Politiche familiari tra Francia e Italia

La Croce quotidiano 13 ottobre 2017

Negli ultimi anni l’Istituto nazionale di studi demografici francese è stato visitato, per importarne le proposte e le “ricette” natalistiche, da studiosi giapponesi e sudcoreani, Paesi nei quali la popolazione ha ormai tassi di fertilità bassissimi ma che vogliono invertire la rotta con politiche per la natalità e non con l’immigrazione. A noi non ci serve niente? Osserviamo insieme quali sono ostacoli e mezzi per un governo più “family friendly”

di Giuseppe Brienza

Questa estate, sollecitato da Giovanni Marcotullio, ho proposto su questo giornale alcune osservazioni in merito alle affermazioni emerse nell’audizione ad una commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno migratorio in Italia del presidente dell’Inps Tito Boeri (cfr. G. Brienza, Promemoria su lavoro e dignità per il presidente #Inps Tito Boeri, in “La Croce quotidiano”, 21 luglio 2017, p. 2). Allora mi proponevo di ritornare sull’argomento con un articolo più approfondito che affrontasse il tema della necessità, anche in termini economico-previdenziali, di politiche nazionali e sistematiche per la famiglia di cui all’art 29 della Costituzione e per il rilancio della natalità (me ne occupo da vent’anni, come documenta ad es. il saggio “Famiglia e politiche familiari in Italia”, pubblicato nel 2001 dall’editore scientifico Carocci). Cominciamo.

1. In primo luogo occorre dire che il principale obiettivo di politiche della famiglia, che sono cosa ben diversa dagli interventi genericamente indirizzati a fini sociali, o volti a combattere la povertà, favorire l’inclusione etc., significa lavorare a favore della sua stabilità nel tempo. L’unità e l’integrità del matrimonio, civile o religioso che sia, infatti, si qualifica come primario interesse pubblico, tanto più in un contesto come l’attuale in cui la sua forza intrinseca è minata da enormi difficoltà e da una mutazione storica dei processi individuali che rendono facilmente conflittuali le relazioni coniugali.

Non è vero che la politica non possa fare nulla in questo senso. Basta volerlo e, soprattutto, centrare i destinatari giusti, cioè quelli indicati dall’art. 29 della Costituzione: le società naturali fondati sul matrimonio. Queste sono “le famiglie”, non certo i “nuclei monoparentali” (cioè i single, vedovi/e o meno, con figli) né, tantomeno i conviventi o le unioni civili omosessuali.

Come fare per rinforzare la famiglia? Innanzitutto riproponendo una cultura sociale pro-familia, nella consapevolezza che, ci ha insegnato il card. Carlo Caffarra (1938-2017), «se i matrimoni oggi sono in calo, ciò non è dovuto soltanto a “ragioni economiche”: trenta o quarant’anni fa le difficoltà per le giovani coppie non erano minori, tuttavia era la “speranza nel futuro” a prevalere» (cit. in “Domandiamoci perché i giovani non si sposano più”, intervista dell’Arcivescovo di Bologna al quotidiano “Il Foglio”, 15 marzo 2014).

2. Favorire una cultura, soprattutto nei giovani, consona a rispondere al loro congenito progetto costituire una famiglia e, contestualmente, divenire genitori: da qui dovrebbero partire le politiche pubbliche. Ma per le famiglie già formate e che sono soggette più di tutti al rischio dell’impoverimento? Direi innanzitutto che, per queste, in Italia sarebbe prioritario impostare una fiscalità conveniente e dare al nucleo familiare, com’è in Francia ad esempio, un ruolo di soggetto fiscale favorito nella sua unità.

Questo ha portato i nostri cugini subalpini ad una natalità attorno al 2,01 figli per donna, con una percentuale di investimenti sulla famiglia pari al 3,5% del Pil (erano al 4% fino al 2013). Se la Francia è definita il “granaio demografico” europeo, un motivo ci sarà! Come ci sono arrivati a questi risultati? «Attraverso un mix di aiuti economici alle famiglie progressivi rispetto al numero di figli – è sempre Benedetta Verrini a ricordarlo sul quotidiano dei vescovi italiani -, di strutture di assistenza all’infanzia, di armonizzazione dei congedi tra padri e madri» (Sussidi, contributi fissi, congedi. Così la Francia è tornata a crescere, in “Noi genitori & figli”, giugno 2017, p. 13).

La Francia ha rilanciato sulle politiche per favorire le nascite nel 2004 con un “pacchetto natalità” denominato «PAJE-Prestation d’accueil du jeune enfant». Si tratta di un meccanismo a due livelli, composto da un sussidio di base e un sussidio di libera scelta. Il primo fa sì che al settimo mese di gravidanza si riceva un contributo fisso pari a 800 euro, il secondo è un contributo mensile pari a 160 euro, che dura dalla nascita fino al terzo anno, di carattere universalistico (erano esclusi solo i redditi superiori a 4.57 5 euro mensili, sostanzialmente viene erogato a quasi tutte le famiglie interessate).

Inoltre, i risultati sulla natalità hanno riguardato anche provvedimenti che hanno riconosciuto alle famiglie la libertà di scelta delle modalità di accudimento preferita dei figli fino ai sei anni. I genitori francesi, quindi, a differenza di quelli italiani schiacciati dal monopolio statale dell’istruzione scolastica, possono scegliere liberamente tra l’asilo nido e un’assistente all’infanzia qualificata, con contributi, a seconda della fascia di reddito, da i 400 ai 600 euro mensili.

E ce n’è anche per l’home schooling, oggetto di recenti attenzioni penalizzanti da parte del ministro Fedeli. Infatti, in Francia, sono stati presi in considerazione dalle politiche familiari pubbliche anche quei genitori che rivendicano il diritto di stare a casa per curare i loro figli, almeno per un periodo della loro vita. Di conseguenza, in caso di interruzione dell’attività professionale è stato previsto un sussidio di 340 euro per i 6 mesi successivi al congedo di maternità, cumulabile con i 160 mensili del sussidio di base.

Chi intendesse ritornare al lavoro, ma scegliendo il part time, riceve lo stesso sussidio (denominato non a caso di libera scelta d’attività) in misura proporzionalmente ridotta. Così se nel 2004 la Francia aveva un tasso di 1,88 figli per donna, il “pacchetto natalità” è stato lanciato consentendo, in pochissimi anni, di raggiungere e superare persino la “soglia di sostituzione” della popolazione, quella che consente in definitiva ad un popolo di guardare al suo futuro.

3. Non servono allora un ministro, un’Agenzia o un Dipartimento istituzionalmente dedicati alla famiglia (semmai un comitato interministeriale), le politiche familiari vanno molto meglio in Paesi occidentali nei quali non c’è ombra di tutto questo. Il principio di fondo che dovrebbe guidare tutto il sistema dovrebbe essere il riconoscimento della famiglia come soggetto sociale.

Cosa significa? In primo luogo il riconoscimento dei genitori come i primi e principali educatori dei loro figli, in secondo luogo una tassazione generale sul reddito non individualisticamente impostata con l’introduzione del quoziente familiare. Lo Stato anti-familiare di oggi intende invece farsi terzo (e non quindi “famiglia di famiglie” come classicamente esso ero inteso) “proteggendo” le mogli dai mariti, le madri dai padri e i figli dai genitori. In questo modo assicura che tutti sempre e ovunque si intendano come monadi e vivano come individui in tutto e per tutto dipendenti dallo Stato (o dalla magistratura…).

4. Anche dal punto di vista della legislazione sociale questa impostazione che ci proviene dalla Rivoluzione francese del 1789 e dal Risorgimento ha creato non pochi danni, trattando nella legge la famiglia come un aggregato di individui, non qualitativamente differente da un’associazione privata. Invece la “società naturale fondata sul matrimonio”, come intesa dai Costituenti che hanno scritto l’art. 29, va riconosciuta come la cellula base della comunità nazionale, con una sua soggettività sociale che va oltre la somma dei suoi singoli membri.

5. Cosa pensa della famiglia e delle politiche familiari la “Dottrina sociale cristiana”? Utilizziamo quest’ultima dizione invece di quella di “Dottrina sociale della Chiesa” perché ha maggiore veicolabilità nel mondo ortodosso e protestante rappresentato nella “Conferenza delle Chiese europee” (KEK). Infatti, data la dimensione europea della “questione sociale” del XXI secolo, sarebbe auspicabile una maggiore collaborazione ed un più convinto raccordo da parte degli organismi rappresentativi delle chiese e comunità ortodosse e protestanti e della Chiesa Cattolica in Europa per una più efficace difesa e promozione dei “principi non negoziabili”.

Non possiamo infatti non rimanere colpiti da passaggi come quelli contenuti in un recente documento pubblicato dalla Commissione “Chiesa e società” della Conferenza delle Chiese europee che vedono la famiglia come «pilastro fondamentale per il benessere e la stabilità della società», al quale gli Stati dovrebbero «dare assoluta priorità al sostegno economico, educativo e sociale», pena conseguenze «estremamente costose in termini sia economici sia di coesione sociale e solidarietà» (KEK, Europa e politiche familiari, www.press.ceceurope.org  17.1.2013, traduzione dall’inglese a cura de “Il Regno”, n. 15/2013, n. 1).

6. Cultura, fisco, scuola. Come ricordano i protestanti e ortodossi europei, infatti, «l’educazione è un elemento importante delle politiche familiari nelle società contemporanee. Essa copre diverse aree, tra cui la formazione alla genitorialità, educare le famiglie ad aiutare sé stesse, l’educazione della prima infanzia e la formazione alla cittadinanza attiva e alla vita in una società democratica» (KEK, Europa e politiche familiari, cit., n. 5).

7. E veniamo quindi alla Francia che, efficacemente, utilizza il sistema fiscale per aiutare le famiglie e promuovere la natalità. E lo fa non su basi cristiane, essendo la V Repubblica francese fondata nel 1958 ormai pressoché del tutto laicista. Mettiamoci bene in testa che, la difesa e promozione della famiglia e della natalità, pur profondamente fondate nella Bibbia, conduce a imprescindibili risultati di sopravvivenza e, quindi, di coesione sociale.

Come riconosciuto convintamente dalla “Conferenza delle Chiese europee”, infatti, «allevare dei figli rappresenta un peso economico significativo, le politiche fiscali sono un modo appropriato per sostenere i genitori. In Francia, per esempio, per il calcolo delle imposte sul reddito le coppie hanno la possibilità di dividere i propri redditi tra loro e i loro figli. Si potrebbe fare un passo ulteriore e incoraggiare una solidarietà familiare intergenerazionale, permettendo che i redditi siano legati ai singoli familiari che vivono sotto lo stesso tetto.

Una coppia che si assume la responsabilità di prendersi cura dei genitori anziani potrebbe attribuire loro una parte del proprio reddito e pagare meno tasse. Un’altra possibilità potrebbe essere di sostenere i genitori di bambini piccoli applicando un’imposta sul valore aggiunto (IVA) più bassa sugli articoli essenziali per la cura infantile» (KEK, Europa e politiche familiari, cit., n. 5).

8. Di «grave problema demografico» europeo parla anche la KEK e, di primo acchito, ci chiediamo quindi perché, tranne lodevoli eccezioni, dal mondo protestante italiano non si levano voci contro questo suicidio generazionale che ha preso avvio dal Sessantotto ed è arrivato nel nostro Paese a livelli davvero preoccupanti. Anche al fine di preservare, come giustamente ricorda il recente documento della “Conferenza delle Chiese europee”, «sistemi pensionistici sostenibili e un’equa ripartizione dei costi di assistenza sanitaria sono elementi fondamentali della solidarietà tra le generazioni».

9. L’allarme sulle “culle vuote” ci è testimoniato ogni anno dai dati Istat, con uno scenario di deserto demografico che peggiora di anno in anno. Nel 2016, ad esempio, le nascite nel nostro Paese sono state 474mila, nuovo minimo storico dall’Unità d’Italia. Siamo entrati nel sesto anno consecutivo di riduzione della fecondità, che è giunta a 1,34 figli per donna e, l’età media delle madri alla prima gravidanza, sta raggiungendo velocemente i 32 anni. «Meno figli – ha scritto Benedetta Verrini sul supplemento dedicato alla famiglia del quotidiano “Avvenire” – significa molte cose: minore crescita economica, maggiore fragilità intergenerazionale (come faranno questi pochi bambini a “occuparsi” degli anziani, in futuro?), basso investimento sul domani, poca speranza» (Fisco, la giungla delle iniquità. Pochissimi figli, tante tasse, in “Noi genitori & figli”, giugno 2017, pp. 12-13).

10. Non è che con i pochi figli le famiglie italiane sono riuscite a rimanere in una soglia almeno accettabile di benessere economico. Lo dimostrano i dati sulla povertà assoluta, la cui “soglia” è stabilita in 1.050 euro al mese. Oggi interessa infatti quasi 1.600.000 famiglie, con un’incidenza fino al 18% se si hanno tre o più figli. Le vere discriminate nel nostro ordinamento (oltre alla “casalinghe”) sono quindi le famiglie più numerose, in particolare quelle con quattro componenti (sotto la soglia di povertà nel 16,6% dei casi) o cinque e più (31,1%).

Perché i sindacati e la sinistra italiana non se occupano? L’incidenza della povertà relativa, oltretutto, è aumentata tra i nuclei con capo famiglia operaio o tra i 45 e i 54 anni. Per motivi squisitamente politici, quindi, gli aiuti pubblici ai genitori continuano a essere centellinati tanto, si dice, “compensa” l’immigrazione… Ma facciamo attenzione che con questa ideologia della “sostituzione etnica” affondiamo tutti prima o poi! Il problema in Italia, poi, non è solo sulla “quantità” delle risorse economiche fornite alla famiglia, ma anche sulla “qualità”.

Infatti, la mentalità statalista-assistenziale informa ogni tipo di intervento pubblico: dal famoso bonus di 80 euro del governo Renzi, che purtroppo non ha tenuto conto dei carichi familiari (perciò una coppia senza figli con due stipendi da 24mila euro ciascuno ha ricevuto 160 euro al mese; un padre di quattro figli con un reddito di 27mila euro non ha ricevuto nulla), ai vari pannicelli caldi del bonus nascita, bonus mamme domani, bonus nido, bonus gas, bonus tre figli, bonus per il sostegno all’affitto etc.

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Per concludere: la famiglia non è solo un paradosso tutto italiano ma, nell’ultimo decennio, come denunciato tante volte da Papa Francesco sul piano generale, è divenuto terreno privilegiato di quella “colonizzazione ideologica” che abbiamo visto all’opera anche il 28-29 settembre 2017 a Roma in tutti gli interventi (o quasi) alla Terza Conferenza Nazionale della Famiglia. Servirà di lezione?