Opposizione popolare, insorgenza e brigantaggio nell’Italia napoleonica

insorgenzeLe pagine che seguono ripropongono l’intervento – riveduto, ampliato e annotato –, presentato al Convegno di studio Napoleone e Regno d’Italia (1905-1814). La Lombardia fra cesarismo post-rivoluzionario e prime forme di unificazione nazionale, svoltosi (Milano, Università Cattolica del Sacro Cuore, 18-19 novembre 2005).

di Sandro Petrucci

LE PREMESSE

1. L’opposizione popolare

Il malcontento e l’ostilità verso il regime napoleonico furono un dato comune e diffuso nella generalità dei ceti popolari della società italiana nelle diverse situazioni regionali e statali. La destrutturazione della società e dell’economia tradizionali – in questo il regime napoleonico si pose continuità con il riformismo “illuminato” settecentesco – attraverso il nuovo diritto di famiglia, l’attacco agli enti religiosi e i loro beni, da cui veniva spesso un sussidio ai più poveri, e agli usi civici, con la legislazione a favore delle recinzioni e l’eversione della feudalità, l’attuazione di uno Stato amministrativo e burocratico, dai costi enormi, che mirava a un controllo totalizzante della vita religiosa e civile, e a un inquadramento sociale, la legislazione ecclesiastica con la soppressione degli ordini religiosi e delle confraternite e la secolarizzazione e razionalizzazione delle strutture della Chiesa – «la fine del Medioevo» (1), secondo una valutazione, riconducibile a Benedetto Croce e condivisa dagli storici del Regno di Napoli – generarono, in particolare nei ceti popolari, una condizione permanente e diffusa d’insicurezza, d’instabilità, di senso di ingiustizia e di violenza.

L’impatto dell’“inquadramento” sociale napoleonico fu particolarmente pesante per quella fascia di popolazione tradizionalmente itinerante, come i braccianti stagionali, e per chi praticava antichi mestieri legati alla struttura degli insediamenti rurali e alle tradizioni, e «[…] gode di una libertà naturale, prima che politica, nel suo rapporto con il territorio» (2), come le genti delle province campane e calabresi, che conservavano – per dirla con lo storico Pietro Calà-Ulloa – «[…] spiriti severi d’indipendenza» e un attaccamento «[…] a’ padri costumi» (3).

È stato osservato che basterebbe l’imposizione alla rinuncia del diritto alle armi – considerata “un attentato alla libertà” dal contadino, dal pastore e dal boscaiolo – sulla base del divieto per i non possidenti di far parte della guardia civica, «[…] per giustificare […] l’insurrezione e il brigantaggio e la sua rete di connivenze» (4).

Lo storico liberale Luigi Blanch, nel suo Il Regno di Napoli dal 1801 al 1806, osservava che l’ostilità della popolazione verso i francesi trovava la sua radice in «[…] un istinto, di cui non si rendevano conto, ma che influiva nella loro mente, era quello che un governo più forte [quello napoleonico], che avesse avuto forza distributiva nell’interno del regno, cosa che non vi era, lo avrebbe sommesso ad una più severa licenza, quell’impunità, che teneva luogo di libertà ed era la sola che conoscevano ed apprezzavano, la quale sarebbe scomparsa in cospetto di un’altra libertà, che non comprendevano, non desideravano e vedevano associata a idee che più aborrivano, come licenziose e irreligiose» (5).

I primi fermenti nei Dipartimenti del Panàro e del Crostolo, in Emilia, nei primi mesi del 1803, vanno significativamente messi in relazione all’istituzione della “carta di sicurezza”, una tra le norme più trasgredite, la quale – è stato osservato – colpiva «[…] al cuore la democrazia naturale su cui si era retta fino a allora la società di autoconsumo dei poveri, abituati a continue trasmigrazioni» (6).

Il malcontento popolare si manifestò spesso in forme di opposizione silenziosa, di resistenza passiva e di boicottaggio: dal rifiuto di portare le coccarde tricolori a quello, da parte dei parroci soprattutto dei paesi rurali, di cantare il Te Deum in onore di Napoleone Bonaparte, alla scelta delle famiglie di mandare i figli nelle scuole statali anziché in quelle dei seminari o dei religiosi, alla diserzione da parte dei fedeli delle messe dei “novelli sacerdoti”, che avevano giurato gli articoli gallicani – ossia nella prospettiva di una chiesa nazionale francese – voluti da Bonaparte, nonostante che con la forza armata se ne volesse imporre l’accettazione. Scrive, però, un contemporaneo fiorentino: «[…] i fucili e le spade non dominano sulle coscienze, né fanno cangiare opinione. Anzi, perché in tali circostanze si credevano meritori, siccome patimenti per la causa di Dio e della Chiesa, le rigorose misure del governo aumentavano il numero e il coraggio dei suoi nemici».

Proprio la scelta dell’imperatore (7) di nominare arcivescovo di Firenze il presule di orientamento gallicano Antoine Eustache d’Osmond, senza approvazione pontificia, fu all’origine di reazione di non pochi canonici e oscuri parroci e pievani, che conobbero la deportazione in Corsica o nella fortezza prealpina di Fenestrelle (Torino).

La coscrizione militare rappresentò nel nuovo regime napoleonico sia il più diffuso strumento di controllo e d’irregimentazione dei ceti più popolari, sia la novità che maggiormente alimentò una disgregazione sociale – «la famiglia patriarcale è sconvolta dalla coscrizione» (8) – e una crescita di marginali, renitenti e disertori, sia il motivo più diffuso di protesta popolare. La diserzione fu una forma di opposizione a uno Stato sentito estraneo e ostile.

Lo storico inglese Richard Cobb l’ha definita una «specie di movimento popolare per difetto» (9). Il disertore non diventava necessariamente un brigante, se non nella omologante definizione degli apparati di polizia napoleonica. Jean-Pierre Filippini, studiando il caso toscano, ha messo in discussione che ci sia stato uno stretto legame tra diserzioni e brigantaggio. Ci furono disertori che capeggiavano bande, ma anche bande senza disertori tra le proprie fila: spesso rimanevano ai confini del paese, da cui erano sostenuti e ben voluti (10).

2. L’insorgenza

Con il termine “insorgenza” agli inizi del secolo XIX s’indicava perlopiù l’opposizione armata, organizzata in gruppi composti da volontari inquadrati nelle cosiddette “masse”, guidati da capi spesso ma non sempre riconosciuti dall’autorità legittima, affiancanti le truppe regolari, e operanti, in occasione di invasione, in difesa della nazione e del re. Il modello era rappresentato dalle esperienze del cosiddetto Triennio Giacobino 1796-1799, quando la reazione popolare, dai caratteri spontanei nei primi anni del periodo repubblicano, assunse in seguito forme più continuative, regolari e ufficiali.

È significativo che i termini “insorgenti” e “insorgenza”, coniati in origine negli ambienti giacobini e francesi, con il significato di “ribelli” e “ribellione”, divennero in modo abbastanza definitivo, le espressioni con cui l’opposizione anti-napoleonica, almeno in alcune regioni centro-meridionali, indicava una sollevazione popolare legittimista e i suoi protagonisti, con obiettivi e capi definiti, pur associando spesso a essa il ricordo di disordini e violenze incontrollate che accompagnarono le vicende militari del 1799.

Per esempio, il nobile chietino Luigi De Riseis, nel 1808 in una Memoria per promuovere e sostenere un’insurgenza negli Abruzzi, inviata al re, nella quale esponeva un piano per realizzare la ripresa del Regno, osservava che «i francesi di nessun’altra cosa temono tanto quanto delle ben regolate insurgenze de’ popoli» (11). Un altro capo-massa marchigiano, in un proclama volto a sollevare la popolazione di Ascoli Piceno, annunciava che la città sarebbe stata liberata non da «finta insorgenza [ma da] una truppa ben regolata» (12).

Come si vede, le preoccupazioni che non si ripetessero i disordini di circa dieci anni prima erano particolarmente sentite. La continuità con l’esperienza del 1799 fu garantita nei primi anni dell’occupazione napoleonica, all’inizio del secolo XIX, dalla presenza di non pochi protagonisti di quell’insorgenza, nella guida di gruppi armati di cui, grazie alle loro conoscenze logistiche e ambientali, furono in grado di favorirne la formazione, spesso sollecitati dalle autorità civili e militari degli Stati italiani conquistati, o dagli alleati britannici e austriaci.

Significativamente ufficiali napoleonici di diverse aree regionali denunciavano che nelle sollevazioni dei primi anni dei nuovi governi si era in presenza di gruppi armati formati da disertori in fuga – la nuova realtà di sradicati – e da “avanzi” del 1799. Le ferree e pianificate misure repressive, che colpivano indiscriminatamente, senza alcuna garanzia legale, le famiglie e le comunità di provenienza dei “briganti”, con metodi brutali come quelli del generale Charles Antoine Manhès nelle regioni meridionali, condussero sia all’arresto e alle condanne a morte di molti capi delle masse, sia alla defezione e al passaggio di alcuni di loro nelle fila napoleoniche (13).

L’azione repressiva, il sentimento di delusione, la sensazione di un ineluttabile dominio francese, l’isolamento e l’abbandono dei protagonisti delle sollevazioni segnarono una progressiva rottura con il 1799 e l’evoluzione dell’insorgenza in gruppi poco numerosi, frantumati, instabili e individualistici.

3. Il “brigantaggio”

Già negli scritti degli anni del Decennio napoleonico e poi nelle riflessioni di quelli successivi, soprattutto in relazione al caso dell’Italia meridionale, fu posta in discussione l’ossessiva qualifica di “brigante”, con cui le autorità napoleoniche definivano qualsiasi elemento che esprimesse opposizione e malcontento, una qualifica che ha avuto fortuna nella storiografia e nella pubblicistica, anche recente, come denunciava lo storico lucano Tommaso Pedìo: «Guerriglieri sono stati qualificati coloro che in Spagna, nel 1808, si opposero con le armi alle armate napoleoniche e le loro gesta sono state immortalate nelle tele di Francisco Goya (1769-1827). Patrioti sono stati considerati coloro che seguivano nel 1809 Andrea Hofer (1767-1810) e il loro canto di guerra è diventato l’inno nazionale delle popolazioni tirolesi. In Italia Meridionale, invece, chi nel 1806, rispondendo all’appello degli inglesi e a quello del proprio sovrano, si oppose all’invasore, è stato definito e continua a essere definito brigante» (14).

Particolarmente efficace, sul punto, la testimonianza del letterato francese Astolphe-Louis-Léonor, marchese de Custine, che viaggiò in Calabria nel maggio-giugno 1812. Egli, fra l’altro, scrisse: «[…] quando un soldato vuol portar via a un villano il suo cavallo o il suo asino lo chiama brigante; subito il misero abbandona bestia e carico e scappa via come un cervo. La parola “brigante” è un termine magico con il quale si esercita un brigantaggio più funesto al paese di quanto non lo sia la guerra civile» (15).

E ancora: «Nessuno qui si intende nell’uso dei termini, e io resto più di meraviglia quando vedo che un popolo intero, armato per difendere il suo legittimo re, lascia che gli si dica che è solo un’accozzaglia di briganti. Vi raccontano qui che i briganti hanno preso tale città e che erano ottomila. Vi dicono: i briganti si sono ritirati per questo passo, ne perirono seicento, ma cinquemila si salvarono. e io grido: come, briganti? Ottomila, cinquemila briganti, voi dite? …Dei soldati non sono dei banditi! Chiamateli ribelli, se volete, ma questi ribelli non combattono il nuovo governo che per fedeltà all’antico»(16).

insorgenzeAnche negli ambienti dell’insorgenza e fra gli osservatori del tempo vi fu consapevolezza del valore che aveva un’operazione linguistica tesa a denigrare e depotenziare una realtà almeno più complessa. «I nostri avversari che osano chiamarsi patrioti abusando le parole e a piaggiare l’oppressore […] ci gridano briganti», sono le parole di Giovan Battista de Micheli, capo-massa e vice-presidente in Calabria Citeriore, che venne fucilato dopo la caduta di Amantea (7 febbraio 1807), pronunciate in un importante discorso dell’agosto 1806 a Fiumefreddo, dopo la resa di Cosenza ai francesi, in cui indicava agli insorgenti una nuova strategia di lotta, che avrebbe assunto i caratteri della guerriglia e della guerra civile, con tratti terroristici: «la guerra sterminatrice» contro i patrioti. Continuava de Micheli: «Noi briganti! Scuotere il giogo straniero, restituire il re legittimo, e ciò per rialzare gli altari, corriggere il costume, riordinare lo Stato a reggimento nazionale, sono scopo dei nostri voti, dei nostri gesti e delle nostre armi. Armeggiare a torme, per ordinamenti e decreti delle podestà costituite, cooperare coi regolari, ecco i nostri mezzi» (17).

Con il termine “brigantaggio” in epoca napoleonica si possono indicare fenomeni e realtà analoghe, ma non coincidenti: l’analogia va ritrovata più che nelle loro origini, nelle forme organizzative e di azione. Vi era innanzitutto una continuità con il brigantaggio precedente attivo in particolare nelle zone di confine, in aree di passaggio e di montagna: quando lo Stato napoleonico impose un serrato controllo sociale, il brigante tradizionale divenne un punto di riferimento per i sempre più numerosi disertori, ma anche per gli agenti inglesi e borbonici, che potevano contare sulla sua conoscenza dei luoghi e sulla sua esperienza di attività di guerriglia.

La crisi dell’insorgenza portò a una frantumazione delle masse in piccoli gruppi incapaci o non desiderosi di integrarsi in formazioni più ampie e nei quali, in molti casi, finirono per prevalere i caratteri del brigantaggio comune, con attività di furto, vendette personali e familiari, sequestri di persona, grassazioni.

Accanto e intrecciato a questo, si può individuare un “brigantaggio politico” nel quale, pur sfumandosi i caratteri dell’insorgenza per assumere quelli delle bande, però, si conservavano sia valenze politiche o politicosociali e espressioni di evidente opposizione al regime, sia i collegamenti più o meno continuativi con gli agenti borbonici o inglesi.

È questo il caso – una volta trascorsa la prima insorgenza meridionale conclusa la “guerra calabrese” – delle bande a cavallo operanti nella Capitanata, dei fratelli Licuri, attivi nella valle del Vùlture, e quelle di Fortunato Cantalupo di San Paolo di Civitate, «fortemente politicizzate» (18), o di Gaetano Vardarelli, che portavano e imponevano le coccarde borboniche e ordinavano di non pagare l’imposta fondiaria. Nel Molise operava Sabatino Lombardi, detto “Maligno”, di Roccamandolfi, «uno dei capobanda più agguerriti e politicizzati del Matese, in collegamento strettissimo con le trame eversive di Borboni e inglesi», come nell’episodio dell’invasione del suo stesso paese natale (28 maggio 1807), che va messo in «organica connessione» con lo sbarco borbonico in Calabria (19) e la congiura tramata da Antonio Capece Minutolo, principe di Canosa, a Napoli.

La parabola delle bande brigantesche, pur nella diversità delle situazioni, rivela e rispecchia più ampie modificazioni sociali, in rapporto alle sempre più rigide chiusure nei confronti dei marginali, a una progressiva atomizzazione del corpo sociale, dietro la spinta di pressioni economiche, che disgregavano i precedenti assetti, e di politiche repressive sempre più efficaci, tese a spezzare antichi legami e a provocare, servendosene, attriti interni alle comunità. Il progressivo depauperamento non interessò solo i più bassi ceti contadini, ma anche i piccoli e medi proprietari, colpiti da un inasprimento fiscale che li costrinse a alienare parte del loro patrimonio.

A ben guardare, il brigante fu una figura più organica alla comunità di appartenenza e meno isolata di quanto una tradizione popolare abbia tramandato. La maggior parte degli aderenti a gruppi armati si dedicava al brigantaggio stagionalmente e su commissione, e per il resto dell’anno viveva in casa ed esercitava la sua professione.

Fra l’altro, l’analisi della composizione delle bande che si opposero ai nuovi governi napoleonici – in base a quanto ricavabile dai processi e dalle condanne – costringe a correggere l’idea che esse costituissero formazioni omogenee, composte solo dai ceti più bassi, in particolare contadini, e che quindi i moti in questione debbano considerarsi esclusivamente espressioni di rivolta sociale.

Per la rivolta di Ferrara del luglio 1808, che fu particolarmente ampia e cruenta e la cui repressione, organizzata dalla commissione militare, particolarmente feroce, l’analisi di trentuno capi-massa che vi parteciparono ha fatto emergere che dodici di essi erano possidenti, solo sette contadini, mentre altri appartenevano al mondo artigianale e dei commercianti (20).

Gli elenchi degli arrestati, fra i protagonisti veri o presunti delle azioni sovversive nel Chietino (1811) – dove l’opposizione anti-francese si concretizzò attraverso un brigantaggio ben organizzato e diffuso su tutto il territorio e si connotò per una spiccata valenza politica, anche se non mancarono forme delinquenziali –, mostrano una composizione sociale piuttosto varia delle bande: a parte la presenza di esponenti della nobile famiglia Giordano, tradizionalmente schierata con i Borboni – il «[…] che la dice lunga sul significato ampio e politico che il termine brigante aveva assunto in questi anni» – la maggior parte (21) era composta da agricoltori –campagnolo, bracciante, zappatore, contadino possidente –, poi artigiani, possidenti, studenti, preti, notai, ecc. Non appare neanche così netta la distinzione fra imputati di reati contro il governo, fra i ceti più alti, e imputati di furto o di reati comuni, fra quelli più bassi: infatti, non furono pochi i casi di agricoltori e di artigiani coinvolti in attività sovversive contro lo Stato, spesso in funzioni di capo-banda e accomunati a personaggi appartenenti a ceti sociali superiori.

Nell’Aquilano – dove «la maggior parte delle élites provinciali continuava a mantenere una fede borbonica, anche se non sempre chiaramente manifesta» (22) – la composizione sociale delle bande risultava eterogenea. Pochissimi i pastori, nonostante fosse il gruppo più penalizzato dalle riforme settecentesche e da quelle del periodo francese. Il gruppo più consistente era quello dei “giornalieri” e degli artigiani, anche qualificati. Un numero alto rispetto alle altre due province era costituito dai “proprietari”; non mancavano gli speziali, un notaio, dei possidenti. La presenza di quest’ultimi può spiegarsi con l’esistenza di una piccola e fragile proprietà diffusa nel territorio. Questa configurazione eterogenea, non riconducibile ai soli ceti poveri, degli insorgenti e dei briganti porta a ridimensionare la necessità delle loro azioni criminose che sarebbero avvenute dietro la spinta delle pessime condizioni di vita e allo scopo di procurarsi il necessario per sopravvivere, attraverso il crimine.

Dai registri delle sentenze pronunciate dalla Commissione Militare di Cosenza (1806-1811) emerge che la maggioranza dei condannati per brigantaggio era costituita da braccianti e piccoli artigiani, «non tanto per una precisa connotazione sociale della rivolta – commentano i curatori dei regesti di quelle sentenze – quanto perché braccianti e piccoli artigiani e agricoltori erano la parte preponderante della società calabrese» (23). Non mancavano, inoltre, benestanti e proprietari. La stessa fonte mette in luce sia la presenza di donne nelle bande, sia la cospicua partecipazione del clero secolare e regolare: molte bande avevano anche i loro cappellani.

Scrivendo al fratello imperatore che lo sollecitava a mettere in atto una repressione esemplare contro gli insorti, Giuseppe Bonaparte gli rappresentò l’insorgenza come una «guerre de les pauvres contre le riches» (24). In essa certamente ebbe importanza la motivazione socio-economica: ne furono una manifestazione gli assalti contro le proprietà e le persone di esponenti dei ceti borghesi e nobiliari – i cui legami con le popolazioni su cui esercitavano la propria autorità si erano spesso allentati fino a divenire particolarmente conflittuali – sostenitori di quelle riforme che li avevano favoriti, lacerando, già prima della Repubblica del 1799 e del decennio napoleonico, il tessuto economico tradizionale da cui dipendeva l’esistenza dei livelli più umili della società.

Nella valutazione del fenomeno, però, si dovrebbe dare spazio anche ad altre motivazioni, prima fra tutte a quella politica, e ripensarne gli aspetti sociali, non ricorrendo solo a categorie interpretative di tipo economico. Infatti, i legami sociali tradizionali – di tipo verticale e di patronage – permasero nel periodo repubblicano e napoleonico, pur caricandosi di valenze politiche e ideologiche: nel cinquantennio che va dalla fine del secolo XVIII al 1848, andarono formandosi schieramenti che erano anche la conseguenza di quella “scoperta della politica” che interessò sempre più vasti ceti popolari e che si espresse nell’elaborazione di nuovi linguaggi, nuove simboli e rituali, mentre l’autorità tradizionale acquistava i tratti di leader e di capi politico-militari identificati con quelle personalità che potevano contare su un ampio riconoscimento sociale ed erano capaci sia di coinvolgere ceti diversi, che di rappresentare più interessi.

Non vanno, infine, trascurati tentativi di piani insurrezionali più ampi, come quello che, in un contesto di aspirazioni a un regno unitario e indipendente per la Penisola, fece capo all’arciduca Francesco d’Austria, il quale, fra il 1811 e il 1813, in collegamento con gli inglesi, fu in contatto con emissari presenti in diverse regioni italiane con il compito di saggiare la possibilità di scatenare rivolte collegate fra loro. Uno di essi fu l’attivissimo abate Giacomo Brunazzi, organizzatore di gruppi armati che agirono in Dalmazia e Albania (25).

1. LA SECONDA INSORGENZAITALIANA (1803-1814)

Le differenze regionali dei fenomeni di opposizione popolare, insorgenza e brigantaggio dipendono, oltre che dai contesti politici degli Stati italiani, anche dai momenti e dai modi della conquista francese.

1. Il Piemonte

In Piemonte, per esempio, non vi fu soluzione di continuità fra la Guerra delle Alpi tra la Repubblica Francese e il Regno Sardo (1792-1796); la guerra partigiana dei barbets – i montanari delle Alpi Marittime, già attivi al fianco delle truppe regolari durante la guerra – dopo il 1799 (26); le azioni della Massa Cristiana del maggiore Branda de’ Ludioni (27) e le ribellioni dopo la battaglia di Marengo (Alessandria) (14 giugno 1800) e prima dell’annessione del Piemonte alla Francia, avvenuta due anni dopo.

Dal 1800 si segnalano molti episodi di reazione armata, perlopiù di corto respiro. Da subito le nuove autorità iniziano una «caccia ai realisti» – come è stata definita – che portò dal 1800 al 1814 a 423 condanne, di cui 111 solo nel 1803 (28).

Prima dell’annessione del 1802, l’ultima sollevazione di qualche ampiezza, che interessò la Valle d’Aosta e la zona del Canavese nei pressi di Ivrea, fu rappresentata dalla rivolta dei “socques”, cioè dei contadini che calzavano zoccoli, riedizione di quella del 1799 e che ebbe una replica addirittura nel 1853: le prime due reazioni erano dirette contro provvedimenti anti-religiosi e in difesa del sovrano, la terza fu una reazione alle pesanti imposizioni fiscali del governo sabaudo (29). L’“insurrection des Socques” del 1801 dovette coinvolgere ambienti diversi, in una comune opposizione, se fu accusato di avervi avuto un ruolo anche il vescovo di Ivrea. In seguito, il mondo dei realisti e dei legittimisti con le loro trame, che spesso si riducevano a diffondere notizie allarmistiche sulle sorti dell’esercito francese, e quello del brigantaggio comune e politico, rimasero distinti e poco comunicanti (26)

Negli anni 1803-1808 vi erano ancora bande consistenti numericamente, con capi autorevoli e con una certa continuità di azione. La più nota fu quella di Giuseppe Mayno della Spinetta, della zona di Alessandria. Mayno era un bandito comune, senza caratteri politici: la sua banda non giunse né al “barbettismo”, né alla guerriglia. Diverso è il caso dei fratelli di Narzòle (in provincia di Cuneo), gli Scarello, i quali non solo stabilirono relazioni con altre formazioni delle colline delle Langhe, liguri e del Canavese, ma anche con emissari inglesi. Comunque, nessun tentativo di insurrezione, sostenuto da questi ultimi, ebbe successo.

Si passò dalle bande di una certa consistenza a gruppi piccoli e continuamente frazionate e poi ricostituite, fino al bandito individuale e isolato dalla comunità. Questa parabola del “brigantaggio” piemontese, ricavabile soprattutto dai lavori di Michele Ruggiero (30), non è però necessariamente esemplare, anzi in altre situazioni trova smentite. Sembra infatti che i legami fra le bande e i capi-briganti e le comunità siano stati più duraturi e più tenaci, nonostante l’azione repressiva dei governi napoleonici (31), e che quella del bandito solitario sia più un’immagine romantica che reale. Fra l’altro, le bande riflettevano le strutture sociali tradizionali, in particolare quelle familiari e del clan.

2. La Toscana

In Toscana (32) il sentimento di malessere era diffusissimo e nasceva da diverse cause: il caro-prezzi, che fu all’origine dei tumulti del 1813, assieme alla coscrizione, e il blocco dei commerci che penalizzava i mercanti di Livorno che videro anche limitata la legislazione sul porto franco. Non si verificarono grandi episodi di rivolte, che difficilmente sarebbero durate a lungo in una regione fiaccata economicamente dalle continue guerre, con un regime come quello napoleonico, che sistematicamente e “razionalmente” schiacciava ogni forma di dissidenza. L’aspirazione a non andare al fronte, la volontà espressa di non combattere per i propri governanti e la diserzione – è stato detto – possono ritenersi «manifestazioni indirette di protesta», che permettono di verificare l’esistenza di «una divaricazione fra il potere costituito e la società» (33).

Sotto un’apparente calma, per tutto il periodo si protrasse uno stato di tensione documentato dalle sentenze delle commissioni militari per «cospirazioni e complotti». Negli anni del Regno d’Etruria (1801-1807) e in quelli successivi all’annessione all’Impero dominò la paura di una ripresa dell’insorgenza del 1799. Fu sottoposta a una rigida sorveglianza la città di Arezzo, dove è documentato che alcuni dei protagonisti del grande moto del Viva Maria del 1799 siano stati in relazione con agenti inglesi. Nel Casentino e nella Val Tiberina si manifestarono spinte insurrezionali e focolai di rivolta a capo dei quali si trovavano – secondo la documentazione governativa – «briganti avanzo dell’insurrezione aretina» (34) del 1799.

I mutamenti di queste insorgenze rispetto a quelle del 1799 furono acutamente colti dal direttore della polizia, secondo il quale non si doveva sottovalutare la possibilità di qualche tumulto, nonostante che quegli aristocratici, che erano stati a capo dell’insorgenza di fine 1700, orbitassero ormai nelle stanze del regime – a Parigi, «dans les grandes Places» – e non avessero certo intenzioni di fomentare rivolte (35). Si era, infatti, verificata una decapitazione politica del movimento contro-rivoluzionario, dovuta all’attrazione esercitata dal nuovo regime nei confronti anche di quell’aristocrazia reazionaria che nel 1799 si era posta a capo dell’insorgenza: la parabola politica del marchese Giovan Battista Albergotti, da capo del Viva Maria a collaboratore del nuovo regno napoleonico, in questo senso, è esemplare. Spezzato il fronte anti-francese, protagonista dell’opposizione rimase quasi esclusivamente la componente più popolare che finì per frammentarsi in tanti rivoli.

3. Il Lazio

Le questioni relative ai caratteri del brigantaggio del Lazio (36) negli anni napoleonici, in relazione o in continuità con i fenomeni precedenti, sono state oggetto di studi, in particolare per il Lazio meridionale, anche sulla scia di un esemplare studio di Elio Lodolini dedicato però al brigantaggio negli anni della Restaurazione (37). La parte meridionale della regione venne attraversata anche da bande provenienti dal Regno di Napoli, come i cosiddetti “fratelli calabresi”: si trattava di un fenomeno presente da tempo e combattuto dai governi pontifici, che continuarono a farlo negli anni della Restaurazione, pur facendo precedere l’azione repressiva dall’amnistia del 1814 e accompagnare dalle missioni popolari di san Gaspare del Bufalo e dei suoi sacerdoti (38).

Nonostante questi aspetti di continuità del fenomeno, appare pertinente e fondata l’individuazione di un “brigantaggio napoleonico” che fu – com’è stato affermato – «[…] la risposta popolare violenta alla violenza praticata dall’ideologia di cui lo stesso Napoleone si fece scaltro banditore», distinguendolo da un «brigantaggio postnapoleonico», dal momento che «[…] solo dopo la caduta di Napoleone il fenomeno assumerà […] connotati totalmente malavitosi» (39). Lo storico Corrado Lampe, in un contributo sul brigantaggio napoleonico nei Castelli Romani, osserva che «fino al 1809 esistevano nello Stato Pontificio solamente fenomeni di criminalità organizzata. Con il cambiamento il tutto diventa “brigantaggio”, problema politico di ordine pubblico» (40).

Per il Lazio, si può anche ricordare che nel Viterbese circolava una “Gazzetta dell’insorgenza di Spagna”, stampata da Felice Battaglia, un prete di Vitorchiano, che era già stato capo degli insorgenti nel 1798-1799, il quale riceveva lettere informative dalla Penisola Iberica attraverso Porto Santo Stefano. Battaglia pubblicava proclami che diffondeva nella regione, in cui sollecitava le popolazioni italiane a seguire l’esempio di quelle spagnole e aveva ideato un progetto di indipendenza e di unità della Penisola, mettendosi in contatto con ambienti massonici e murattiani da cui non ebbe molto credito, essendo considerato (a torto) un “papista mascherato”. Guidò, senza molta fortuna, un gruppo armato, collegato ad altri pure capeggiati da preti (41).

4. Parma e Piacenza

insorgenzeUn vasto moto di rivolte, fra il dicembre del 1805 e il febbraio del 1806, interessò l’arco appenninico bolognese, parmense e piacentino. Esso seguì l’introduzione nel Ducato di Parma e Piacenza42, in quel momento posto sotto l’amministratore generale Méderic Louis-Elie Moreau de Saint-Méry, di leggi riguardanti il matrimonio civile, la soppressione di conventi, alcuni inasprimenti fiscali e la coscrizione obbligatoria. Erano provvedimenti che colpivano, in particolare, la struttura familiare di tipo patriarcale dei villaggi appenninici le cui basi economiche erano rappresentate da piccole proprietà e dallo sfruttamento di usi civici, soprattutto pascoli e boschi.

Il 6 dicembre la rivolta ebbe inizio a Castel San Giovanni (Piacenza) dove si ammutinarono gli uomini arruolati e destinati a Verona, secondo gli ordini del viceré Eugenio Beauharnais. In pochi giorni, le valli del Taro, dello Stirone, del Nure, del Trebbia, del Tidone, dell’Arda si sollevarono. Alcuni grossi borghi – come Bobbio (43) – furono occupati dagli insorgenti, fra i quali – perlopiù contadini, piccoli proprietari, artigiani – non si trovano rappresentanti dei ceti elevati: la nobiltà da tempo risiedeva saltuariamente nei castelli e nelle ville di campagne, preferendo la vita cittadina e di corte.

La rivolta bobbiese non è assimilabile al brigantaggio, né alle bande di renitenti e disertori. Sembra anzi che si sia data un’organizzazione, con guide, uniformi, paghe giornaliere: «Sono in forma militare» (44), osservò un testimone. La coccarda imperiale e la bandiera spagnola, che ricordava l’origine iberica della dinastia dei Borbone-Parma, segnalano che nella rivolta non mancarono richiami politici più ampi.

Oltre all’attenuazione del peso fiscale, all’allontanamento degli ufficiali al servizio del nuovo governo e alla dedizione all’Austria, gli insorti chiesero che venissero ripristinate tutte le comunità di religiosi e che i matrimoni fossero celebrati solo secondo il rito cattolico. A febbraio la rivolta rientrò, ma Napoleone esigette un’esemplare punizione: Mezzano Scotti, il primo villaggio insorto, fu bruciato, e 21 uomini, fra cui due sacerdoti, vennero condannati a morte.

5. Il “caso” di Crespino

L’episodio forse più noto dell’insorgenza del 1805 è quello di Crespino (45), una borgata del distretto di Rovigo, nel Dipartimento napoleonico del Basso Po. Il 20 ottobre 1805 vi insorsero una cinquantina di contadini: assalirono gli uffici comunali, sperando nell’arrivo dell’aiuto austriaco, ma quando i soldati imperiali giunsero, furono costretti a ritirarsi rapidamente. La reazione di Napoleone fu molto dura: privò gli abitanti di Crespino della cittadinanza italica e stabilì che il suo territorio fosse considerato «una colonia del regno composta di gente senza patria» – scriverà nell’editto di condanna –, i cui abitanti dovevano pagare il doppio dell’imposta prediale. Fu anche stabilito che sopra la porta del paese venisse affissa una lapide con la scritta: “Napoleone I, imperatore dei Francesi e Re d’Italia ha decretato. Gli abitanti di Crespino non sono cittadini italiani”.

Il re d’Italia voleva la condanna di almeno tre persone, ma quando fu fucilato un pescivendolo arrivò la grazia. Come risulta dal testo della sentenza, la rivolta di Crespino interessò altri paesi, come Gavello e Adria, mentre a Rovigo si verificò un tentativo di sollevazione. Il testo metteva in evidenza la valenza anche politica della sollevazione, ricordando l’accoglienza favorevole al picchetto austriaco e lo sventolìo delle bandiere imperiali.

6. L’insorgenza del 1809 nell’Italia settentrionale

Nel 1809 si verificarono moti d’insorgenza che interessarono molti dipartimenti del Regno d’Italia . Al suo interno (46) vanno distinti due momenti in cui si evidenziarono motivazioni e caratteri peculiari, anche se riconducibili a un diffuso e profondo malessere delle popolazioni verso il governo napoleonico.

Nella primavera si manifestò la prima ondata, sia sulla spinta delle iniziative belliche dell’Austria e dell’offensiva dell’arciduca Giovanni d’Austria in Italia e sulla spinta dei successi della grande insorgenza guidata da Andreas Hofer in Tirolo. Mentre gli austriaci avanzavano fino a Este (Padova), gli inglesi minacciavano la costa adriatica e rivoltosi napoletani infestavano il Dipartimento del Tronto nel sud delle Marche. Si verificò un generale rallentamento dei vincoli governativi e una paralisi amministrativa nei dipartimenti a sud del Po e nelle Marche.

L’insorgenza dell’aprile-maggio 1809 interessò i dipartimenti del Bacchiglione, dell’Adige, della Brenta e dell’Adriatico, nel Veneto (47), la Valtellina e la Val Camonica nell’alta Lombardia, dove i moti ebbero un notevole seguito fra la popolazione locale48. La popolazione prendeva d’assalto gli uffici pubblici per distruggere la documentazione riguardante la coscrizioni e il fisco, quindi assaliva le case di quelle famiglie benestanti che si erano distinte nel sostegno al nuovo governo. A questo proposito è significativa la testimonianza di una cronaca relativa alla sollevazione del Vicentino, in cui si sottolinea che «i sollevati» non andavano «contro chi ha», ma «contro tutto quello che sente di Governo, e di cariche, e di opinioni» (49).

L’ondata del luglio 1809, quando le insorgenze si propagarono «ovunque», come scrisse un cronista del tempo , interessò (50) i dipartimenti padani – Reno, Adige, Brenta, Adriatico, Panaro, Crostolo, fino al Mincio – e furono provocati dall’entrata in vigore, il 1 luglio, del “dazio al minuto” sul grano, sul vino, sui liquori, sulle carni, oltre che dalle nuove e pesanti richieste di generi alimentari necessari all’approvvigionamento della fortezza di Mantova dove erano indirizzati i nuovi coscritti (51).

L’insorgenza del 1809 non fu un “tentativo di rivoluzione sociale”. Le richieste degli insorgenti si riassumevano nel voler ripristinare la situazione precedente: si volevano i prezzi «dell’antico governo» e il ritorno alle leggi del 1796, cioè di prima del governo repubblicano. Una rivolta classificabile – secondo l’espressione dello storico dell’insorgenza della Vandea francese Charles Tilly – come «violenza collettiva reazionaria», in cui «[…] i partecipanti generalmente reagivano a qualche mutamento che li privava dei diritti di cui godevano in passato» (52). Ma, come ha osservato Mario Leonardi, dalla lotta contro la coscrizione e il fiscalismo e dall’attacco alle autorità pubbliche e ai sostenitori del governo napoleonico «[…] era facile passare al rifiuto di tutto il sistema», rifiuto che si espresse negli slogan a favore della Repubblica di San Marco o dell’imperatore. In questo senso l’insorgenza mostra una tendenza «[…] a tramutarsi in rivolta contro il regime napoleonico» (53).

Va anche osservato che fra pauperismo, miseria e fame e rivolte non ci fu un legame lineare. La miseria e il malessere economico più spesso portavano a minacciare le autorità pubbliche e i possidenti o a commette furti, ma non a rivolte concrete. Lo ha osservato Giampaolo Fenzi, studiando il brigantaggio e la protesta popolare nel dipartimento dell’Arno: «L’opposizione popolare – nelle sue manifestazioni radicali – appare non solo il prodotto dell’accresciuto malessere materiale, ma anche e soprattutto l’effetto di un profondo trauma culturale» (54). La reazione fu non solo rivolta alle innovazioni responsabili del disagio materiale, ma anche a quelle estranee e ostili all’universo culturale delle popolazioni, private fra l’altro anche dei tradizionali mezzi che ammortizzavano le congiunture negative: gli usi civici, gli istituti di carità, le opere pie.

7. Le Marche

Nelle Marche insorgenti ascolani, già 55 nel 1806, aiutarono i soldati borbonici e i volontari abruzzesi nella difesa di Civitella del Tronto.   Nell’agosto del 1808 i tre dipartimenti marchigiani – in particolare lungo la fascia appenninica – furono interessati da una rivolta che coinvolse soprattutto i territori di Fabriano e Pergola, dove la direzione fu assunta dal medico Luigi Massa e dai conti Ilario e Stefano Della Genga, già capi-massa nel 1799.

Nella primavera 1809 s’infittirono le notizie di complotti e di cospirazioni nel dipartimento del Musone e soprattutto in quello del Tronto: qui le autorità sventarono una trama che avrebbe dovuto condurre l’11 maggio, giorno dell’Ascensione, a una vasta insurrezione coinvolgente i territori che si estendevano dal Teramano al Fermano e animata da diversi capimassa già operativi nel 1799. Il piano, che era collegato allo sbarco di truppe inglesi, fallì, ma i gruppi armati tentarono di assalire, senza successo, Ascoli, e soprattutto di impedire i collegamenti fra Roma e la città marchigiana.

insorgenzeAl centro di queste iniziative vi era Giacomo Costantini, anch’egli chiamato “Sciabolone” come il più noto padre Giuseppe, già capo-massa nel 1798-1799, difensore di Civitella nel 1806, che in seguito passò al fronte napoleonico. Giacomo Costantini diede prova d’intelligenza nel riorganizzare le bande, nel dare loro consistenza, disciplina e degli obiettivi tattici. La sua fucilazione favorì una frantumazione dell’insorgenza ascolana e teramana. In questo territorio, nonostante la comune involuzione dell’insorgenza verso forme di brigantaggio comune, si conservarono i caratteri di un’azione politica anti-napoleonica, anche in ricordo delle imprese del 1799 e del 1806.

8. Il Regno di Napoli

I fenomeni più significativi, per estensione e per durata, di opposizione armata all’invasione e al governo bonapartista si verificarono tuttavia nel Regno di Napoli , particolarmente nelle Calabrie: 56 essi rientrarono – senza però identificarsene del tutto – nella più generale strategia inglese di servirsi di una guerriglia locale per tenere sotto pressione l’esercito francese per impedirgli iniziative per la conquista della Sicilia. La “guerra calabrese” non esaurì la più vasta reazione che interessò tutte le regioni meridionali.

Dopo il 1799 – l’anno della riconquista sanfedista e dell’Armata condotta dal cardinale Fabrizio Ruffo di Baranello – nel Regno il ritorno all’ordine si concretizzò in un rinnovato assolutismo. Nei primi anni del 1800 Napoli era il classico “vaso di coccio” fra “vasi di ferro”, rappresentando una pedina importante nello scacchiere mediterraneo e nello scontro tra Francia e Inghilterra. Il barcamenarsi della corte arrivò alla resa dei conti con la definitiva alleanza fra Inghilterra, Russia e Austria nella terza coalizione anti-francese.

La conquista napoleonica fu resa possibile dalla vittoria dell’imperatore ad Austerlitz, il 2 dicembre 1805, cui seguirono le dichiarazioni di guerra della Francia e il progressivo abbandono di re Ferdinando da parte di inglesi e di russi. Con il comando affidato a Giuseppe Bonaparte e ad André Masséna, l’armata francese – composta da 43.110 uomini, 9.183 cavalli e 148 pezzi d’artiglieria – superò il confine romano del Regno di Napoli, il 10 febbraio 1806. Il 24 gennaio Re Ferdinando era già salpato per Palermo, dopo aver nominato il primogenito Francesco, vicario generale del Regno; lo seguirono la regina Maria Carolina d’Asburgo (1752-1814), la Corte e il resto della famiglia reale, il 6 febbraio.

8.1 La “guerra calabrese”

La conquista francese, nei mesi di febbraio-marzo, si rivelò poco più che una passeggiata. Mancò l’insurrezione popolare, nonostante il tentativo di dar vita all’indomani del 1799, con i resti delle “masse” sanfedistiche, a “corpi volanti”, costituiti da gente atta alle armi, non arruolata nell’esercito o nella milizia, ma considerata la “massa della nazione” che nel bisogno accorre alla propria difesa.

La spiegazione della mancata insurrezione delle masse va ascritta innanzitutto agli ordini contraddittori della Corte fuggita a Palermo, che passarono da quello di raccogliere uomini attorno ai capi-massa del 1799, nel gennaio 1806, a quello di sciogliere i pochi gruppi formatisi e di rinunciare a qualsiasi resistenza, nel febbraio successivo. Più in generale il clima che caratterizzava, al momento dell’invasione napoleonica, le popolazioni del Regno, e in particolare gli uomini che avevano partecipato alla riconquista del 1799 guidata dal cardinale Ruffo, era di delusione verso il re e verso la restaurazione monarchica, per i mancati riconoscimenti verso gli insorgenti, per la manifesta volontà di “silenziare” quelle vicende, vietando di pubblicare scritti sull’impresa della Santa Fede e per l’alleanza del 1801 con i francesi, gli antichi nemici.

All’indomani della rotta dell’esercito borbonico a Campotenese (9 marzo) gli unici episodi significativi di resistenza, contro ogni previsione, avvennero a Civitella del Tronto – cui contribuirono cospicue forze d’insorgenti abruzzesi e marchigiani – e a Gaeta – dove lo spirito di resistenza fu incarnato dal principe Luigi di Assia-Philippsthal, sostenuto dai corpi franchi di Michele Pezza, più noto come fra’ Diavolo (57) – che resistette fino al 18 luglio.

A questa prima fase, seguì una “reazione spontanea”, nei mesi marzogiugno 1806, che interessò in vario modo i paesi calabresi e della Terra di Lavoro dove furono inalberate bandiere borboniche da parte dei soldati e degli ufficiali francesi. Si reagiva alle sempre più opprimenti e violente richieste di approvvigionamento, alle requisizioni e contribuzioni continue, alle offese all’onore e alla dignità privati e pubblici, e al sentimento religioso.

Era stato, infatti, sconvolto un antico isolamento che per quei paesi aveva rappresentato una forma di indipendenza di fatto dal potere centrale, ora violato da un nuovo potere assai più pervasivo e oppressivo. In quegli stessi giorni proclami e discorsi – come quello del sacerdote Antonio Presta, Lettera per la classe popolare calabrese – diffondevano uno spirito di crociata, richiamandosi al 1799, «[…] epoca che tutti i nostri popolari Calabresi col segno della Croce fregiati, lo inimico ancora francese discacciassimo». La repressione fu durissima, (58) alimentando, in questo modo, uno stato di esasperazione e quindi una spirale di violenze diffuse.

La spedizione anglo-borbonica organizzata nel giugno-luglio 1806, guidata da William Sidney Smith e da John Stuart, e affiancata dai “corpi volanti” di Michele Pezza, del tenente colonnello Rocco Stoduti e di Filippo Cancellieri, che avevano il compito di dirigere i volontari, mirava non a recuperare il regno, ma a distogliere forze dall’assedio di Gaeta, indebolire i francesi e impedire l’attacco della Sicilia.

Fu l’inaspettata vittoria inglese a Maida – il 4 luglio – che mutò almeno momentaneamente le condizioni di superiorità francese in Calabria e diede l’avvio alla sollevazione generale. Maida fu l’episodio bellico più importante della guerra di Calabria, e riportò una notevole eco.

insorgenze_FerraraHa scritto lo storico Caldora: «Il disastro materiale e morale fu grande per i Francesi; e l’esito della giornata causò effetti gravissimi che avrebbero potuto esser fatali per lo stesso trono di Giuseppe, se gl’Inglesi avessero saputo o voluto portare alle estreme conseguenze la loro vittoria». Alla battaglia il contributo delle masse dei volontari fu quasi insignificante, ma proprio la rivolta, che all’indomani della vittoria inglese coinvolse la regione, concorse «[…] alle proporzioni del successo e a accrescerle», mutando «[…] la disfatta [francese] in una penosa e celere ritirata» (59), mentre Stuart, dopo aver fomentato l’insurrezione armata, la lasciava in balìa di se stessa e delle successive iniziative di Masséna Da Reggio a Mormanno, da Cotrone a Lauria, migliaia d’insorgenti in grosse formazioni, attaccarono la lunga e tormentata ritirata delle truppe francesi del generale Jean-Louis-Ébenezer, conte di Reynier, da Maida a Cassano. La rivolta calabrese fra l’estate 1806 e l’estate del 1807 assunse gli aspetti d’una insurrezione in massa con assedi e scontri in campo aperto.

Fu una rivolta generale: l’ufficiale Jean-Baptiste Franceschi-Delonne, capo di Stato maggiore di Masséna, osservò che a voler giustiziare tutti quelli che avevano preso le armi, in Calabria non sarebbe rimasto nessuno . Secondo Pietro Calà-Ulloa i tre (60) anni di guerra in Calabria – 1806-1808 – fra scontri e malattie costarono ai francesi ventimila uomini e alla popolazione locale un pesante salasso (61).

Altro focolaio di rivolte fu il Principato Citra, secondo solo alla Calabria «[…] per i livelli – quantitativi e qualitativi – della mobilitazione legittimista» (62): nella provincia di Salerno le masse borboniche ascesero fino a quattromila uomini nell’estate del 1806. A maggio si formarono piccoli gruppi armati, agguerriti e molto mobili, alimentati dagli inglesi, in cui non mancarono elementi provenienti dal banditismo comune. Dopo Maida, giunsero nel golfo di Policastro, diversi capi-massa che si erano rifugiati in Sicilia. «La propagazione della rivolta fu fulminea – scrive Barra –, grazie all’adesione di massa delle popolazioni del golfo di Policastro, del Cilento, del Lagonegrese e del vallo di Diano» (63).

La reazione francese partì all’indomani della caduta di Gaeta – il 18 luglio – per opera del generale André Masséna che, lasciata la fortezza, iniziò la marcia che doveva portarlo a sostenere le truppe del generale Reynier e a riconquistare la Calabria la quale, il 31 luglio, fu posta in stato di guerra: una riconquista accompagnata da nuovi e più feroci sistemi repressivi a base di saccheggi, stragi e rappresaglie sulle famiglie degli insorti.

Gli episodi bellici di questa fase furono moltissimi e spesso significativi: dalla resistenza di Lauria (8 agosto), che conobbe una terribile strage (64), alla battaglia campale di Moccone (13 agosto), dove la sconfitta subita segnò una svolta del modus operandi delle masse calabresi e anche lucane le quali, frantumandosi in piccoli gruppi sempre più autonomi e meno coordinati fra loro, andarono a operare in forme più vicine al brigantaggio, pur conservando in qualche modo connotazioni politiche, anche se meno evidenti . Moccone, però, non significò la fine della (65) rivolta.

Altri episodi bellici significativi furono l’assedio di Camerota – presa il 1° settembre –, difesa dal figlio del feudatario Paolo Marchese, duca di Poderia, e battezzata dagli insorgenti “la nostra piccola Gaeta”, la resistenza di Maratea, caduta il 10 dicembre, e l’assedio di Amantea, arresasi il 7 febbraio 1807. A Maratea si distinse Alessandro Mandarini, stimato dalla popolazione locale, fedele ai Borboni, ma alieno da ogni fanatismo, abbastanza autorevole da tenere a freno le masse più violente, ma anche impossibilitato a dar vita a iniziative più vaste a causa della mancanza di munizioni e truppe regolari capaci di disciplina, munizioni e truppe che – dopo aver dato fondo alle sue sostanze personali e familiari – chiese inutilmente al sovrano: infatti, scriveva, che «[…] per fomentare il lodevole entusiasmo delle masse e delle popolazioni […] basta loro la veduta di dette truppe» (66), osservazione che trova conferme in diversi episodi della guerra calabrese.

Nel maggio del 1807 una nuova spedizione, progettata e realizzata autonomamente dai Borboni dalla Sicilia in direzione delle coste calabresi, nonostante la contrarietà dei comandi inglesi, con il sostegno dei “corpi volanti”, fallì presto nello scontro decisivo di Mileto (28 maggio), anche a causa della mancanza di strategia da parte del comandante le forze borboniche, il principe d’Assia-Philippstadt. La “guerra calabrese” si concluse con la caduta, il 1° febbraio 1808, di Reggio – difesa fermamente dal colonnello Vito Nunziante, con la partecipazione spesso anarchica delle masse al comando di Nicola Gualtieri, detto “Panedigrano” (67), Giacomo Pisano, chiamato “Francatrippa”, Antonio Santoro, detto “Re Coremme”, Gaetano Nicastro e Giuseppe Maria Necco, che ebbero perdite per 200 uomini, mentre il resto fu reimbarcato per la Sicilia e di Scilla, controllata dagl’inglesi, il 17 febbraio 1808.

La nuova spedizione anglo-borbonica sulle coste napoletane, del giugno luglio 1809, è da mettersi in relazione con la ripresa dell’iniziativa bellica dell’Austria e con gli accordi fra quest’ultima e gli inglesi che inviarono forze navali nell’Alto Adriatico e nel Basso Tirreno. Alla spedizione partecipò un migliaio di volontari sbarcati a Reggio. L’arrivo delle notizie della ittoria francese sugli austriaci a Wagram, nei dintorni di Vienna, il 6 luglio, dell’armistizio dell’11 luglio fece decidere il ritorno a Messina.

La resistenza popolare aveva ormai assunto i caratteri della guerriglia e el brigantaggio, ma non perdette del tutto il connotato politico. Non mancarono noltre formazioni regolari, eredi dei “corpi volanti”, come i “volontari siciliani”, sotto il comando borbonico, che si distinsero nell’estate 1810, nel respingere la minaccia di sbarco di Joaquim Murat nell’isola, e le guide calabresi e i Calabrese Free Corps, organizzati dagli inglesi per il loro servizio di informazione.

8.2 La Basilicata

In qualche zona della Basilicata – il Lagonegrese (68) e la Val d’Agri nel 1806 la sollevazione popolare raggiunse le proporzioni e le forme dell’insurrezione generale. Già prima di luglio, nelle zone a nord-ovest della regione, al confine con il Principato, nelle montagne dell’alta Valle dell’Ofanto e del Tànagro, agivano bande armate con lo scopo di distrarre i francesi che da Salerno inseguivano i soldati borbonici in ritirata.

Ad alimentare e a organizzare la rivolta furono elementi legittimisti, di diversa estrazione, che diedero vita a una rete informativa e logistica. «Ecclesiastici e borghesi di sentimenti sanfedistici tenevano le fila del brigantaggio in Basilicata», ha scritto Umberto Caldora, il quale osservava anche: «È [… ] innegabile che il motivo politico è più di ogni altro predominante nelle azioni dei briganti basilicatesi [sic]. Non lo si trova con tanta continuità e con tanta evidenza in nessun’altra regione, neppure in Calabria e negli Abruzzi che passano come le più agguerrite nella reazione e come le più appassionate nella fedeltà ai Borboni» (69).

In questo frangente – e in altri – si distinse, in particolare, Francesco Antonio usciani (70), già capo-massa con il cardinale Ruffo, quindi divenuto barone, che si mise in contatto con legittimisti appartenenti al ceto dei notabili e degli ufficiali borbonici, in grado di dare garanzie all’organizzazione dell’insurrezione armata, nella quale non mancavano tuttavia elementi popolari che, già protagonisti dell’insorgenza del 1799, temevano le vendette del partito “filo-francese”.

Dall’inizio di luglio il centro organizzativo dell’insurrezione antinapoleonica divenne Sarconi, un modesto borgo dove i notabili non avevano accettato il nuovo regime. Nella località lucana fu costituito un “Comitato Insurrezionale” con un proprio corpo armato formato da uomini giunti dai paesi dell’area – già soldati delle truppe e delle masse realiste – che si fecero protagonisti di spedizioni nel territorio.

A seguito dei successi di Masséna e del mutato quadro politico-militare internazionale che spingeva gli inglesi a un progressivo disimpegno, lasciando così più soli gli insorti del Regno, rapidamente le sorti dell’insorgenzaì lucana si ribaltarono e le sconfitte dei filo-borbonici fioccarono.

Viggiano – l’ultimo centro di resistenza in Basilicata – cedette ai francesi il 17 agosto: seguirono, come di consueto, sacco e fucilazioni. Il “Comitato Insurrezionale” di Sarconi si sciolse, mentre pochi ribelli sfuggirono al rastrellamento. Alcuni capi-massa continuarono a battersi per la causa legittimista, secondo le direttive degli agenti borbonici, altri si costituirono ai comandi napoleonici. Obbiettivo dei gruppi di insorti non erano più cacciare i francesi, ma colpire i notabili locali che appoggiavano il nuovo governo.

Il brigantaggio lucano conobbe una nuova fiammata nell’estate 1809, in coincidenza con un’annata agricola sfavorevole e con la spedizione angloborbonica nei golfi di Napoli e di Policastro.

8.3 Conclusioni

Viva_MariaHa scritto Carlo Zaghi che, a differenza che nel Regno d’Italia, «[…] nell’Italia meridionale […] il brigantaggio fu reazionario, sanfedista e controrivoluzionario nel 1799 e realista dopo il 1806, e [in esso] l’elemento politico primeggia su tutto» . Jean-Jacques (71) Duret de Tavel, ufficiale francese nella guerra calabrese, della cui esperienza ha lasciato un diario sotto forma di lettere scritte al padre, a proposito dell’insurrezione popolare parlò di un «patriottismo politico e religioso» (72), espressione di una popolazione orgogliosa del proprio isolamento, sicuro rifugio contro ogni tirannia.

Quanto il governo borbonico in Sicilia controllò e diresse la resistenza anti-napoleonica? Si devono distinguere i “corpi volanti” organizzati dall’alto attraverso la nomina di commissari regi, e le masse che, pur agendo in nome del sovrano, si originavano dal basso intorno a capi, che riuscivano a raccogliere migliaia di uomini, ma dei quali le autorità borboniche diffidavano per il loro comportamento spesso inaffidabile e violento.

Con la fucilazione di alcuni commissari governativi – Giovan Battista Rodio e Michele Pezza – e il passaggio di altri (73) – Giuseppe Costantini e Gerardo Curcio, detto “Sciarpa” – ai filo-bonapartisti, il ruolo delle masse divenne sempre più determinante nella resistenza anti-napoleonica. Come si è visto, in alcune situazioni, come in Basilicata, a tenere le fila dell’insorgenza nella primavera-estate 1806 furono ufficiali borbonici e legittimisti reduci del 1799. Volendo ricostruire i diversi ambienti della resistenza anti-napoleonica non dev’essere sottovalutato l’episodio della congiura delle società borboniche, collegate alle iniziative del principe di Canosa, alla testa di “camiciotti” – volontari – albanesi e di emigrati napoletani, nelle isole di Ponza e di Ventotene, al largo del litorale campano.

Le società borboniche, che avevano avuto un importante ruolo nell’insorgenza del 1799 (74), avrebbero dovuto suscitare una rivolta a Napoli in coincidenza con la spedizione borbonica del maggio 1807. La trama fu scoperta e buona parte dei congiurati arrestati fu condannata e giustiziata (75).

l quadro, dunque, risulta complesso e non sempre facilmente ricomponibile. Di recente, studi come quello di John A. Davis hanno posto al centro dell’interpretazione degli anni rivoluzionari e napoleonici e della resistenza popolare la questione della crisi – politica, economica e militare – della monarchia meridionale e della sua legittimità, di cui la doppia fuga dei sovrani – nel 1798 e nel 1806 – rappresenta l’evento emblematico e significativo nella percezione popolare della Corona (76).

Alla questione della legittimità va collegata anche la figura dei leader delle masse che agivano in nome del re, segno che quel richiamo era sentito e condiviso dalle popolazioni, dalle quali, a sua volta, veniva al brigante una legittimità dal basso in quanto esse ne riconoscevano il carisma e la difesa dei loro interessi, anche in competizione, se non in conflitto, con i rappresentanti ufficiali.

Giuseppe Bonaparte

Il problema della legittimità interessò anche la nuova monarchia napoleonica di Napoli, che non la traeva dalla tradizione, ma la basava sulla forza della conquista e soprattutto sulla nuova ideologia imperiale di garanzia del nuovo ordine e della nuova legalità, usciti dalla rivoluzione, oltre che sul sostegno dei ceti possidenti e delle élites intellettuali.

Se buona parte della generazione “illuministica” meridionale aderì alla repubblica “giacobina” del 1799 e poi alla monarchia di Giuseppe Bonaparte e al suo riformismo, ampi settori della società conservarono sentimenti di fedeltà al sovrano, che però si andarono modificando in relazione ai nuovi contesti politici e militari nei quali lo stesso sovrano fu costretto più volte a appellarsi – seppure di malavoglia e opportunisticamente – alle popolazioni per la difesa dello Stato, e a riconoscere come “legittimi combattenti” — «soldati dei miei Reali Eserciti» – tutti coloro che erano insorti, senza distinzioni, contro l’invasore, salvo poi ribadire le ragioni assolutistiche della propria legittimità.

Il legame fra nazione e dinastia, nonostante i processi di atomizzazione e di disomogenizzazione sociale intrapresi dalla prima e le debolezze e gli opportunismi della seconda, non venne meno, ma trovò sviluppi nuovi, proprio al momento dell’instaurazione di una nuova monarchia.

Per il caso abruzzese nel decennio napoleonico – ma l’osservazione può allargarsi all’insieme della società del Regno – scrive Francesca Fausta Gallo che «[…] la scelta sostanzialmente filo-borbonica delle masse [e] di fette consistenti del clero, stava forse a significare una sostanziale accettazione di una dinastia che si riconosceva come “nazionale”, una sorta di patriottismo da “piccola nazione”, che si univa al senso di fedeltà dinastica» (77). È su questi nodi – vecchi e nuovi – di intendere la fedeltà, la legittimità e le relazioni fra nazione e sovrano che si andranno definendo gli schieramenti culturali e politici nei successivi anni del secolo XIX.

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SANDRO PETRUCCI, maceratese, dottorando in Antropologia, Filologia, Storia Medievale e Letteratura del Mediterraneo Occidentale presso l’Università di Sassari, è autore di molteplici ricerche e saggi sulla storia dell’insorgenza anti-giacobina e anti-napoleonica, in particolare di quella della sua regione, oltre a saggi di storia della Sardegna medievale. È membro corrispondente dell’Istituto Storico dell’Insorgenza e per l’Identità Nazionale per le Marche.

1) ATANASIO MOZZILLO, Calabria e Basilicata sotto la dinastia borbonica, in IDEM, Regno delle due Sicilie IV. Calabria Ultra e Citra, Basilicata (1734-1860), a cura di Gianni Guadalupi, Collana Antichi Stati, Franco Maria Ricci, Milano 1997, pp. 13-38 (p. 31).

2) LUIGI PUCCI, Indagini sul brigantaggio nel Dipartimento del Panaro del Crostolo, in MARINO BERENGO e SERGIO ROMAGNOLI (a cura di), Reggio e i Territori Estensi dall’Antico Regime all’età Napoleonica, Atti del Convegno di Studi Reggio Emilia, 18-19-20 marzo 1977, Pratiche, Modena 1980, pp. 271-294 (p. 276).

3) PIETRO CALÀ-ULLOA, Della sollevazione delle Calabrie contra a’ Francesi, Tipografia Morini, Roma 1871, p. 38.

4) A. MOZZILLO, Cronache della Calabria in guerra 1806-1811. Testi e documenti, 3 voll., ESI, Napoli 1972, vol. I, pp. 99-101.

5) LUIGI BLANCH, Il Regno di Napoli dal 1801 al 1806, in IDEM, Scritti storici, a cura di Benedetto Croce, 3 voll., Laterza, Bari 1945, vol. I, pp. 3-292 (pp. 46-47).

6) L. PUCCI, op. cit., p. 279.

7) Cit. in SIMONE BONECHI, La chiesa toscana di fronte a Napoleone: le diocesi di Firenze e Fiesole, “Annali della Fondazione Luigi Einaudi”, XXVIII (1994), pp. 358-410 (p. 407). Dello stesso autore cfr. L’alto clero toscano dal «Viva Maria» alla caduta di Napoleone, ivi, XXX (1996), pp. 237-306.

8) L. PUCCI, op. cit., p. 276.

9) RICHARD COBB, Polizia e popolo. La protesta popolare in Francia (1789-1820), trad. it., il Mulino, Bologna 1976, p. 131.

10) Cfr. JEAN PIERRE FILIPPINI, Diserzione e brigantaggio nella Toscana napoleonica, “Rivista Italiana di Studi Napoleonici”, 26/1 (1989), pp. 125-146. Lo storico, fra l’altro, osserva: «La parola “brigante” può anche diventare un aggettivo per parlare di un disertore che si comporta male». Sul tema cfr. anche ALEXANDER GRAB, Army, State, and Society: Conscription and Desertion in Napoleonic Italy (1802-1814), “Journal of Modern History”, 67/1 (1995), pp. 25-54.

11) Cit. in FRANCESCA FAUSTA GALLO, Dai gigli alle coccarde. Il conflitto politico in Abruzzo (1770-1815), Carocci, Roma 2002, pp. 88-89.

12) Cit. in GIUSEPPE BARTOCCI, L’insorgenza ascolana anti francese nel 1809 e la generosa fine di Giacomo Costantini figlio di «Sciabolone», “Atti e Memorie della Deputazione di Storia Patria per le Marche”, serie VIII, V (1966-1967), pp. 9-14 (p. 11).

13) Cfr. FRANCESCO BARRA, Manhès e la repressione del brigantaggio lucano (1810-1811), in IDEM, Il brigantaggio del Decennio francese (1806-1815). Studi e ricerche, Plectica, Salerno 2003, pp. 125-143.

14) TOMMASO PEDIO, L’insurrezione antifrancese in Basilicata nel 1806, “Archivio Storico Italiano”, CXL (1982), pp. 603-659, ora in IDEM, Brigantaggio meridionale (1806-1863), Capone, Cavallino (Lecce) 1997, pp. 5-44 (p. 7). «Sono stati […] i Francesi, scesi in Italia Meridionale nel 1799, a adottare per primi questo termine per indicare coloro che a essi si opponevano. È un termine questo nuovo nella lingua napoletana e lo ha sempre ignorato il legislatore: a Napoli sono stati sempre indicati come banditi o fuorbanditi i fuori legge datisi alla campagna e come proditores, distinti dai primi, i ribelli scesi in armi contro il potere costituito» (IDEM, Brigantaggio e questione meridionale, a cura di Mauro Spagnoletti, Edizioni Levante, Bari 1982, p. 120).

15) Cit. in A. MOZZILLO, Cronache della Calabria in guerra, cit., pp. 191-192. Cit. in UMBERTO CALDORA, Fra patriotti e briganti, Adriatica Editrice, Bari 1974, pp. 200-201; cfr. anche ASTOL

16) -PHE DE CUSTINE, Il viaggio in Calabria, trad. it., a cura di Anna Maria Rubino Campini, Flaccovio, Palermo 1979.

17) Il testo del discorso è in A. MOZZILLO, Cronache della Calabria in guerra, cit., vol. I, pp. 349-350.

18) F. BARRA, Il brigantaggio in Capitanata, in IDEM, Il brigantaggio del Decennio francese (1806-1815). Studi e ricerche, cit., pp. 145-191 (p. 171).

19) IDEM, Brigantaggio e crisi del comunitarismo pastorale. Il caso di Roccamandolfi, ivi, pp. 145-191 (pp. 150-151).

20) Cfr. VALENTINO SANI, Le rivolte antifrancesi nel Ferrarese, “Studi storici”, 39 (aprile giugno 1998), pp. 473-494 (p. 493), ora in ANNA MARIA RAO (a cura di), Folle controrivoluzionarie. La questione delle insorgenze italiane, Carocci, Roma 1999, pp. 195-216.

21) F. F. GALLO, op. cit., pp. 176-177.

22) Ivi, p. 247.

23) RAOUL GUÈZE, ROBERTO GUARASCI e ANNAROSA ROVELLA, La rivolta anti-francese delle Calabrie (1806-1813), Editoriale Progetto 2000, Cosenza 1990.

24) A. MOZZILLO, Cronache della Calabria in guerra, cit., vol. I, p. 98. La lettera di Giuseppe Bonaparte al fratello Napoleone I è dell’8 agosto 1806.

25) Cfr. ADOLFO VOLTA, L’Inghilterra e un piano d’unificazione italiana, “Atti e Memorie della Deputazione Patria per le Antiche Province Modenesi”, serie 8, V (1953), pp. 77-90; e SERGIO CELLA, Brunazzi, Giacomo, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1972, vol. XIV, pp. 530-531.

26) fr. MICHEL IAFELICE, Barbets! Les resistances à la domination francaise dans le Pays Niçois (1792-1814), prefazione di Michel Vovelle, Serre, Nice 1998.

27) u questo singolare capo-massa, cfr. MARCO ALBERA e OSCAR SANGUINETTI, Il maggiore Branda de’ Lucioni e la Massa Cristiana». Aspetti e figure dell’insorgenza anti-giacobina e della liberazione del Piemonte nel 1799, Libreria iemontese Editrice, Torino 1999.

28) fr. MICHELE RUGGIERO, Storia dei briganti piemontesi (1796-1814), Alzani, Pinerolo (Torino) 1998, p. 101.

29) Cfr. M. IAFELICE, Une résistance populaire à l’occupation française du Comté de Nice: les Barbets (1792-1814), Pays Vésubien”, 3 (2002), pp. 38-46.

30) Cfr. M. RUGGIERO, Storia dei briganti piemontesi (1796-1814), cit.; IDEM, La rivolta dei contadini piemontesi. 1796-1802, Piemonte in Bancarella, Torino 1974; e ID., Briganti del Piemonte napoleonico, La Bouquiniste, Torino 1968.

31) «In definitiva, era lo stretto legame tra le bande e la vita tradizionale delle comunità contadine a determinare la loro sopravvivenza nei periodi più difficili» (AGNESE SINISI, Antigiacobinismo e sanfedismo, in Storia della società italiana, Teti, Milano 1985, vol. XIII, L’Italia giacobina e napoleonica, pp. 219-252 (p. 249)).

32) Sull’insorgenza toscana cfr., passim, i saggi raccolti da Ivan Tognarini in La Toscana nell’età rivoluzionaria e napoleonica, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1985, e in La Toscana e la rivoluzione francese, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1994.

33) GIOVANNI LUSERONI, La Toscana nell’Impero napoleonico. Alcune notizie sulla resistenza alla coscrizione e sugli

atteggiamenti di fronte alla guerra, “Rivista Italiana di Studi Napoleonici”, 26/1 (1989) pp. 103-124 (p. 106).

34) GIAMPAOLO FENZI, Brigantaggio e protesta popolare nel dipartimento dell’Arno 1808-1814, in La Toscana e la rivoluzione

francese, cit., pp. 223-263 (p. 231).

35) Ivi, p. 233.

36) Sul fenomeno del brigantaggio laziale, cfr. i saggi contenuti ne Il brigantaggio nel Lazio meridionale. Atti del convegno (Patrica 25 aprile 1984), Amministrazione Provinciale, Frosinone 1986; Gli anni rivoluzionari nel Lazio meridionale (1789-1815). Atti del convegno (Patrica 29 ottobre 1989), Istituto di Storia e di Arte del Lazio Meridionale, Patrica (Frosinone) 1990.

37) Cfr. ELIO LODOLINI, Il brigantaggio nel Lazio meridionale dopo la Restaurazione (1814-1825), “Archivio della Società Romana di Storia Patria”, LXXXIII (1960), pp. 189-268.

38) Cfr. MICHELE COLAGIOVANNI, Il brigantaggio nel Lazio meridionale e l’opera di Gaspare del Bufalo, Edizioni Pia Unione del Preziosissimo Sangue (EPUPS), Roma 1986.

39) IDEM, Il triangolo della morte. Il brigantaggio di confine nel Lazio meridionale tra Sette e Ottocento, Il calamo, Roma 2000, p. 104.

40) CORRADO LAMPE, Il brigantaggio napoleonico nei Castelli Romani, ne Il brigantaggio nel Lazio meridionale, cit., pp. 53-66 (p. 56).

41) Cfr. DOMENICO SPADONI, Un prete brigante-patriota nel 1812-13, “Rassegna storica del Risorgimento”, VI (1919), pp. 645-670; e UMBERTO COLDAGELLI, Battaglia, Felice, in Dizionario biografico degli italiani, cit., vol. VII, pp. 210-212.

42) Cfr. VINCENZO PALTRINIERI, I moti contro Napoleone negli stati di Parma e Piacenza (1805-1806) con altri studi storici, Zanichelli, Bologna 1927; e VINCENZO PANCOTTI, Un episodio della rivolta piacentina contro il governo francese, “Ars Nova”, Piacenza, ottobre 1924, pp. 434-444.

43) Cfr. GIORGIO FIORI, Bobbio e l’invasione napoleonica (1796-1814), in L’Emilia nel periodo napoleonico. Atti e memorie del Convegno Reggio Emilia, 17-18 ottobre 1964, Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, Comitato di Reggio Emilia, ivi 1966, pp. 150-170.

44) Cit. in RINALDO SALVADORI, Moti giacobini e insorgenze antinapoleoniche in Val Padana, in Storia della società italiana, cit., vol. XIII, L’Italia giacobina e napoleonica, pp. 189-217 (p. 209).

45) Sull’insorgenza di Crespino cfr. GIUSEPPE ROBERTI, Il fatto di Crespino, episodio della dominazione napoleonica in Italia, “La Rassegna Nazionale”, 16-5-1906, pp. 283-288; e ALFREDO CAMILLUCCI, Gl’«insorgenti» del Ferrarese e l’episodio Napoleonico di Crespino. Conferenza tenuta nel Circolo di Cultura in Copparo il 28 febbraio, Cappelli, Copparo (Ferrara) 1939.

46) A questi fenomeni, nel convegno Napoleone e Regno d’Italia (1905-1814). La Lombardia fra cesarismo post-rivoluzionario e prime forme di unificazione nazionale, svoltosi a Milano, all’Università del Sacro Cuore il 18 e 19 novembre 2005, fu dedicata la relazione di Oscar Sanguinetti, direttore dell’Istituto per la Storia dell’Insorgenza e dell’Identità Nazionale (Isiin), dal titolo Le insorgenze nel territorio del Regno d’Italia e la «calda estate» del 1809 (gli atti relativi sono in corso di stampa).

47) Cfr. CARLO BULLO, Dei movimenti insurrezionali del Veneto sotto il dominio napoleonico, specialmente del brigantaggio politico del 1809, “Nuovo Archivio Veneto”, VII (1897), pp. 353-369; VIII (1898), pp. 81-88; IX (1899), pp. 66-101, e pp. 300-347.

48) Per le valli lombarde, cfr. GELLIO CASSI, L’Alta Lombardia durante l’insurrezione tirolese nel 1809, “Rassegna Storica del Risorgimento”, XVIII (1931), fascc. II-III, pp. 289-328.

49) Sollevazione del Territorio Vicentino nell’anno 1809. Dal diario della contessa Ottavia Negri-Velo (Vicenza 1896), cit. in MARIO LEONARDI, L’insorgenza del 1809 nel Regno d’Italia, “Annuario dell’Istituto Storico Italiano per l’Età Moderna e Contemporanea”, XXXI-XXXII (1979-1980), pp. 435-447 (p. 446).

50) Cit. in R. SALVADORI, op. cit., p. 211.

51) Cfr. GIULIO NATALI, L’insorgenza del 1809 nel dipartimento del Reno, “Atti e Memorie della Regia Deputazione di Storia Patria per l’Emilia e la Romagna”, II (1936-1937), pp. 11-14 e pp. 36-41. Su un capo-massa locale, cfr. FRANCESCO MARIO AGNOLI, Prospero Baschieri, un eroe dell’Insorgenza padana. (1809-1810), Tabula Fati, Chieti 2002.

52) CHARLES TILLY, Le forme storiche della violenza collettiva, in Movimenti di rivolta. Teorie e forme dell’azione collettiva, a cura di Alberto Melucci, Etas Libri, Milano 1976, pp. 235-243 (p. 238).

53) M. LEONARDI, op. cit., pp. 435-447.

54) G. FENZI, op. cit., p. 235.

55) Sulle Marche cfr. GIOVANNI ACCORRONI, Notizie sul brigante Pietro Masi detto Bellente. 1789-1812, Tip. P. Colcerasa, Macerata 1925; GIOVANNI SPADONI, L’insorgenza marchigiana durante il Regno italico, “Le Marche nel Risorgimento italiano”, I, 2 (1925); D. e G. SPADONI, Uomini e fatti delle Marche nel Risorgimento italiano, Unione Tipografica Operaia, Macerata 1927; PIO CARTECHINI, Organi e uffici dell’amministrazione napolenica a Macerata dal 1808 al 1815, “Studi Maceratesi”, vol. VIII, L’età napoleonica nel Maceratese. Atti dell’VIII Convegno di studi maceratesi (Tolentino, 28-29 ottobre 1972), Centro di Studi Storici Maceratesi, Macerata 1974, pp. 324-499 (pp. 334-341); GIANCARLO CARTECHINI, Episodi di brigantaggio legati alla coscrizione obbligatoria nel dipartimento del Musone (1808-1814), “Studi Maceratesi”, XXIX, Atti del XIX Convegno di studi maceratesi (Porto Recanati, 13-14 novembre 1993), Centro di Studi Storici Maceratesi, Macerata 1994, pp. 463-529; e TIMOTEO GALANTI, Dagli Sciaboloni ai Piccioni. Il «brigantaggio» politico nella Marca pontificia ascolana dal 1798 al 1865, Edigrafital, Sant’Atto (Teramo) 1990.

56) Oltre i lavori citati nelle note seguenti, su Napoli cfr. LUIGI MARIA GRECO, Annali di Citeriore Calabria dal 1806 al 1811, Migliaccio, Cosenza 1872 (reprint, con una introduzione di Gaetano Cingari e una nota di A. Mozzillo, Cassa di Risparmio di Calabria e Lucania-Edizioni del Tornese, Cosenza-Roma 1979); JACQUES RAMBAUD, Naples sous Joseph Bonaparte. 1806-1808, Plon-Nourrit, Paris 1911; U. CALDORA, Calabria napoleonica (1806-1815), Fiorentino, Napoli 1960; G. CINGARI, Brigantaggio, proprietari e contadini nel Sud, 1799-1900, Editori Meridionali Riuniti, Reggio Calabria 1976; e ANGELA VALENTE, Gioacchino Murat e l’Italia meridionale, Einaudi, Torino 1976. Sull’organizzazione delle masse degli insorgenti meridionali e soprattutto sulla loro attività in relazione alla strategia inglese ho potuto attingere al voluminoso lavoro di VIRGILIO ILARI, PIERO CROCIANI e GIANCARLO BOERI, Le Due Sicilie nelle guerre napoleoniche (1800-1815), che sarà pubblicato dall’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito. Ringrazio il professor Ilàri che mi ha permesso di visionarlo in anteprima. Esso rappresenta un’opera molto importante soprattutto per la grande ricchezza delle fonti utilizzate.

57) Su di lui, cfr., fra l’altro, F. BARRA, Michele Pezza detto Fra’ Diavolo. Vita, avventure e morte di un guerrigliero dell’800 e sue memorie inedite, Avagliano, Cava de’ Tirreni (Salerno) 2000.

58) A. MOZZILLO, Cronache della Calabria in guerra, cit., vol. I, p. 240.

59) U. CALDORA, Fra patriotti e briganti, cit., p. 179 (entrambi i brani).

60) Cfr. A. MOZZILLO, Cronache della Calabria in guerra, cit., p. 191.

61) «Costò a’ Francesi quella guerra tra malattie e rabbia Calabrese circa ventimila ottimi soldati. De’ Calabresi, fatto il censo tre anni di poi, mancavan più del doppio» (P. CALÀ-ULLOA, op. cit., p. 421).

62) F. BARRA, Il Principato Citra nell’insurrezione antifrancese dell’estate 1806, in IDEM, Il brigantaggio del Decennio francese, cit., pp. 27-61 (p. 27).

63) Ivi, p. 37.

64) Racconta un cronista locale che «[…] circa mille cittadini caddero sotto il ferro nemico, centoquarantadue case furono preda delle fiamme in Lauria Superiore e due terzi di tutte le altre in Lauria Inferiore, e in esse le due chiese madri e il magnifico convento dei Minori Osservanti» (cit. in T. PEDIO, op. cit., p. 28).

65) Ha osservato Atanasio Mozzillo: «Quando ci trova di fronte a veri e propri eserciti – e questo accade di frequente, almeno fin quando i calabresi non vengono battuti a Moccone – parlare di banditismo significa ostentare una malafede talmente palese da suscitare il ridicolo» (IDEM, Cronache della Calabria in guerra, cit., vol. I, p. 193).

66) F. BARRA, Cronache del brigantaggio meridionale (1806-1815), Vincenzo Ursini, Catanzaro 1981, pp. 103-122 (cap. VI, L’assedio di Maratea).

67) Su di lui, cfr. VINCENZO VILLELLA, L’albero della libertà. Sanfedismo e occupazione francese attraverso la storia del brigante Panedigrano, La modernissima, Lamezia Terme (Catanzaro) 1987.

68) Cfr. T. PEDIO, op. cit., pp. 5-44.

69) U. CALDORA, Fra patriotti e briganti, cit., p. 231 e pp. 236-237.

70) Su di lui cfr. ELIANA RUSCIANI Biografia di un capomassa. Francesco Antonio Rusciani (1771-1813). Con documenti inediti, Rubbettino, Soveria Mannelli (Catanzaro) 2006.

71) CARLO ZAGHI, L’Italia di Napoleone, Utet, Torino 1989, p. 333.

72) Cit. in A. MOZZILLO, Cronache della Calabria in guerra, cit., vol. I, pp. 189-190. Cfr. anche JEAN-JACQUES DURET DE TAVEL, Lettere dalla Calabria, trad. it., introduzione di Carlo Carlino, Rubbettino, Soveria Mannelli (Catanzaro)

73) Su di lui, vedi J. RAMBAUD, Il processo del Marchese Rodio, “Archivio Storico per le Provincie Napoletane”, XXIII (1908), fasc. II, pp. 254-276.

74) Cfr. EMILIO GIN, Santa Fede e congiura antirepubblicana, Gallina, Napoli 1999; e ANNA LISA SANNINO, L’altro 1799. Cultura antidemocratica e pratica politica controrivoluzionaria nel tardo Settecento napoletano, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2002.

75) Su questo episodio, cfr. F. BARRA, Cronache del brigantaggio meridionale (1806-1815), cit., cap. VIII, Il principe di Canosa e le trame antifrancesi, pp. 161-169.

76) JOHN A. DAVIS, Rivolte popolari e controrivoluzione nel Mezzogiorno continentale, “Studi storici”, 39 (aprile-giugno 1998), ora in A. M. RAO (a cura di), op. cit., pp. 341-368.

77) F. F. GALLO, op. cit., p. 13

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