Che cosa ci insegnano i cristiani che resistettero al comunismo (e quelli che non lo fecero)

Tempi.it 12 Novembre 2017

 La persecuzione, per quanto spaventosa, si è dimostrata meno pericolosa per la fede che non l’accomodamento. Una riflessione a cento anni dalla Rivoluzione russa

 Jonathan Luxmoore

Per gentile concessione del Catholic Herald, proponiamo di seguito in una nostra traduzione un articolo di Jonathan Luxmoore apparso nel numero del 3 novembre 2017 del settimanale britannico. Luxmoore è autore di uno studio in due volumi sui martiri cristiani dell’era comunista, The God of the Gulag, edito da Gracewing. Il testo originale in inglese è pubblicato in questa pagina.

Quando arriverà il centenario della Rivoluzione russa il 7 novembre, le comunità cattoliche dell’Europa dell’Est faranno memoria delle tremende avversità che essa scatenò contro di loro. Ma visto che i cristiani soffrono ancora oggi in tutto il mondo, sarà anche un’occasione per riflettere su quali strategie di sopravvivenza sono più efficaci contro la persecuzione.

Il regime comunista fu imposto gradualmente, rendendo difficile una reazione definita. E se il suo obiettivo ultimo non mutò mai, i suoi metodi si evolverono – così come il tipo di testimonianza cristiana necessario a resistere alle pressioni.

Già nel 1917 il programma di eliminazione della Chiesa era tutt’altro che nuovo. Qualcosa di analogo erano stati il maltrattamento del clero cattolico réfractaire durante la Rivoluzione francese, i mangiapreti [in italiano nel testo originale, ndr] di Garibaldi e la Comune di Parigi del 1871.

Marx e Engels avevano celebrato la Comune come la prima dittatura del proletariato. Essa aveva riportato la rivoluzione in agenda dopo la soppressione dei moti del 1848. Aveva anche infranto il “potere clericale” della Chiesa, mettendolo nel fronte avversario rispetto al “popolo”. Se i comunardi erano stati sconfitti, comprese Marx, fu perché non avevano conservato la necessaria crudeltà.

Lenin, la mente rivoluzionaria della Russia, concordava sul fatto che la Comune era stata intralciata da un idealismo ingenuo. Ma ne condivideva in pieno il disprezzo verso la Chiesa, con le sue “radici profonde” nella dominazione capitalista.

«Ogni idea religiosa, ogni idea di un qualsiasi buon dio, perfino ogni civettare con il buon dio è qualcosa di incredibilmente abominevole», disse Lenin allo scrittore Maksim Gorkij.

Ecco che razza di nemico si ritrovò contro la piccola e vulnerabile comunità cattolica della Russia. Eppure, perfino mentre gli squadroni della morte bolscevichi battevano il paese, sottoponendo i preti a esecuzioni sommarie e impadronendosi dei beni della Chiesa, permaneva la speranza che il fervore iniziale facesse largo a qualcosa di più moderato.

La rivoluzione aveva spazzato via i privilegi tradizionali della Chiesa ortodossa russa, creando opportunità per altre confessioni. Anche in Vaticano qualcuno vedeva segnali di una “evoluzione positiva”.

Ma le speranze di un futuro più giusto furono presto dissipate.

In mancanza di legittimazione politica, il regime di Lenin dovette trovare modi per sottomettere la popolazione. A un anno dall’inizio della rivoluzione, mentre una polizia paramilitare forte di 40 mila uomini, la Čeka, operava dalla Lubjanka di Mosca e i tribunali del popolo emettevano sentenze secondo “i dettami della coscienza rivoluzionaria”, un “decreto sul terrore rosso” stabilì l’eliminazione di chiunque fosse sospettato di fare opposizione.

«Bisogna dare l’esempio», ordinava un telegramma di Lenin a un comitato locale. «Impiccare (impiccare senz’ombra di dubbio, cosicché la gente possa vedere) non meno di cento kulaki conosciuti, ricchi bastardi e noti sanguisughe… Fatelo in modo che la gente per miglia possa vedere, tremare, sapere».

Le sole virtù morali e devozioni spirituali consentite, mise in chiaro Lenin, erano quelle che servivano la rivoluzione. E anche se qualche religioso avesse proclamato di crederci, costui avrebbe soltanto danneggiato la causa dall’interno. «Dobbiamo giustiziare non solo il colpevole», diceva Nikolaj Krylenko, presidente della Corte suprema del Soviet. «L’esecuzione di un innocente impressionerà le masse perfino di più».

Dal momento che il regime inizialmente concentrò la sua furia sulla Chiesa ortodossa, ai cattolici fu risparmiato il peggio. Ma già nei primi anni Venti i preti cattolici si videro infliggere il carcere a vita per aver resistito al regime sovietico, e tutte le chiese cattoliche a Mosca e a Petrograd (San Pietroburgo) vennero chiuse.

Nel marzo del 1923, il capo della Chiesa cattolica in Russia, l’arcivescovo Jan Cieplak, e il suo vicario generale, monsignor Konstanty Budkiewicz, furono ritenuti colpevoli insieme a 21 altri membri del clero di aver creato una “organizzazione controrivoluzionaria”. Cieplak e Budkiewicz furono condannati alla fucilazione, altri all’ergastolo. E cinque giorni dopo, nella domenica di Pasqua, nonostante gli appelli internazionali, Budkiewicz fu giustiziato alla Lubjanka.

La sentenza di Cieplak fu commutata in dieci anni di carcere perché «la pena che egli merita davvero può essere interpretata da elementi reazionari della popolazione cattolica romana come diretta contro il proprio credo». Egli rimase in prigione fino all’aprile del 1924, quando improvvisamente fu caricato su un treno per Riga ed espulso.

Entro la fine degli anni Trenta, era diventato chiaro che niente avrebbe potuto salvare le chiese dell’Unione Sovietica.

Stalin aveva seguito l’appello di Lenin alla “audacia rivoluzionaria”, portandola ben oltre quanto lo stesso Lenin aveva previsto. La campagna contro i kulaki, gli agricoltori benestanti, costò 6,5 milioni di vite, mentre la famigerata “carestia del terrore” in Ucraina ne portò via altri otto milioni, e la Grande Purga staliniana sette milioni ancora.

45 mila chiese ortodosse giacevano in rovina, circa 110 mila membri del clero ortodosso furono fucilati, impiccati, bruciati vivi, annegati nei canali o crocifissi alle porte delle chiese. Quanto ai cattolici russi, perirono 422 sacerdoti insieme a 962 monaci, suore e laici. Tutti i 1.240 luoghi di culto, tranne due, furono chiusi o trasformati in negozi, magazzini, fattorie e bagni pubblici.

Perché la Chiesa aveva incontrato tanta ostilità? Fino a che punto aveva compreso la sfida rappresentata dal comunismo? Tali interrogativi saranno affrontati dai pastori della Chiesa dell’Europa orientale quando il regime comunista arriverà negli anni Quaranta sulle baionette dell’Armata Rossa vittoriosa. Ed essi risponderanno in maniera diversa.

Mentre le comunità greco-cattoliche che univano la liturgia orientale alla lealtà a Roma furono selvaggiamente soppresse in Ucraina e in Romania, altrove i cardinali cattolici – Stefan Wyszyński in Polonia, Josef Beran in Cecoslovacchia, József Mindszenty in Ungheria, Alojzije Stepinac in Jugoslavia – tentarono tutti di compattare i cattolici in difesa della Chiesa, sulla base della loro visione della situazione locale. Nel tempo furono tutti deposti, a dimostrazione del fatto che le posizioni della Chiesa, collaborative o conflittuali che fossero, in ultima analisi non incidevano molto sull’ostilità comunista.

Le capacità di leadership, però, giocarono un loro ruolo. Mentre Mindszenty e Stepinac avevano rigettato in toto il programma comunista, Wyszyński si era mostrato disponibile ad accettarlo, nella convinzione che i comunisti, come chiunque altro, fossero disposti a lasciarsi convincere, e che una flessibilità intelligente, anziché un rigore intransigente, avesse più possibilità di salvare la Chiesa.

Wyszyński era pronto a prendere il regime in parola, studiare le sue decisioni e raggiungere accordi con esso, evitando di lasciarsi trascinare nell’opposizione militante o di abbandonarsi a reazioni eccessive con condanne retoriche.

Nemmeno questo esentò Wyszyński dall’essere incarcerato nel 1953, quando il regime di Bolesław Bierut impose un giro di vite. Perfino al culmine del dominio stalinista, però, la Chiesa polacca aveva troppo consenso perché il regime rischiasse uno scontro frontale.

Scrivendo negli anni Settanta, Mindszenty giustificò il suo atteggiamento più conflittuale sostenendo di avere intuito il pericolo quando altri capi della Chiesa si erano bevuti gli annunci propagandistici secondo i quali il comunismo stava diventando più tollerante.

Lo schema era chiaro, secondo Mindszenty. I regimi erano determinati a distruggere la fede, e lo avrebbero fatto anche se i cristiani si fossero mostrati accomodanti, come aveva confermato il destino della Chiesa ortodossa russa. Nella “sfida decisiva” tra il cristianesimo e il comunismo, non ci si poteva fare illusioni di neutralità e appeasement.

«Ero convinto che fossimo chiamati alla testimonianza», spiegò Mindszenty. «Gli studi storici mi avevano insegnato che il compromesso con questo nemico avrebbe fatto quasi sempre il suo gioco».

Per ironia, era l’esatto contrario di quanto aveva concluso Wyszyński, proprio a partire dall’esempio degli ortodossi russi. Egli sapeva che la Chiesa avrebbe avuto i suoi martiri, e che il silenzio e la timidezza avrebbero solo rafforzato i suoi nemici. Ma percepiva anche che, presto o tardi, il regime avrebbe superato se stesso e avrebbe dovuto riconoscere che, perfino sotto il comunismo, una Chiesa forte avrebbe rappresentato una risorsa permanente.

Come previsto, nel giro di tre anni Wyszyński fu rimesso in carica, quando il successore di Bierut, Władysław Gomułk, ebbe bisogno del sostegno della Chiesa per una “via polacca al socialismo” riformista. E sebbene altri decenni di conflitto sarebbero trascorsi ancora, la Chiesa polacca in fin dei conti sarebbe prosperata.

* * *

Quali lezioni possono essere tratte oggi da tutto questo? Una viene dall’adagio attribuito a Thomas Jefferson, secondo cui il prezzo della libertà è un’eterna vigilanza. La Chiesa dovrebbe essere sempre consapevole dei pericoli che possono minacciarla, e dovrebbe elaborare le proprie risposte in anticipo.

Un’altra lezione è la necessità della non-violenza. Se una diplomazia pacata è in grado di ottenere risultati nel breve periodo, non ci si può fare affidamento. E quando le cose vanno male, la risposta migliore sarà sempre la protesta rumorosa ma pacifica.

Alcune delle condizioni morali [poste dalla] Chiesa per giustificare una resistenza armata contro “tirannie evidenti e prolungate” avrebbero potuto essere facilmente applicate nel caso del dominio comunista. Ma il ricorso alla violenza – dalle brigate partigiane del Dopoguerra alla Rivoluzione ungherese del 1956 – aveva rafforzato i regimi anziché indebolirli. La resistenza pacifica, come capì rapidamente papa Giovanni Paolo II, offriva migliori possibilità.

Un’ulteriore conclusione che possiamo trarre è che la Chiesa deve sempre essere indipendente dallo Stato – non in una separazione aggressiva o negativa, ma mantenendo la sua autonomia e la sua struttura interna.

Fin dalla Rivoluzione francese, i regimi totalitari avevano tentato di creare una Chiesa cattolica alternativa, indipendente da Roma; e quando fallirono, le reazioni furono violente. Eppure tormento e persecuzione, ancorché spaventosi, si sono dimostrati meno pericolosi per la fede che non l’accomodamento e l’apatia. La Chiesa è sopravvissuta alla brutalità. Ma potrebbe non sopravvivere al compromesso riguardo ai suoi valori e alla corruzione del suo ordine canonico.

Per quanto illuminata e ragionevole sia, la Chiesa avrà sempre i suoi nemici. Perciò, deve essere sempre abile e giudiziosa nel modo in cui li tratta, mantenendo una visione a lungo termine che individui il giusto equilibrio tra testimonianza e diplomazia, e che eviti di compromettere l’indipendenza spirituale e morale della Chiesa in cambio di protezione istituzionale e vantaggio materiale.

Il sistema di dominio istituito da Lenin un secolo fa rese difficile vivere onestamente, e ancor più difficile raggiungere il bene. Il fatto che molti lo fecero, per scelta consapevole e con forza di volontà, fu un segno importante di redenzione. Il coraggio e la forza di pochi compensarono la paura e la debolezza di molti, espiando i loro peccati ed errori, e contribuendo alla liberazione e alla salvezza di intere comunità.