio, «fatto indistintamente ai capi delle cinque Potenze, senza preferenza alcuna». «Ho domandato al Duce — scriveva il gesuita nella relazione del 2 maggio — che cosa credeva avrebbe fatto Hitler; e mi rispose che tendeva a credere che non lo avrebbe rifiutato». Poi aggiunse che sarebbe stato utile già dall’inizio della Conferenza fissarne lo scopo: comporre pacificamente le questioni che tengono «in disaccordo la Germania e la Polonia, la Francia e l’Italia e le altre cose che da queste dipendono» (p. 119).

Il 3 maggio in Segreteria di Stato furono preparati i telegrammi poi inviati alle Nunziature Apostoliche di Parigi, Berlino e Varsavia e alla Delegazione di Londra. Essi, a firma del cardinale Maglione, recitavano: «Prego V. E. di comunicare urgentemente a codesto Governo che il Santo Padre, profondamente angustiato per l’accresciuto pericolo di una nuova guerra, intende invitare l’Italia, la Francia, la Germania, la Polonia e la Gran Bretagna a trovare una soluzione, in una Conferenza a cinque, a quelle questioni che espongono al pericolo di scatenare la guerra. […] il Santo Padre proporrebbe, come fine della Conferenza, la composizione pacifica di quei problemi che separano tra loro la Francia e l’Italia, la Germania e la Polonia, nonché degli altri problemi da essi dipendenti». Nel telegramma inviato alla Nunziatura polacca fu aggiunto che alla causa della pace «avrebbe potuto portare un prezioso contributo l’uso di espressioni calme e moderate nel discorso che il ministro degli esteri doveva prossimamente tenere» (p. 120).

L’iniziativa pontificia ottenne, come previsto, anche l’appoggio del Governo statunitense. Infatti, il 9 maggio l’ambasciatore degli Stati Uniti presso il Quirinale, conversando con un prelato della Segreteria di Stato, affermò che «un intervento della Santa Sede per convocare una Conferenza pacificatrice avrebbe incontrato generale approvazione e incoraggiamento a Washington e negli Stati Uniti e avrebbe offerto al mondo tormentato dalla paura della guerra la speranza di un domani più felice». Affermò inoltre: «Essendo al di sopra delle questioni di interesse che mettono a presa le nazioni, la Santa Sede è forse l’unica Potenza che possa ispirare fiducia nella sua neutralità» (p. 137).

Queste affermazioni provenienti da un rappresentante di una nazione neutrale e potente, quali erano gli Stati Uniti, furono molto gradite in Vaticano. Di fatto, subito dopo, il Delegato Apostolico a Washington fu incaricato di portare ufficialmente a conoscenza del presidente Roosevelt l’iniziativa pontificia sulla Conferenza di pace. Il Presidente assicurò il suo pieno appoggio all’iniziativa del Papa.

Il sottosegretario Welles, commentando il fatto, disse che «pur prescindendo dai risultati dei tentativi di produrre una Conferenza di nazioni, gli sforzi del Santo Padre sono stati del più alto valore, non soltanto a motivo della sua enorme influenza, ma perché tali sforzi furono fatti nel momento in cui la tensione internazionale era tanto grave».

Non tutti però su questa materia erano dello stesso parere del sottosegretario, e l’iniziativa, pur nata sotto i buoni auspici dell’amministrazione statunitense, ebbe difficoltà a concretizzarsi a causa delle disparità di vedute delle potenze europee.

La proposta pontificia fu comunicata a Hitler dal nunzio Orsenigo il 5 maggio, mentre soggiornava a Berchtesgaden nei pressi di Salisburgo. Il Nunzio, su richiesta del Fuhrer, fu trasferito in aereo da Berlino fino alla residenza di montagna e trattato come un ospite di eccezione: Hitler, saputo che il prelato doveva comunicargli un messaggio del Papa su una materia concernente la politica internazionale, si mostrò con lui insolitamente premuroso e attento.

Ascoltate con deferenza le parole del Nunzio, lo incaricò di ringraziare il Papa per il suo interessamento per la causa della pace. Parlò poi in tono calmo e preciso della situazione europea, disse che tra Italia e Francia non c’erano motivi seri per scatenare una guerra. «Per quanto riguarda me — si legge nella relazione di mons. Orsenigo — io non ho fatto alcuna richiesta alla Francia […]. Con la Polonia ho disdetto il patto del 1934 […], ma questo non significa la guerra da parte mia. Infatti per quanto riguarda Danzica, questa è città libera, affidata alla Società delle Nazioni; si potrà discutere, trattare circa questo assetto di Danzica, ma non è detto che si arrivi perciò alla guerra» (8).

Dopo aver parlato della Polonia, trattò in tono concitato della politica internazionale condotta dalla Gran Bretagna, affermando che tutti i mali attuali provenivano da questo Paese che «aizza i popoli alla guerra». Il Nunzio ascoltò ogni cosa in silenzio e annotò che sulla questione polacca Hitler gli era sembrato inaffidabile e che in ogni caso non condivideva «le ottimistiche vedute del cancelliere» sui problemi sollevati. Hitler dichiarò «di non avere nessun timore della Polonia e di non volerla da parte sua aggredire, “salvo insulse provocazioni polacche”, ma che tuttavia egli si è ben fortificato e sta fortificandosi ancora nei suoi confini orientali» (p. 131).

In sintesi, nonostante le parole di circostanza, Hitler nella sostanza riteneva inutile una Conferenza di pace. Questa infatti avrebbe potuto costringerlo a bloccare o rimandare il suo progetto su Danzica; cosa che non desiderava affatto.

Anche le potenze democratiche, cioè la Francia e la Gran Bretagna, che avrebbero dovuto essere le maggiori sostenitrici dell’azione pontificia, accolsero con un certo scetticismo e riserbo il progetto di una Conferenza di pace. Il Nunzio a Parigi, mons. Valeri, in un telegramma del 5 maggio coglie alla perfezione gli umori del Governo francese circa la proposta papale: «Ministro Esteri ha confermato riserva Governo circa messaggio. Essa pure non significando rifiuto fa questioni opportunità; Ministero Esteri desidererebbe autorità Santa Sede rimanesse intatta per momento in cui potrebbe essere ultima àncora di salvezza. Desidererebbe sapere, onde meglio regolarsi, quale risposta hanno dato Inghilterra e Polonia» (p. 124).

Anche il Governo britannico, pur apprezzando l’iniziativa del Papa, prima di dare una risposta impegnativa intendeva conoscere il punto di vista della Francia e della Polonia sulla delicata questione. Lord Halifax, ministro degli Esteri inglese, «sarebbe pure desideroso — è scritto nella relazione inviata dal Delegato Apostolico — di sapere se Sua Santità abbia qualche idea o suggerimento per quanto riguarda il luogo dove la proposta conferenza dovrebbe riunirsi, chi dovrebbe presiederla e se si pensi di tenerla in Roma sotto gli auspici del Vaticano, o nella Città del Vaticano» (p. 128).

Egli chiedeva inoltre che anche gli Stati Uniti venissero fatti partecipi dell’iniziativa pontificia. Cosa che già si era provveduto a fare. Anche la Polonia diede un parere negativo alla proposta della Santa Sede. Essa temeva, infatti, che la Conferenza si risolvesse in un insuccesso, rendendo così più grave il pericolo della guerra. Da parte di Varsavia si sarebbe preferito che Pio XII offrisse i suoi «buoni uffici» per favorire incontri separati, come poi di fatto avvenne (cfr p. 139).

Il primo vero e proprio ostacolo alle iniziative pontificie venne però dalle potenze totalitarie. Nell’incontro che si svolse a Milano il 7 maggio tra i due ministri degli Esteri di Italia e Germania, il conte Ciano e von Ribbentrop, tra le altre cose si parlò del progetto della Conferenza di pace auspicata dal Papa e si decise di non dare corso alla proposta.

La comunicazione fu data, a nome dei due ministri, dall’ambasciatore d’Italia, conte Pignatti di Custoza, al cardinale Segretario di Stato. «I due ministri — si legge nella Nota — concordi nell’apprezzare sommamente l’intenzione manifestata dal santo Padre di proporre un conferenza delle cinque Potenze, hanno constatato l’avvenuto miglioramento della situazione internazionale e ritenuto che una Conferenza delle cinque Potenze sarebbe ora prematura e, a ogni modo, non necessaria». L’ambasciatore aggiungeva che il passo della Santa Sede aveva in qualche modo già raggiunto il suo effetto, quello cioè «di chiarire e far migliorare la situazione internazionale» (p. 138).

L’Europa verso la catastrofe

Terminate le consultazioni con i «cinque», la Segreteria di Stato vaticana il 15 maggio diramò un memorandum diretto ai propri rappresentanti diplomatici, perché ne trasmettessero il contenuto ai rispettivi Stati presso i quali erano accreditati; in esso si diceva: «I passi fatti dalla Santa Sede per conoscere i sentimenti di questi Governi e per creare un’atmosfera internazionale migliore hanno avuto un certo successo. Di fatto la Santa Sede ha l’impressione che i Governi consultati sono abbastanza ben disposti verso la pace e contrari ad entrare in guerra. Vi è pure un notevole miglioramento nella situazione generale e una Conferenza non sembra necessaria al presente» (9).

Il comunicato insomma, nonostante il suo tono ottimistico e le frasi di circostanza, indicava in modo indiretto ma chiaro che il tentativo fatto dalla Santa Sede per una conferenza di pace che affrontasse, su un piano di parità, le questioni oggetto di contesa tra gli Stati, era praticamente fallito. Tale incontro, infatti, non era voluto né dai Paesi democratici, che temevano si potesse ripetere l’esperienza di Monaco, rendendo in tal modo inevitabile il ricorso alla guerra, né dalle potenze totalitarie, in particolare la Germania, che non intendeva vincolarsi in alcun modo, ma mantenere «le mani libere su Danzica» e avere la possibilità di espandere a Est il proprio «spazio vitale».

Sfumato il vertice a cinque, rimaneva aperta una via, quella dei «buoni uffici», tesi a favorire i colloqui diretti sia tra la Germania e la Polonia sia tra la Francia e l’Italia. Di fatto nei mesi successivi, quelli cioè immediatamente precedenti allo scoppio della guerra, la diplomazia vaticana fu attiva in tale direzione. Da un lato essa, su richiesta del ministro degli Esteri italiano, intervenne ripetutamente per esortare il Governo polacco alla prudenza e alla moderazione nelle sue dichiarazioni pubbliche; dall’altro, su invito dei rappresentanti di Francia e Gran Bretagna, comunicava all’Italia (perché ne informasse l’alleato tedesco) che le potenze democratiche avrebbero onorato le loro «garanzie» offerte alla Polonia, se Hitler avesse avuto in mente di occupare Danzica.

Da parte sua la Santa Sede, sopravvalutando l’ascendente di Mussolini su Hitler, faceva eccessivo affidamento sui «buoni uffici» dell’Italia presso il Governo del Reich, nella speranza che potesse svolgere un’azione moderatrice sul Fuhrer. Ciano a tale riguardo assicurò la Santa Sede che la Germania non si sarebbe mossa senza il consenso italiano. Di fatto, però, le cose andarono diversamente, e Hitler non si curò minimamente della posizione di Mussolini sulla guerra; anzi la politica italiana da questo momento in poi andò, come si disse, a «rimorchio di quella tedesca».

Come è noto, la situazione nell’estate del 1939 andò velocemente deteriorandosi: la Germania da parte sua intendeva a tutti i costi portare avanti i propri piani di conquista. Per essere sicuro di isolare la Polonia, Hitler autorizzò un avvicinamento con l’Unione Sovietica, nonostante che sul piano ideologico Stalin fosse il suo maggior nemico. In quel periodo anche le potenze democratiche avevano preso contatto col dittatore sovietico; tuttavia le trattative andarono a rilento e con poca convinzione, anche per l’opposizione della Polonia a un accordo con Stalin.

Come è stato più volte ripetuto in sede storica, questo fu un tragico errore strategico di cui si avvantaggiò Hitler. Il 22 agosto von Ribbentrop volò a Mosca e convinse il dittatore russo dell’utilità di un accordo con la Germania. Alle prime ore del 24 fu sottoscritto dai ministri degli Esteri dei due Paesi un patto attraverso il quale l’Unione Sovietica si impegnava a non intervenire contro la Germania.

Fu anche sottoscritto un protocollo segreto in base al quale i due Stati si spartivano la Polonia e gli Stati baltici, delimitando i loro ambiti di influenza. Il «Patto Motolov-Ribbentrop» fu salutato da Hitler come un vero trionfo sul piano diplomatico; d’ora in avanti non c’era più alcun ostacolo per la guerra contro la Polonia. Bisognava però sperare, come si illudeva Hitler, che la Gran Bretagna rimanesse fuori dalla contesa. Intanto Hitler il 24 agosto, dopo il successo dei negoziati con l’Unione Sovietica, ordinò l’attacco alla Polonia per la mattina del 26 agosto.

I Governi occidentali, attraverso i loro informatori segreti, erano venuti a conoscenza del piano di attacco del dittatore tedesco. Anche in questo momento, sebbene il libro di Overy non ne faccia cenno, l’attività della diplomazia vaticana fu mobilitata per impedire in limine litis lo scoppio del conflitto. Nella mattina del 24 agosto, gli ambasciatori delle Potenze democratiche, allarmati per quanto stava accadendo, informarono la Santa Sede sugli avvenimenti in corso e chiesero al Papa una condanna esplicita dell’aggressione di un Paese cattolico da parte della Germania.

«Alle ore 9,45 — si legge in una Nota di mons. Tardini — viene l’ambasciatore di Francia. Vede la situazione gravissima. Oggi o domani, secondo lui, Hitler aggredirà la Polonia. Vorrebbe che il Santo Padre condannasse l’aggressione di un Paese cattolico». Subito dopo l’ambasciatore della Gran Bretagna portò il sunto della lettera che il giorno precedente il primo ministro Chamberlain aveva fatto consegnare a Hitler (10).

«Alle 11,30 — continuava Tardini — viene il segretario dell’ambasciata d’Italia. Mi dice che il patto russo-tedesco toglie all’Italia la possibilità di intervenire per frenare Hitler. Questi ormai è sicuro all’est. Non vede come si possa evitare la guerra. Alle 12,30 viene l’ambasciatore di Polonia. Assicura che la Polonia non ha mai confidato nell’aiuto della Russia. Si opporrà alla violenza e resisterà all’aggressore. Desidererebbe che il Santo Padre condannasse l’aggressione» (p. 240).

In quello stesso giorno, dietro il precipitare degli avvenimenti, in Segreteria di Stato si lavorava per approntare il testo del radiomessaggio pontificio nel quale alcuni scorgevano l’ultimo tentativo per evitare la guerra. Furono preparati almeno quattro testi diversi; il Papa alla fine scelse quello redatto dal Sostituto mons. Giovanni Battista Montini, apportandovi però correzioni di proprio pugno. La sera di quello stesso drammatico giorno, alle ore 19, il Papa, dai microfoni della Radio Vaticana, rivolgeva al mondo il suo messaggio invitando gli Stati europei interessati a continuare il negoziato e a fare ogni sforzo per salvare la pace.

«È con la forza della ragione, non con quella delle armi che la giustizia si fa strada. E gli imperi non fondati sulla giustizia non sono benedetti da Dio; la politica emancipata dalla morale tradisce quegli stessi che così la vogliono. Imminente è il pericolo, ma è ancora tempo. Nulla è perduto con la pace, tutto potrà esserlo con la guerra». Il radiomessaggio pontificio fu ascoltato con grande attenzione e commozione in ogni parte del mondo e fu molto apprezzato dai Governi degli Stati democratici, che inviarono in Vaticano i loro rappresentanti per ringraziare il Papa (11).

Come è noto l’invasione della Polonia, fissata per il 26 agosto, all’ultimo momento fu rimandata. Come mai all’improvviso Hitler cambiò idea? Overy pone in relazione tale decisione con quanto era accaduto due giorni prima a Mosca. Hitler sperava che il patto, firmato dalle due superpotenze totalitarie, provocasse il collasso dell’asse franco-polacco-britannico e «permettesse ai tedeschi di lanciare un fortunato attacco fulmineo e limitato alla Polonia, a cui l’Occidente non avrebbe reagito con efficacia».

Eppure Hitler, come dimostra anche la documentazione vaticana, sapeva con certezza che le potenze democratiche sarebbero in ogni caso intervenute e che avrebbero onorato il loro impegno a difendere la Polonia e Danzica. A nostro avviso, tra i motivi che spinsero il dittatore tedesco a rimandare, anche se di poco, l’attacco alla Polonia, ci fu anche il radiomessaggio papale: all’appello di Pio XII, commenta il p. Blet, «seguì una pausa nella corsa verso il baratro»  (12).

Hitler attaccando la Polonia il 26 agosto senza tentare un ultimo sforzo per evitare una guerra generale, dopo il duro monito dell’appello papale, si sarebbe addossato davanti all’opinione pubblica mondiale tutta intera la responsabilità di una guerra disastrosa di dimensioni mondiali. Ma di questo lo storico inglese non fa minimamente cenno, né tanto meno fa riferimento al grande sforzo posto in essere dalla diplomazia vaticana, nei mesi di cui si è parlato, per salvare la pace ed evitare che il mondo civile precipitasse nel baratro della guerra.

Purtroppo, ancora oggi, una parte della letteratura storica, per partito preso o per motivazioni di ordine ideologico — trascurando anche il dato documentale — tende a svalutare o a disconoscere il ruolo etico-politico che la Santa Sede svolse sulle tristi vicende che segnarono la storia europea di quei difficili anni.

Note

1) Cfr R. OVERY, Sull’orlo del precipizio. 1939. I dieci giorni che trascinarono il mondo in guerra, Milano, Feltrinelli, 2009. Tra i suoi lavori tradotti in italiano ricordiamo Interrogatori: come gli Alleati hanno scoperto la terribile realtà del Terzo Reich, Milano, Rizzoli, 2003.

2) Cfr Actes et Documents du Saint Siège relatifs a la seconde guerre mondiale, vol. I, Città del vaticano, Libr. Ed. Vaticana, 1964. L’opera iniziata nel 1964 su richiesta di paolo VI e affidata a quattro storici gesuiti, è composta di 11 volumi. In questo artico lo faremo riferimento soltanto al primo volume, che d’ora innanzi citeremo nel testo, indicando il numero di pagina. Su tale materia si veda: P. BLET, Pio XII e la Seconda Guerra Mondiale negli Archivi Vaticani, Cinisello Balsamo (Mi), San Paolo, 1999, 21 s.

3) R. OVERY, Sull’orlo del precipizio…, cit, 12.

4) In realtà, il partito nazionalsocialista, già subito dopo l’ascesa di Hitler al potere, godeva a Danzica di un forte seguito popolare: nel Parlamento cittadino conquistò 38 dei 72 seggi disponibili, i quali negli anni successivi aumentarono progressivamente. Nel 1938, sfidando l’autorità dell’Alto Commissario, il Parlamento cittadino, ormai in mano ai nazionalsocialisti, introdusse le leggi di Norimberga del 1935, che negavano i diritti civili agli ebrei. All’inizio del 1939 la quasi totalità della popolazione tedesca, manipolata dalla propaganda nazista, chiedeva il ritorno della città al Terzo Reich, e lo stesso Hitler ne chiedeva, in modo sempre più deciso, l’immediata annessione. Il 24 ottobre 1938 il ministro degli Esteri tedesco G. von Ribbentrop, durante una cena, esprese chiaramente all’ambasciatore polacco J. Lipski il desiderio del Fuhrer di «reintegrare» Danzica nei confini della Germania e di aprire negoziati tra i due Paesi a tale riguardo. Proposta che fu energicamente respinta dal Governo polacco. Il 24 novembre 1938 Hitler diede ordine alle forze armate di approntare un piano per occupare militarmente la città baltica (ivi, 17); J. RAY, La seconda guerra mondiale, Roma, Newton Compton, 2002, 42; D. C. WATT, How War Came: The Immediate Origini ofthe Second World War, London, Pantheon Books, 1989, 43.

5) R. OVERY, Sull’orlo del precipizio…, cit, 20.

6) «Omelia pasquale del Santo Padre», in Civ. Catt. 1939 II 195.

7) Cfr H. H. TlTTMANN, Il Vaticano di Pio XII. Uno sguardo dall’interno, Milano, Corbaccio, 2005, 9.

8) ARCHIVIO SEGRETO VATICANO – AFFARI ECCLESIASTICI STRAORDINARI (ASV- AES), Italia, 602, 32.

9) Ivi, 72

10) II 24 agosto, alle 10,30, fu portato in Segreteria di Stato dal rappresentante presso la Santa Sede del Governo inglese, G. D’Arcy Osborne, un comunicato che diceva: «II Primo Ministro ha scritto al Sig. Hitler, a nome del Governo di Sua Maestà, nella speranza di poterlo convincere anche al punto in cui oggi si trovano le cose, che il Governo di Sua Maestà resisterà con la forza a ogni tentativo di imporre con le armi una soluzione del conflitto tra Germania e Polonia» (p. 239). Aggiunse, inoltre, che sarebbe un grande sbaglio pensare che la guerra, una volta iniziata, terminerebbe con «la vittoria di uno solo dei fronti». E concludeva invitando la Germania a «collaborare per la creazione delle condizioni» necessarie per avviare negoziati paritetici. L’ambasciatore, inoltre, esprimendo la posizione del suo Governo, chiese che il Papa lanciasse un appello in difesa della pace. Questo, si pensava, avrebbe fatto apparire più iniquo agli occhi del mondo l’aggressore al momento dell’attacco. Cfr W O. CHADWICK, Gran Bretagna e Vaticano durante la Seconda Guerra Mondiale, Cinisello Balsamo (Mi), San Paolo, 2007, 115.

11) In ogni caso, anche negli ultimi giorni precedenti l’«aggressione», la diplomazia vaticana lavorò incessantemente per evitare lo scoppio della guerra. Il Segretario di Stato, dopo il radiomessaggio papale, inviò un cifrato al Nunzio a Berlino comunicandogli che il Papa «nella sua paterna sollecitudine è disposto a fare ogni tentativo per impedire la guerra». E chiedeva «se eventuale passo Santo Padre circa “armistizio per quanto riguarda minoranze” sarebbe bene accolto in Germania» (p. 242). A tale proposta il Nunzio, il 25 agosto, rispose col seguente cifrato: «Hitler accennava nota conversazione esigenza vitale Germania et specialmente provocazione per eccidi di tedeschi» (p. 243). Di fatto la propaganda di regime preparò la popolazione tedesca all’aggressione della Polonia del 1 settembre portando motivazioni di tale tipo, alle quali in realtà, fuori del Reich, nessuno credeva.

12) P. BLET, Pio XII e la seconda guerra mondiale…, cit, 38.