Quando il prof entrava in classe con la frusta

Tempi Settembre 10, 2017

Bastoni, verghe, bacchette. Nell’antichità gli scolari negligenti non avevano vita facile. Dai sumeri agli spartani, carrellata di staffilate

 Leandro Sperduti

La letteratura e la cinematografia ci presentano, per quanto riguarda il passato, un sistema scolastico ed educativo ben più rigido e severo di quello odierno, fornendoci le immagini di maestri e istitutori armati di bacchetta e di studenti vessati e inquadrati quasi militarmente. Del resto, anche dai racconti dei nostri genitori e nonni, apprendiamo che la liberalità a scuola è una conquista alquanto recente, frutto soprattutto delle riforme e dei movimenti studenteschi che hanno segnato la seconda metà del Novecento. La severità, le coercizioni e perfino una certa dose di punizioni corporali, infatti, sembrano aver accompagnato l’istituzione scolastica fin dalle sue più remote origini, nell’antica Mesopotamia e nell’Egitto faraonico.

Una tavoletta sumera del III millennio a.C. riporta il diario giornaliero di uno scolaro mesopotamico e costituisce il più antico documento a nostra disposizione sul sistema scolastico e sulle sue dure modalità d’insegnamento.

Il direttore leggeva la mia tavoletta e diceva: «Manca qualcosa». Mi bastonava.

L’addetto al silenzio diceva: «Perché hai parlato senza permesso?». Mi bastonava.

L’addetto alla condotta diceva: «Perché ti sei alzato senza permesso?». Mi bastonava.

L’addetto alla frusta diceva: «Perché hai preso questo senza permesso?». Mi bastonava.

L’addetto al sumerico diceva: «Perché non hai parlato in sumerico?». Mi bastonava.

Il mio maestro di scrittura diceva: «La tua mano non è buona». Mi bastonava.

Egli ascolta solo quando è battuto

Come si vede da questo breve testo in cuneiforme l’antica pedagogia mesopotamica si fondava su criteri alquanto discutibili e vessatori, che lasciavano ben poco spazio alla libertà dello studente o alle sue propensioni. La situazione, del resto, non fu molto diversa in Egitto. Alcuni papiri di epoca ramesside, databili tra i secoli XIII e XII a.C., forniscono numerosi precetti per l’apprendimento, minacciando severe punizioni corporali agli studenti poco diligenti.

(…) Non passare un giorno di ozio oppure sarai battuto. L’orecchio del ragazzo è sopra la sua schiena; egli dà ascolto solo quando è battuto.

(…) Quando ero della tua età passavo il mio tempo in ceppi; erano essi che domavano il mio corpo e stavano con me per tre mesi. Fui recluso nel tempio e mi rilasciarono quando la mia mano fu abile nello scrivere.

Dunque, anche nella terra del Nilo, gli scolari erano istruiti a forza di fustigazioni e perfino sottoposti a periodi di reclusione in camere di isolamento e punizione. C’è da chiedersi quanto, in queste antiche civiltà, la severità fosse resa necessaria, oltre che dal bisogno di spingere i ragazzi allo studio, anche dall’istruirli a un sistema di scrittura complicatissimo e astruso, dove l’oggettiva difficoltà manuale si combinava all’apprendimento mnemonico di centinaia di segni completamente diversi tra loro.

Va inoltre considerato che sia in Mesopotamia che in Egitto non esisteva una scuola per così dire “pubblica” e l’educazione dei giovani (sempre e unicamente maschi) era amministrata nei templi e riservata ai figli degli alti funzionari e agli aspiranti sacerdoti o scribi.

Preparare alla dura società esterna

L’apprendimento della scrittura e l’istruzione, dunque, non costituivano semplicemente un diritto dell’individuo, ma sempre una sua preparazione alla gestione del potere, all’esercizio del culto o perfino alla vita di corte. La disciplina ferrea d’impronta militare era considerata dunque essenziale per predisporre all’età adulta e “domare” le intemperanze dei giovani di rango e perfino dei futuri sovrani. Agli insegnanti, dunque, era affidato un compito particolarmente arduo, che non poteva esser trasmesso dalla famiglia o all’interno delle mura domestiche, quello cioè di preparare il ragazzo alla dura società esterna, fatta di continui confronti, responsabilità e perfino frequenti guerre. Il modello, dunque, non poteva che essere quello militare, basato su regole ferree e punizioni dolorose.

Le cose non cambiarono neppure con l’avvento della civiltà greca classica, quando pure fece la sua comparsa una scuola parzialmente “pubblica”, gestita diversamente in ogni singola polis. In generale, comunque, l’insegnamento era organizzato per gradi e riservato soprattutto ai figli maschi dei cittadini, anche se non mancarono casi dell’apertura delle scuole agli operai, alle ragazze e perfino ai servi.

Anche in Grecia, come prevedibile, la severità e le punizioni corporali rivestivano un ruolo fondamentale nella didattica e la loro efferatezza era inversamente proporzionale al rango dello scolaro. Molte delle punizioni corporali, poi, erano convertite in esercizi ginnici particolarmente faticosi ed estenuanti a cui soprintendeva un maestro di ginnastica chiamato per questo paidotribes, cioè il “distruttore di ragazzi”.

Un caso assolutamente particolare era costituito dalla cosiddetta Agoghé praticata a Sparta, un rigidissimo regime educativo cui erano sottoposti tutti ragazzi a partire dai sette anni e volto a creare in loro il senso della collettività e della cieca dedizione allo Stato. I giovani erano sottratti alla famiglia ed educati in gruppo sotto la supervisione di un ragazzo più grande, detto mastigòforos (letteralmente “portatore di frusta”), cui spettava il compito di fustigare i renitenti e negligenti. È interessante notare, però, che la legge prevedeva che qualunque cittadino potesse infliggere punizioni corporali a un scolaro che fosse stato colto inadempiente o impreparato.

Rigore morale dei costumi

I precetti elaborati in Grecia passarono in parte nel rigido sistema educativo dell’antica Roma, della cui severità possediamo una nutrita documentazione letteraria. Soprattutto durante il periodo repubblicano, quando la stessa identità romana si fondava sui valori del rigore morale e dei costumi (gravitas), l’insegnamento dei ragazzi a suon di botte era considerato quasi essenziale nell’educazione e nella preparazione del futuri cittadini e soldati.

Poiché a Roma non esistette mai una scuola pubblica gestita dallo Stato, l’istruzione dei giovani era affidata alle istituzioni di categoria o alle corporazioni lavorative, quando non addirittura da private famiglie che organizzavano corsi in proprio aprendone la frequenza anche a esterni.

All’insegnamento erano preposti in genere precettori di rango servile o al più liberti, alfabetizzati ma considerati spesso assolutamente spregevoli, che certo non disdegnavano di rivalersi sui figli dei loro padroni con l’uso della verga (ferula). Non mancarono però i docenti di rango, soprattutto retori o grammatici, che spesso si distinsero proprio per la violenza o la severità dei loro modi.

Tra gli insegnanti più severi ci fu certamente il beneventano Orbilio Pupillo, che fu maestro del poeta Orazio e che da questi è ricordato come plagosus, cioè “che causa ferite”. La sua fama ne fece il modello del docente manesco al punto da essere citato, a un secolo dalla sua morte, anche da Svetonio che sostiene come questi «ha fatto a pezzi certi con la bacchetta e lo staffile».

L’uso spregiudicato delle sferzate e delle punizioni corporali nell’educazione scolare si protrasse dunque per tutti i secoli dell’antichità, in Mesopotamia come a Roma, rivelandosi, presso popoli e culture diverse, una delle costanti dell’insegnamento. Certo nessuno di noi oggi si sognerebbe di rimpiangere dei metodi così rigidi e vessatori, c’è però da chiedersi quanto dell’umana conoscenza, della morale e del progresso siano stati indotti dal timore della verga piuttosto che dall’indulgenza del maestro.