Introduzione alla Dottrina sociale della Chiesa

logo_vaticanoOsservatorio Internazionale Cardinale Van Thuân

Newsletter n.798 del 15 Maggio 2017

 Il 2 maggio 2017, presso il tempio Mariano di Monte Grisa (Trieste), Silvio Brachetta ha tenuto una relazione sul tema “Introduzione alla Dottrina sociale della Chiesa”. L’incontro ha aperto una serie di conferenze che saranno tenute dal Relatore per il progetto “Al cuore dei grandi temi della fede e del pensiero”, organizzato dall’Associazione “Only one Family” di Trieste in collaborazione col Settimanale diocesano “Vita Nuova” e l’Osservatorio Cardinale Van Thuân sulla Dottrina sociale della Chiesa. Pubblichiamo qui di seguito il testo della relazione

 Premessa

Nel 1941 Pio XII conia l’espressione “Dottrina sociale [cattolica]” (Doctrina socialis) [1], per dire che esiste una “Dottrina sociale della Chiesa” (Dsc). «Leone XIII preferiva parlare di “filosofia cristiana” e Pio XI di “dottrina sociale ed economica”» [2].

Il termine, dunque, è moderno e sarà utilizzato dai pontefici successivi fino ad oggi per indicare quell’«insieme di principi, teorie, insegnamenti e direttive, emanate dalla Chiesa cattolica, in relazione ai problemi di natura sociale ed economica del mondo contemporaneo» [3].

Vedremo, però, che questa definizione è riduttiva, perché la Dsc non riguarda solo la contemporaneità, ma ha radici ben più antiche. Bisogna quindi parlare eventualmente di una fase moderna della Dcs: l’impulso a trattare nuovamente, ampiamente, di Dsc venne da Leone XIII, che nel 1891 emanò la Rerum novarum, considerata la prima enciclica sociale.

E tuttavia di Leone XIII, della Rerum novarum, della questione sociale (esplosa nel XIX secolo) e delle soluzioni proposte dalla Chiesa ai problemi della società moderna, ne parleremo per sommi capi alla fine. Ora invece è importante capire perché esiste una Dsc, a prescindere dai tempi e dalle circostanze storiche. Questo è il tema fondamentale del nostro incontro.

La Rivelazione

dottrina_socialeLa Rivelazione, cioè la manifestazione di Dio (della sua verità e del suo amore) agli uomini, avviene nel mondo reale. E il mondo reale è fatto d’individui, di famiglie, di stirpi, di tribù, di generazioni, di corpi sociali e di formazioni politiche e giuridiche. La trama biblica è fondata sugli eventi in seno ai singoli e alle formazioni sociali.

Israele, come altre nazioni, non è mai stato un popolo con la vocazione al disordine. Già nella Genesi sono presenti alcune genealogie, per fissare le discendenze in modo ordinato. Se è vero che tutte le nazioni si reggono sull’ordine sociale, è in Israele che se ne devono rintracciare le motivazioni teologiche.

Le genealogie ricorrono spesso nelle Sacre Scritture, tanto nell’Antico, quanto nel Nuovo Testamento. Il popolo si organizza nelle dodici tribù, di cui, nel libro dei Numeri, ne è descritto il censimento, su comando di Dio. Nel deserto, Mosè è convinto dal suocero Ietro a scegliere i giudici, perché siano costituiti sopra Israele «come capi di migliaia, capi di centinaia, capi di cinquantine e capi di decine» [4].

Il popolo dell’Alleanza, come del resto altri popoli, non somiglia a una massa eterogenea, ma è raggruppato con ordine fin dai tempi più antichi, in pace e in guerra. Tra il singolo e il re sorgono, col passare dei secoli, corpi sociali intermedi, per lo più secondo le proporzioni del quintuplo, del decuplo o del centuplo.

Sulla montagna, presso il lago di Tiberiade, Gesù è attorniato da una folla di almeno cinquemila persone[5]. Prima della moltiplicazione miracolosa dei pani e dei pesci, il Signore dice ai discepoli: «Fateli sedere per gruppi di cinquanta» [6]. Sant’Agostino dice che il numero cinque simboleggia coloro che sono sotto la legge, di cui il Pentateuco è la figura[7]. E Origene presenta il «cinquanta» come la «cifra implicante il perdono, stando al mistero dei giubilei, che si celebravano ogni cinquant’anni» [8].

Esiste dunque un legame arcano tra l’ordine sociale israelitico, espresso dal numero e dal tempo, e la salvezza, che si realizza nella legge (giustizia), nel pentimento e nel perdono (misericordia). La società, poi, è fondata sulla famiglia, che è la «cellula originaria della vita sociale» [9], poiché «Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò»[10]. In particolare, sono da menzionare la famiglia di Adamo e la Sacra Famiglia del Nuovo Testamento.

La prima famiglia – i Progenitori

compendio_dottrina_socialeAl tempo dei Progenitori – scrive Samuele Cecotti – «le tre società naturali (famiglia, società civile e comunità politica) coincisero nei membri […]» [11]. Più precisamente: «Sin dall’Eden l’umanità costituì una res publica ed Adamo fu re. Al tempo dei Progenitori le tre società naturali (famiglia, società civile e comunità politica) coincisero nei membri, non nei fini propri di ciascuna, Adamo fu marito, padre e re senza che la patria e regalis potestas si identificassero tra loro». [12]

Cecotti scrive questa riflessione per provare che: «La comunità politica (e con essa la regalis potestas) non deriva né dall’evoluzione della famiglia e della autorità paterna, né dall’unione contrattuale di realtà sociali preesistenti e autarchiche, non vi fu età senza “Stato” ovvero la comunità politica è società naturale voluta da Dio, in quanto richiesta dalla natura umana, prima ancora del peccato originale» [13].

Di conseguenza Eva è già, per il fatto di essere stata creata come essere umano, moglie, madre e regina. Tutta la società è dunque già presente nella prima famiglia del genere umano. Non solo, ma già nelle primissime fasi della Rivelazione è presente anche l’insegnamento sociale. Non soltanto l’insegnamento sociale, ma certamente anche questo.

Primo breve excursus terminologico – ‘dottrina’

Il termine ‘dottrina’ si riferisce all’insegnamento che ci viene dalla Rivelazione, che ha due aspetti: un aspetto individuale e uno sociale. I due aspetti non sono separati e separabili tra loro. Con Gesù Cristo – in quanto Maestro – è anche più facile capire perché la dottrina sia un insegnamento. C’è però un problema legato al termine ‘insegnamento’. Ne ha parlato l’arcivescovo Crepaldi, in questi termini:

«La “Dottrina sociale della Chiesa”, come dice la stessa espressione, è una “dottrina”. Per molto tempo, però, soprattutto negli anni Settanta e Ottanta, molti contestavano questo termine e cercavano di sostituirlo con altri, come per esempio “Insegnamento” sociale della Chiesa, oppure “Discorso” sociale della Chiesa. La parola dottrina, si diceva, è inadatta ad esprimere bene il concetto. Il principale argomento a sostegno di questa critica era che il termine “dottrina” era ritenuto astratto, teorico, deduttivo, mentre la vita sociale e politica era considerata concreta, sempre nuova, induttiva.

L’uso del termine “dottrina” lasciava intendere ancora il metodo di partire dall’alto anziché dal basso, dai principi di per sé lontani dalla concretezza della realtà, dall’intellettualismo delle formule. Il percorso doveva invece avvenire al contrario, dalle situazioni umane, dai bisogni, dalle condizioni storiche di ingiustizia e di povertà bisognava partire per elaborare nuovi orizzonti dottrinali capaci di far progredire la prassi di giustizia e di pace». [14]

In altre parole, quando al posto di ‘dottrina’ si sono usate le parole ‘insegnamento’ o ‘discorso’, sono stati svalutati i contenuti veritativi della Rivelazione, fino a metterli da parte.

Fu così allora che «I termini “insegnamento” o “discorso”, data la loro strumentalità, vennero abbandonati, il magistero ha continuato a parlare di “Dottrina” sociale della Chiesa ed oggi questa è ancora l’espressione adoperata da tutti, anche da coloro che non hanno nel frattempo perso l’abitudine di contestarla». [15]

Secondo breve excursus terminologico – ‘natura’

dottrina_socialeQuando i filosofi o i teologi parlano di ‘natura’ – in riferimento alla natura umana o alla legge naturale – non intendono affatto parlare della jungla, della foresta, dei boschi, della fauna o di altre cose simili. È vero che ‘natura’ è la traduzione del greco physis (φύσις). È vero che oggi con ‘fisica’ e ‘natura’ s’intende il mondo cosmico dei fenomeni. Ma la ‘fisica’ di Aristotele non è che un’introduzione alla ‘metafisica’: è una ‘fisica’ trascendente, cioè che trae le ragioni ultime della propria realtà altrove.

Quindi, in filosofia e in teologia, ‘natura’ non viene usato come sinonimo di fisicità (se non specificato), ma come sinonimo di ‘essenza’ o di ‘sostanza’. Natura, essenza e sostanza non sono termini filosofici esattamente equivalenti, ma in questa conferenza, per esemplificare, li tratteremo come sinonimi.

Quando, allora, diciamo ‘natura umana’ o ‘legge naturale’ intendiamo dire ‘essenza umana’ e ‘legge dell’essenza umana’. Non intendiamo dire ‘fisicità umana’ o ‘legge dei boschi’. Se per caso qualcuno argomentasse: “ma perché dite che nella natura umana non c’è l’omosessualità, visto che in natura ci sono molti animali che la praticano?”

La risposta è appunto molto semplice ed è questa: non c’entra nulla il termine ‘natura umana’ con gli animali che vivono nella foresta.

Era cristiana e Medioevo

Fu specialmente il cristianesimo, attecchito nelle pieghe più profonde delle coscienze e della storia, ad innescare una riflessione sistematica (e dunque teologica) non solo sui percorsi individuali della penitenza e della conversione, ma pure su quella che potremmo chiamare la dimensione sociale della Rivelazione.

Il Medioevo cristiano – che grossomodo copre gli anni dal 500 al 1300 – fu illuminato dalle imponenti figure dei Padri della Chiesa. Fu la teologia di Sant’Agostino d’Ippona, in particolare, ad imprimere le caratteristiche più peculiari di quest’epoca storica.

L’uomo religioso, per i medievali, è innanzi tutto homo viator, il peregrinus, cioè colui che va per agros, per le campagne al di fuori della città. È colui che percorre la strada della conversione e della penitenza. È colui che esce dalla città degli uomini per andare verso la città santa di Dio. E proprio Sant’Agostino nella sua opera De Civitate Dei, descrive le caratteristiche delle due città, la terrena e la celeste.

I pellegrinaggi, propriamente detti, nascono proprio nel Medioevo e sono di tipo religioso, da parte di coloro che si sentono “cittadini” del Regno dei Cieli, della santa città della Gerusalemme celeste. L’homo viator è sì interessato alla salvezza personale e ad un rapporto con il Dio della preghiera in segreto, ma questo non gl’impedisce di sentirsi inserito in un discorso cittadinanza celeste, in un ambito sociale.

dottrina_socialeL’uomo medievale sa di essere inserito in un mondo ordinato, a modello dell’ordine che vi è tra le gerarchie angeliche, ad esempio. L’uomo è un microcosmo a modello del macrocosmo, dove però per macrocosmo non s’intende il mero universo fisico, ma l’universo retto dalle potenze angeliche. C’è una gerarchia tra le cose.

Anche gli stati moderni sono, in un certo senso ordinati, ma nella società medievale (nella Cristianità) l’ordine era assicurato dall’apice, dal capo, che era Dio. Non era necessario ricordare al medievale che vi è una regalità sociale di Gesù Cristo (uno dei capisaldi della Dsc), oltre che spirituale sul singolo, perché era del tutto spontaneo rivolgere gli occhi al cielo.

Come nella struttura delle grandi opere teologiche di san Tommaso d’Aquino o di san Bonaventura da Bagnoregio, la convinzione dell’uomo medievale era semplice: tutto proveniva da Dio (fonte) e tutto tornava a Dio (fine), vi erano sì differenze di mezzi, di vocazioni, di capacità – esattamente come oggi – ma non vi era differenza di fini. Questo permetteva di contenere il male, di circoscriverlo.

Oggi c’è un caos: differenza di mezzi e di fini. Ognuno fa quel che vuole per andare dove vuole. Non si sa bene dove.

La teologia dei Dottori medievali, fino alla scolastica, respirava con due grandi polmoni: exitus e reditus – tutto esce da Dio e tutto torna a Dio. Al centro dell’antropologia vi era il dogma relativo al peccato originale. L’homo viator non viaggia solo dalla città terrena alla città di Dio, ma passa dalla natura ferita dal peccato alla natura riparata dalla penitenza e dalla grazia. Questo è un punto importante della teologia di san Bonaventura.

La verità circa il peccato originale va a toccare non solo l’aspetto individuale della persona, ma soprattutto quello comunitario. Il peccato, infatti, è l’infrazione dei Comandamenti, del Decalogo. È il male fatto agli altri. Se dunque il Decalogo è l’espressione privilegiata della legge naturale umana, la dottrina sociale naturale e cristiana è «riproposizione e commento del Decalogo», dice Giovanni Cantoni [16].

Non solo ma, scrive san Bonaventura nel Commentario alle Sentenze di Pietro Lombardo, che «benché accessibili alla sola ragione, i precetti del Decalogo sono stati rivelati perché “una completa esposizione dei comandamenti del Decalogo si rese necessaria nella condizione di peccato, perché la luce della ragione si era ottenebrata e la volontà si era sviata”» [17].

Proprietà privata, associazioni, bene comune

Con l’incremento della navigazione in tutto il Mediterraneo, la società medievale si fa più opulenta, soprattutto durante il XIII secolo. A parte le situazioni d’indigenza, non è inconsueto che, accanto ai beni necessari, si metta da parte anche il superfluo. Accanto, quindi, all’antico vizio della superbia, come radice di tutti i mali, si affianca il vizio altrettanto riprovevole dell’avarizia (cupiditas) [18].

Non viene affatto negato il diritto alla proprietà privata, ma si stigmatizza la schiavitù mondana del possesso. Tutto questo polarizzarsi sull’avarizia avrà risvolti sociali: non solo queste analisi teologiche faranno da base alla storia del pensiero economico, ma saranno affrontati anche i rischi dell’usura, del prestito ad interesse, del profitto, ecc…[19]

E da qui altre riflessioni: qual è la misura del necessario? Qual è il confine tra bisogni individualistici e bene comune?

È da qua, dalla dimensione teologica, che nascono i grandi temi della Dsc: proprietà privata, economia, lavoro, bene comune.

In particolare, scrive Oreste Bazzichi: «La società bonaventuriana [ma medievale in generale, ndr] è una società teocratica o monarchico-teocratica, gerarchizzata, con significativo spazio alla partecipazione del popolo soprattutto mediante le forme associative. È una società alla cui base c’è un concetto di «uomo virtuoso» che, prima di costruire le strutture sociali efficienti, si fa «rettore» di se stesso (Hex., coll. VI, nr. 29, p. 364).

dottrina socialeBonaventura intende, infatti, la vita sociale dell’uomo come un esercizio della perfezione cristiana. Insiste, quindi, sulla pratica delle virtù sia teologali sia cardinali, considerandole come virtù sociali perché perfezionano l’uomo anche nel sociale.

Richiamandosi all’ordine esistente nel mondo sensibile, egli parla di una società come di un organismo «ordinato» nel quale tutti i membri vivono e agiscono in armonia e perfetta intesa, e collaborano alla realizzazione di un disegno comune, dove convivono tre gerarchie diverse (tre classi sociali, si direbbe oggi): la gerarchia monastica, la gerarchia clericale e la gerarchia laicale (coll. XXII, nn. 16-17, p. 440)»[20].

E conclude: «Appartiene alla gerarchia laicale anche lo Stato che, nella sua struttura gerarchico-organizzativa, deve soddisfare le necessità dell’uomo. Lo scopo fondamentale dello Stato è il bene comune; ed è suo dovere promuovere ciò che è utile ai cittadini, assicurando armonia, benessere e pace (coll. V, nn. 14-20, pp. 356 e segg.; coll. XXIII, nr. 18, p. 440).

Il pensiero sociale bonaventuriano svela, dunque, un assunto fondamentale: il francescanesimo non è solo prassi ascetico-mistica, né solo una filosofia e una teologia, ma è anche una progressiva metodologia etico-economica che ha contribuito a dare una forte accelerazione al sistema sociale e allo sviluppo economico e civile, i cui fondamentali principi conservano ancora oggi, nell’epoca della globalizzazione, tutta la loro attualità» [21].

Da qua andiamo sempre più a vedere la vera essenza della Dsc: è una teologia morale ed è un sapere che si traduce in prassi.

Una morale fondata sulle virtù

La Società medievale era quindi fondata sull’etica delle virtù. C’è una grande parte, ad esempio, della Summa Theologiae di san Tommaso che tratta delle virtù.

Con la morte però di san Tommaso e di san Bonaventura (1274) e la fine della Scolastica, tramonta gradualmente anche l’interesse per la virtù. L’etica o la morale delle virtù si oppone all’etica moderna, che si esprime per lo più attraverso due accezioni: Etica dell’indifferenza (libertarismo, anarchismo). Etica del dovere (posizione kantiana dell’imperativo categorico).

Nella Dsc, al contrario, le virtù hanno una grande importanza: specialmente le virtù della carità, della solidarietà e della giustizia, che sono anche virtù sociali, oltre che individuali. Nella sola Rerum novarum il termine virtù compare 14 volte.

«Mirando la divinità di questo esempio, si comprende più facilmente che la vera dignità e grandezza dell’uomo è tutta morale, ossia riposta nella virtù; che la virtù è patrimonio comune, conseguibile ugualmente dai grandi e dai piccoli, dai ricchi e dai proletari; che solo alle opere virtuose, in chiunque si trovino, è serbato il premio dell’eterna beatitudine» [22].

XIX secolo e questione sociale

dottrina_socialeL’enciclica Rerum novarum, emanata da Leone XIII il 15 maggio 1891 costituì la più significativa risposta da parte della Chiesa cattolica di fronte alla ‘questione sociale’ e agli effetti negativi che l’industrializzazione provocava. Un capitalismo senza regole riduceva nell’indigenza i lavoratori che, dalle campagne, si spostavano nelle città (fenomeno dell’urbanizzazione). Nasceva la categoria del proletariato, ovvero di coloro che non avevano altra ricchezza se non la prole.

Nasceva anche la falsa risposta ai problemi sociali data dal social-comunismo: la soluzione al malessere sarebbe stata quella di far crescere l’odio delle masse proletarie contro la classe padronale (odio di classe).

L’enciclica leonina condannava l’ideologia che, nella deificazione del denaro e nell’ esaltazione del progresso, della scienza e della tecnica, dimenticava un elemento cardine del cristianesimo: il rispetto dell’uomo e della sua dignità, il principio evangelico per cui in ogni uomo è riconoscibile Cristo.

Si trattava del superamento della concezione capitalistica del mercato del lavoro, su cui si basava l’economia liberale, al di fuori da ogni remora di ordine morale, umanitario o religioso. Ma si condannava pure il socialismo, che istillava l’odio di classe e proponeva la rivoluzione. Le indicazioni di Leone XIII offrivano al mondo cattolico un nuovo modo di confrontarsi da un lato con la società capitalistica e borghese, dall’altro con il movimento operaio e il nascente socialismo.

Principi della Dsc

I principi della Dottrina sociale della Chiesa si possono ridurre a tre:

  1. Il principio di solidarietà: «La solidarietà conferisce particolare risalto all’ intrinseca socialità della persona umana, all’uguaglianza di tutti in dignità e diritti, al comune cammino degli uomini e dei popoli verso una sempre più convinta unità» [23]. Esso si oppone tanto all’individualismo sociale di matrice illuministico-liberale quanto al collettivismo socialista.
  2. Il principio di organicità o del bene comune: “L’insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono tanto ai gruppi quanto ai singoli membri di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più speditamente”. (Gaudium et spes)
  3. Il principio di sussidiarietà: «In base a tale principio, tutte le società di ordine superiore devono porsi in atteggiamento di aiuto («subsidium») — quindi di sostegno, promozione, sviluppo — rispetto alle minori. In tal modo, i corpi sociali intermedi possono adeguatamente svolgere le funzioni che loro competono, senza doverle cedere ingiustamente ad altre aggregazioni sociali di livello superiore, dalle quali finirebbero per essere assorbiti e sostituiti e per vedersi negata, alla fine, dignità propria e spazio vitale» [24].

___________________

[1] Pio XII, Radiomessaggio di Pentecoste 1941 per il 50° anniversario della Rerum novarum.

[2] Stefano Zamagni, voce: “dottrina sociale della Chiesa” in Dizionario di Economia e Finanza, Treccani, 2012.

[3] Ivi.

[4] Es 18, 21.

[5] Cf. Mt 14, 13-21, Mc 6, 30-44, Lc 9, 10-17, Gv 6, 1-13.

[6] Lc 9, 14.

[7] Cf. Sant’Agostino, Commento al Vangelo di Giovanni, Omelia XXIV, 6.

[8] Origene, Commento al Vangelo di Matteo, Libro XI, 3.

[9] Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2207.

[10] Gn 1, 27.

[11] Samuele Cecotti, recensione a: F. Elías de Tajada: Europa, Tradizione, Libertà, a cura di Giovanni Turco, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2005, in: Instaurare omnia in Christo, a. XXXV, n. 1, gennaio – aprile 2006, p. 11.

[12] Ivi.

[13] Ivi.

[14] Giampaolo Crepaldi, “Importanza della Dottrina per l’Azione politica dei Cattolici”, in Il Timone, febbraio 2017.

[15] Ivi.

[16] Giovanni Cantoni, “La dottrina sociale della Chiesa: natura e storia”: http://alleanzacattolica.org/la-dottrina-sociale-della-chiesa-natura-e-storia/.

[17] Ivi.

[18] Cf. Oreste Bazzichi, voce: “Bonaventura da Bagnoregio”, paragrafo: “La dottrina sociale di san Bonaventura da Bagnoregio” in Il Contributo italiano alla storia del Pensiero – Economia, Treccani, 2012.

[19] Cf. Ivi.

[20] Ivi.

[21] Ivi.

[22] Leone XIII, Lettera enciclica Rerum novarum, n. 20.

[23] Compendio della Dottrina sociale della Chiesa, n. 192.

[24] Ibidem, n. 186