Avrei voluto chiamarli tutti per nome…

La Nuova Europa

martedì 7 novembre 2017

Cent’anni fa la rivoluzione d’ottobre. Come risposta a una mentalità che ancora non accetta di giudicare se fu un bene o un male, in Russia è nata e cresce la memoria del totalitarismo. Un fatto non politico che risveglia le coscienze.

 di Marte Dell’Asta

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«Avrei voluto chiamarli tutti per nome.

Ma mi hanno tolto l’elenco e non so come fare…»

Anna Achmatova, Requiem

Il 30 ottobre in Russia è il Giorno della memoria, data scelta nel 1974, 43 anni fa, da alcuni prigionieri di coscienza in un lager sovietico, che la celebrarono con uno sciopero della fame, mentre i loro amici a casa accendevano una candela alla finestra. Per questo, tra l’altro, il logo dell’Associazione Memorial (che ha come suo compito primario la conservazione della memoria delle repressioni) rappresenta una candela accesa. Ora è una data ufficiale, riconosciuta anche dallo Stato.

L’idea di porre un monumento a perenne memoria delle vite spazzate via dal totalitarismo nacque tra i dissidenti durante la perestrojka, nel 1987, e tra i vari progetti c’era anche quello di riconfigurare l’immenso palazzo della Lubjanka, sede degli organi repressivi sin dal 1918, come museo-memoriale del terrore. Una grande idea ma irrealizzabile, il palazzo è tuttora perfettamente funzionante e l’opinione pubblica non aveva allora, come non ha oggi, la forza di ottenere una rinuncia così radicale dal governo.

Di fronte all’impossibilità si sono scelte strade minori, secondo la cultura tipica del dissenso che non ha mai aspettato cambiamenti e concessioni dall’alto; e tuttavia, queste strade minori hanno dimostrato di avere un’apertura di sguardo più larga, un’acutezza maggiore. Così, invece di riutilizzare la Lubjanka, o erigere un grande monumento contro il regime come atto di accusa e di opposizione, si è scelto di porre un simbolo più modesto, un masso erratico preso dalle isole Solovki sede di uno dei primi e più tremendi lager sovietici, come semplice memento delle vittime.

Come ha scritto Ol’ga Sedakova: «È la loro memoria che ci è indispensabile, secondo me, e non la denuncia dei carnefici… La memoria degli uccisi è più importante; è essa stessa una denuncia».

In ogni caso, anche questa strada minore ha richiesto enorme determinazione dal punto di vista burocratico e tecnico. A prezzo di grandi sforzi alcuni dissidenti sono riusciti ad ottenere i permessi e a trovare i mezzi tecnici necessari per trasportare a Mosca dal Mar Bianco, sul Circolo polare, il grande masso erratico.

Collocato sul lato sud di piazza della Lubjanka, nel centro di Mosca, il masso ha subito mostrato la sua enorme sproporzione rispetto al massiccio palazzo che gli sta di fronte e domina la piazza. Si contrapponevano anche visivamente l’attività a pieno regime di un’istituzione di controllo – ora si chiama FSB – che estende i suoi tentacoli ovunque, e un simbolo di pietra inerme, seminascosto tra gli alberi, in un angolo assediato dal traffico. Era una scommessa, una sfida lanciata all’intera società.

Ricordo di aver assistito, nel 2010, alla lettura dei nomi davanti a quel masso, in piazza Lubjanka. Era la quarta volta che si teneva e c’erano poche persone, attiravano di più l’attenzione i militari che piantonavano gli ingressi del giardinetto. Quel giorno un’anziana signora, dopo aver deposto i fiori, mi disse sconsolata: «Siamo ogni anno di meno».

Intendeva dire che quel rito degnissimo era qualcosa di privato, che riguardava solo i parenti stretti, ogni anno più vecchi, ogni anno sempre meno. La prima lettura dei nomi, nel 2007, aveva registrato l’afflusso di 213 persone.

Ma dal 2012 la linea di tendenza si è invertita; quest’anno al masso delle Solovki sono convenute 5.286 persone ma la lettura dei nomi nel frattempo si è moltiplicata. A Mosca si tiene anche sulle fosse di Butovo; a Pietroburgo presso un’altra pietra delle Solovki, sulle fosse di Levašovo, presso il Museo di Anna Achmatova, presso la chiesa della Madonna Fëdorovskaja e presso il monumento a Dostoevskij.

Lo stesso avviene in numerose altre città in tutto il paese: Ekaterinburg, Tver’, Samara, Voronež, Pskov, Archangel’sk, Tomsk, Brjansk, Vladimir, Murmansk, Orenburg, Penza, Perm’, Rostov-na-Donu, Tambov, Tula, Komsomol’sk-na-Amure, Nižnevartovsk e altrove. A volte si chiama «Ritorno dei nomi», altre volte «Preghiera in memoriam», ma sia per i credenti che per i laici è un gesto sacro che unisce. È un vero movimento che cresce in maniera libera e spontanea, là dove qualcuno se ne assume la responsabilità.

Risulta così evidente anche la logica di questo movimento: senza pretendere di incidere sulla grande politica, senza spazi ufficiali né mezzi, senza il sostegno di stampa e televisione, porre davanti a tutti dei gesti di coscienza che restaurano la memoria della realtà.

Come aveva chiesto circa sessant’anni fa la vedova di un poeta ucciso da Stalin: «Non si può fare raccolta di icone e di altri ricordini russi finché non si sarà ricordata ogni donna che ha seguito il marito nel lager o è restata a casa, e ha taciuto mordendosi la lingua. Chiedo a tutti di assistere al mio incubo lungo mezzo secolo» (Nadežda Mandel’štam).

Per un mondo che vive, per un uomo che resta uomo in qualsiasi condizione e, in qualsiasi condizione, può riaffermare la sua dignità, la pietra delle Solovki, con la sua evidente sproporzione, assume il valore di un metodo.