Un anno nelle celle dell’Isis

L’Espresso n.52 24 Dicembre 2017

Il racconto di Maryam, rapita dai jihadisti con altri 200 cristiani assiri a Rqqa e poi tenuta prigioniera in un sotterraneo

 testo e foto di Linda Dorigo da Raqqa

Un anno, un mese e cinque giorni. Maryam scandisce con voce ferma il tempo della sua prigionia sotto l’Isis a Raqqa. A guardarla, così piena di vita, viene da chiedersi quanta forza debba avere la sua esile figura per superare un dramma così potente. Catturata a febbraio 2015 nella valle di Khabur, nel nord-est della Siria insieme ad altri duecento cristiani assiri, la ragazza è stata l’ultima a essere liberata da un nascondiglio sotterraneo di Raqqa.

Il merito è di Mar Afram Athneil, un vescovo siriano che ha raccolto milioni di dollari tra le comunità cristiane di tutto il mondo per riportare a casa gli ostaggi. Il vescovo non rilascia dichiarazioni finché anche l’ultima ragazza – una quattordicenne fatta sposare a un combattente dell’Isis – non sarà liberata. Ricordando quanto fatto da Oskar Schindler per salvare il maggior numero di ebrei dall’Olocausto, Mar Afram ha venduto anche la sua croce d’oro in cambio di un trattamento di riguardo per i suoi fedeli, compresi cibo e vestiti durante la prigionia. Ha lavorato nell’ombra e non vuole rendere nota la cifra che è riuscito a raccogliere

«Da quando Maryam ha ripreso a sorridere», commenta il suo amico George, «nessuno è più capace di negarle qualcosa». Il sorriso le dona un’aura di intoccabilità, quasi che fosse capace di costruirle tutto intorno una protezione dal mondo esterno. Ma dietro a quegli occhi scuri, spalancati in una costante espressione tra l’interrogativo e l’ironico, c’è ancora il ricordo della notte in cui l’Isis è entrato nel suo villaggio di Tel Shamiram.

«Era mattina», ricorda Maryam, «abbiamo provato a scappare ma il fiume era in piena ed eravamo circondati. Hanno catturato mio padre mentre io e mia mamma ci siamo nascoste a casa di un vicino. Dopo un paio di giorni siamo state scoperte e portate a Shaddadi». Nel villaggio a una cinquantina di chilometri dalla città di Hassakeh, uomini e donne sono stati separati. Maryam e sua madre sono finite in una casa di tre stanze con altre 40 donne. «Eravamo controllate in continuazione e i nostri carcerieri non volevano che pregassimo. Però non ci facevano mancare nulla. Mangiavamo i polli e le verdure dell’orto».

Dopo cinque mesi a Shaddadi sono state trasferite a Raqqa. In un primo momento le prigioniere erano ancora tutte insieme, poi Maryam è stata messa in isolamento mentre le sue ex compagne di cella venivano liberate una a una: «Non immaginavo che nel frattempo avessero liberato tutte le altre. Se me lo avessero detto probabilmente mi sarei uccisa».

Dalla sua cella umida Maryam non vedeva mai la luce del sole, così si fingeva ammalata per andare in ospedale e uscire all’aperto. Durante la prigionia, la ragazza non ha mai subito violenze fisiche. Anche grazie alla trattativa di Mar Afram, non è stata trasformata in una schiava sessuale né data in moglie a combattenti sotto l’effetto di droghe.

I carcerieri però hanno provato diverse volte a convertirla. «Uccidimi piuttosto, o riportami dalla mia famiglia», rispondeva lei. Tra gli uomini dell’lsis che Maryam ricorda c’era Abu Zinab, un uomo gentile che «mi ha fatto promettere di coprire sempre il volto per non attirare l’attenzione degli altri combattenti». Dal canto suo le avrebbe reso la vita più facile spacciandola per una sua fidanzata, ancora troppo giovane per sposarsi. Il cibo era sempre abbondante: patate, carne, riso, dolci. Era Ishak a passarglielo attraverso la grata, «lo faceva cadere a terra per non toccarmi le mani».

A gambe incrociate sul divano, Maryam apre un piccolo portagioie dove conserva gli oggetti della sua reclusione. Tre pezzi di Lego colorati con cui giocava durante le interminabili giornate di solitudine, l’anello a forma di cuore della figlia tredicenne del carceriere Abu Osama, e le preghiere scritte a mano da un’altra prigioniera, donatele appena arrivate a Raqqa. La mattina della sua liberazione, Maryam pregava tenendo stretti tra le mani quei fogli usurati da tanti mesi di attesa e speranze.

«Sorridi dal cuore», le disse Abu Zinab dopo aver bussato alla sua cella, «ti portiamo dalla tua famiglia, ci mancherai». Poi andò a pregare e tornò a prenderla due ore dopo. Al suono di quelle parole Maryam rinacque. Era luglio 2016 e aveva da poco compiuto sedici anni.

Ci sono voluti due mesi per tornare a vivere normalmente. All’inizio Maryam si nascondeva in casa e usciva solo per andare a messa. Un giorno, a casa di suo cugino, ha conosciuto Aodesho e si sono innamorati. A nulla è valso il parere contrario dei suoi genitori: si sono sposati di nascosto, aiutati dagli amici nella loro fuga d’amore. «Gli abbiamo procurato una macchina e una casa dove vivere», racconta George, «sapevamo che Maryam era troppo giovane per sposarsi, ma se fosse rimasta a casa dei suoi genitori non si sarebbe mai ristabilita. Lì c’è ancora troppa sofferenza».

Sotto l’uniforme del figlio defunto che Daoud indossa come una reliquia, si nasconde l’animo di un padre distrutto. Non trae in inganno la sua vigorosa stretta di mano: lui e sua moglie non hanno mai superato la tragedia. Nella casa di Tal Tamr dove vivono con il figlio Ziea, aleggia il fantasma di Bassel, un altro fratello ucciso dall’lsis. A lui è dedicata la base militare del Syriac Military Council-Smc, la formazione cristiana che fa parte dell’alleanza militare che ha liberato Raqqa e il Nord della Siria dall’lsis, le Forze Democratiche Siriane-Sdf.

La mattina in cui torniamo a Raqqa, Maryam non sa come vestirsi. Prova un paio di salopette e decide di indossare gli stivali più caldi e comodi che ha. Tratteggia una linea di eyeliner sopra la palpebra e a testa in giù raccoglie la chioma arrotolandola in un chignon d’altri tempi. Aodesho la prende in giro per quel gomitolo di capelli che gli sembra una ciambella. La sera prima Maryam ha acceso una candela, e si è addormentata guardando l’ombra della fiammella riflessa sul soffitto.

Questo è il suo primo viaggio a Raqqa dopo la scarcerazione. La città è stata riconquistata dall’lsis a metà ottobre, ma le mine disseminate nei luoghi più impensabili la rendono ancora un luogo di morte. Man mano che avanziamo dentro al centro silenzioso, Maryam ricorda l’ospedale – oggi accartocciato su se stesso – e il chiosco di succhi di frutta in Piazza Paradiso, la piazza delle esecuzioni, dove sotto all’insegna che ancora penzola lei e il suo carceriere erano soliti bere un frullato di banana. Maryam sembra nostalgica. È qui per riappropriarsi del suo passato, anche se ha già espresso con decisione la volontà di arruolarsi nelle Hbsn, le brigate femminili del Syriac Military Council-Smc. «Vuole vendicarsi per quanto le è successo», commenta Kino, portavoce del Smc.

I segni della cristianità di Raqqa sono sepolti sotto cumuli di macerie. Lungo Shara al-Thekena, vicino a quella che era Piazza dell’Orologio, si riconosce ancora lo spiovente di un piccolo santuario all’ingresso della chiesa siriaca Al-Beshara. Non c’è traccia invece della chiesa armena vicino al parco Rashid, trasformata dai miliziani in ufficio per la gestione degli affari islamici e per la promozione della Shari’a.

Dopo l’inizio del conflitto siriano, a Raqqa si contavano 23 famiglie cristiane, 5 dopo il 2014, contro le 1.500 presenti prima del 2011. Chi ha potuto lasciare la città lo ha fatto quasi subito e ha perso ogni possedimento. Chi è rimasto ha dovuto sottostare a una serie di imposizioni, come la Jizya, la “tassa di protezione” per vivere sotto il cosiddetto Stato Islamico. «200 mila lire siriane (330 € ndr.) all’anno», spiega Um Alias al telefono da Homs, dove è andata a vivere dopo la fuga da Raqqa, «e chi aveva dei figli anche di più».

Lei e suo marito sono stati gli ultimi evacuati dalla città il 15 ottobre scorso. La voce della donna si spezza quando ricorda il rapimento del marito: «Nessuno voleva darmi sue notizie finché un ragazzo dell’Isis mi disse di averlo visto. Così andai da loro, ma mi ignorarono. Gli permisero di uscire solo qualche giorno per operarsi agli occhi, poi lo riportarono in prigione fino all’anno scorso».

Nel frattempo Um Alias non usciva di casa per paura di essere importunata «Perché non ti converti?», le gridavano in strada, «andrai all’inferno». In quanto cristiana era obbligata a girare a capo scoperto e, come gli ebrei costretti a indossare la stella di David nella Germania nazista, i cristiani di Raqqa erano riconosciuti dalle scarpe: blu in un piede, rosse nell’altro.

Karis, che oggi vive ad Aleppo, non riesce a dimenticare gli incontri religiosi a cui erano obbligati a partecipare tutti i giorni: «Ci invitavano a discutere, ma poi non ci facevano parlare. Ricordo che un giorno gli dissi: «Potrete farci centinaia di lezioni. Ma siamo cristiani e moriremo cristiani».