Perché il capitale odia i confini

terraTempi 14 Luglio, 2017

Fondativa della civiltà capitalistica, la norma metafisica dell’illimitatezza si dispiega come abbattimento di ogni limite reale e immateriale

Diego Fusaro

Il superamento delle frontiere, salutato come fisiologicamente positivo da quanti hanno fatto loro la prospettiva della global class mondialista, risulta funzionale al capitale non solo perché abbatte ogni confine invalicabile (e, dunque, fa sì che non sopravviva uno spazio non ancora sussunto sotto le sue dinamiche), ma anche per un’altra ragione: se, come sappiamo, le frontiere sono, a un tempo, storiche e geografiche, poiché in esse è custodita la storia dei popoli e il loro radicamento, non stupisce che la marcia del capitale le travolga, rimuovendo la dimensione storica, culturale, plurale e territoriale dei popoli.

Coerente con l’open space della mondializzazione, l’abbattimento delle frontiere e dei confini si pone, dunque, in pari tempo come un momento di unificazione planetaria del campo economico e di distruzione programmata della potenza etica degli Stati sovrani ancora in grado di governare e regolamentare l’economia.

La metafisica dell’illimitatezza propria del capitale si ridispone, sul piano geopolitico, come pratica dello sconfinamento permanente: ogni confine viene oltrepassato, affinché si annulli ogni linea divisoria tra ciò che è interno e ciò che è esterno rispetto all’ordine capitalistico mondializzato. Sul piano simbolico, la prassi dello sconfinamento capitalistico è legittimata mediante la subcultura della narrativa no border e la convergente demonizzazione integrale dell’idea stessa di confine, presentato dalle Sinistre del Costume (sovrastruttura ideologica delle Destra del Danaro) come inevitabilmente autoritario ed escludente, nella rimozione integrale della sua valenza protettiva di difesa dei diritti rispetto all’offensiva della violenza mondialistica.

La desovranizzazione richiede necessariamente l’abbattimento dei confini e delle frontiere, di modo che sia, eo ipso, annullata la possibilità politica di intervento nei territori e si imponga un modello unico indistinto, senza barriere reali o simboliche. Per poter agire, la politica necessita sempre di una sovranità limitata nello spazio e, dunque, di un territorio con precisi confini in cui essere radicata.

Il mercato unico e il modello unico di esistenza e di pensiero sono le due facce del medesimo processo di globalizzazione come disarticolazione del diritto alla differenza e come simultaneo dispiegamento globale dell’inautentico e del medesimo. In essi si esprime la pulsione globalista verso l’indifferenziato senza limitazioni, verso l’annichilimento di tutto ciò che ancora non sia affine rispetto al mercato e alla sua antropologia.

Il sistema finanziario assoluto deve, di conseguenza, porsi necessariamente come sans frontières, perché il mondo intero senza esclusioni deve essere sussunto sotto il suo regime di produzione, di esistenza e di pensiero: l’inclusione assoluta procede di conserva con la neutralizzazione assoluta di tutto ciò che non sia ancora inglobato o, più precisamente, “inglobalizzato”, cioè ricondotto entro l’ordine spoliticizzato del mercato unico planetario senza confini che lo separino da una eventuale esteriorità.

L’aspirazione del capitale è la creazione di a single market without barriers – visible or invisible, «un mercato unico aperto e senza barriere, visibili e invisibili» (parola di Margaret Thatcher, 18 aprile 1988).

Fondativa della civiltà capitalistica, la norma metafisica dell’illimitatezza si dispiega in concreto come attivo abbattimento di ogni limite reale e immateriale: abbattimento che, di fatto, secondo le coordinate linguistiche del nuovo ordine simbolico, viene identificato con il “progresso”.

Un sistema apolide e planetario

Secondo questa chiave ermeneutica, può essere oggi inquadrata concettualmente l’ossessione neo-edonistica e liberal-libertaria per l’apertura di ogni frontiera materiale e immateriale e per la violazione di ogni misura reale e simbolica: è quella che potrebbe intendersi come l’ideologia dell’apertura permanente dell’open society, con il suo peculiare sfondamento di ogni frontiera nazionale, etica, religiosa, morale come limite alla competitività globale del free market e alla mobilità universale delle delocalizzazioni e del dumping salariale sempre a detrimento della manodopera planetaria.

La manipolazione organizzata pubblicitaria, ancora una volta, legittima e glorifica questa tendenza allo sconfinamento, che per i dannati della mondializzazione è una sciagura, presentandola come un nuovo lifestyle suadente e liberatorio: la liberazione e lo sconfinamento del capitale finanziario, l’abbattimento di ogni frontiera materiale e immateriale per la civiltà dei consumi, nei cui spazi tutto deve essere possibile sotto forma di merce, viene falsamente generalizzata come chance entusiasmante anche per coloro che ne subiscono soltanto le conseguenze più esiziali.

È in questo scenario di ordinaria alienazione postmoderna che si spiega, tra le tante, la campagna pubblicitaria lanciata nel 2017 da una nota marca di birre mediante il conio del neologismo anglofono desfronterizate: «Rimuovere le frontiere» – il sogno realizzato del capitale apolide e planetario – diventava il nuovo slogan delle masse manipolate e quotidianamente esortate alla gaudente accettazione della propria servitù.