Dopo Marx, i mille volti dell’ideologia progressista

Cultura&Identitàprogressismo. Rivista di studi conservatori

Anno VIII nuova serie n. 13  30 settembre 2016

Una riflessione sul ruolo di surroga del marxismo, tramontato alla fine degli anni 1980, svolto dalla multiforme ideologia progressista che sta corrodendo sempre più in profondità l’ethos occidentale, modificando il senso comune e deformando gli ordinamenti legislativi dei principali Stati

di Giulio Sodi

1. Morale ed etica

Morale ed etica, termini spesso usati indistintamente, si riferiscono entrambi alla scelta, virtuosa o meno, che l’uomo opera fra diverse alternative. In effetti, però, i due termini hanno un significato considerevolmente diverso: in primo luogo l’etica, oltre a considerare gli elementi della morale — norme e principi a cui riferirsi —, sviluppa una riflessione speculativa sugli stessi ricercandone logica e fondamenti; da ciò deriva anche il fatto che la morale si riferisce prevalentemente all’aspetto personale o di gruppi limitati di persone, mentre l’etica è riferibile ad aggregati sociali più complessi e che esercitano una qualche autonomia di giudizio o decisionale.

Oggi si fa un gran parlare di laicità dello Stato, proprio a porre l’accento sull’indipendenza di quest’ultimo rispetto ai valori posti dalla religione e dalla morale che a essa si ispira. Tanto che questa separazione sembra un principio scontato e indiscutibile: ma non è stato sempre così, anzi, a ben vedere si tratta di un fenomeno assai recente nella storia dell’umanità. Possiamo dire che da sempre gli aggregati sociali sono stati caratterizzati da una comune discendenza etnica e da una medesima credenza religiosa che invariabilmente costituiva anche il fondamento dell’apparato normativo: era il caso dei cosiddetti Stati a ordinamento confessionale.

La definizione di religione di Stato non aveva neppure ragione di esistere perché era scontato e “naturale” che vi fosse una perfetta identificazione fra popolo, religione e legge civile. Niente di più eloquente, al proposito, il fatto che il popolo ebreo abbia chiamato, da sempre, i suoi testi sacri — o almeno una loro parte — “la Legge”

Ancora oggi nei Paesi orientali, ove la religione, soprattutto islamica, è fortemente diffusa, condivisa e radicata, la legge dello Stato si identifica — o quantomeno vi si ispira in maniera maggiore o minore a seconda dei casi — con il precetto religioso. Ma anche in Europa — per avere idea di quanto questa condizione si sia protratta nel tempo — basta ricordare che, ancora nel XVI-XVII secolo, a seguito del diffondersi della Riforma luterana e delle successive guerre di religione — la Guerra dei Trent’Anni si è protratta dal 1618 al 1648 —, era così inconcepibile che uno Stato non avesse un’unica religione, che si affermò il principio del “cuius regio, eius religio”, secondo cui il popolo avrebbe dovuto aderire al credo del suo principe.

Il motivo per cui è capitato che un popolo, in epoche passate, abbia perso la sua identità religiosa — cui invariabilmente conseguiva il grave rischio di perdere anche l’identità culturale — è stato essenzialmente il mescolarsi dei popoli, per lo più a seguito di dominazioni subìte o anche inflitte. In epoca più recente, invece, a partire dall’illuminismo, almeno in Occidente, si è assistito a un processo di secolarizzazione senza precedenti, che ha fatto sì che lo spirito “laico”, spesso affiancato da un’adesione alla religione solo abitudinaria o formale, si diffondesse al punto che non è stata neppure più pensabile un’influenza diretta dei precetti religiosi nel processo di formazione delle leggi.

Morale ed etica, dunque, concernono entrambe la scelta del bene ma, all’atto pratico, la prima riguarda le scelte soggettive, mentre l’etica è, potremmo dire, la risultante sociale dei comportamenti soggettivi. Altra conseguenza della distinzione fra morale ed etica è la sua portata pratica, nel senso che la scelta individuale fra il bene ed il male non esaurisce i suoi effetti riguardo il rapporto fra due individui ma ha riflessi anche verso altri: da qui il compito etico dell’autorità politica Stato di perseguire, comunque, il bene comune.

Per fare un esempio, di fronte a un fatto violento, chi lo ha ingiustamente subìto può scegliere di perdonare, ma questo perdono rientra nella sfera morale e ha effetto esclusivamente nel rapporto fra la persona offesa e l’autore dell’offesa stessa; l’autorità politica, invece, dovrà assolvere la funzione etica di perseguire il bene comune e, per fare ciò, dovrà anche non solo reprimere ma anche rieducare il colpevole ed evitare che questi possa essere ulteriormente pregiudizievole per altre persone come anche costituire un deterrente per evitare che altri possano compiere gesti analoghi.

Ora, quando tutti i consociati condividono lo stesso credo, non vi sono particolari dubbi su che cosa sia il bene e quale sia l’etica che risulta; quando invece i consociati non sono accomunati da uno stesso credo — per esempio perché appartenenti a varie religioni o atei o “laici”, ecc. —, vi saranno anche differenze di vedute rispetto a quale sia il bene stesso; lo Stato moderno cosiddetto “laico” — o il gruppo sociale — sarà quindi caratterizzato da un’etica risultante che, come minimo, dovrebbe essere il frutto del compromesso, per rispondere alla diverse concezioni della morale dei singoli o di ciascun gruppo sociale.

“Dovrebbe essere”, ho detto seguendo il filo logico del ragionamento, e questo sarebbe già un buon punto di partenza, ma, in effetti, bisogna verificare se anche in pratica accada così, se effettivamente l’etica sia la risultante delle diverse scelte morali dei singoli o se, invece, sia l’etica dello Stato — o, meglio, della sua classe dirigente — che, anche approfittando della varietà delle istanze morali, orienta la coscienza dei singoli.

Lo Stato, infatti, almeno nei Paesi democratici, dovrebbe essere l’espressione della volontà del popolo e sarebbe grandemente auspicabile che fossero i principi morali del primo a fondare la sua etica e non viceversa, anche perché non vi è alcuna garanzia della bontà di un fondamento etico proposto autonomamente dallo Stato. Quando questo non avviene, e purtroppo ciò accade sempre più spesso, non possiamo che parlare di imposizione ideologica da parte di chi amministra il potere, con buona pace di ogni proclamata imparzialità.

In questa prospettiva bisogna anche considerare che i fondamenti morali che caratterizzano una religione restano tali e validi indipendentemente da quest’ultima. Ma, ciononostante, accade che, o per il fatto che sono dei precetti o per un preconcetto verso tutto ciò che fa riferimento alla religione, nei Paesi democratici occidentali accade sempre più spesso che essi vengano rifiutati pregiudizialmente quali fondamenti normativi. Quando accade che un principio morale, ancorché ampiamente condiviso, sia proposto quale indirizzo normativo da una qualche componente politica di ispirazione religiosa, questa lo potrà fare solo se ne evidenzia la sua valenza sul piano naturale.

2. Lo “Stato etico”

La distinzione fra morale ed etica assume particolare rilievo, nella nostra epoca, in quei Paesi occidentali caratterizzati da una diffusa secolarizzazione e che, anzi, si dichiarano fieri di essersi emancipati dai condizionamenti religiosi. Forse proprio per questo motivo si osserva come nella società i valori di riferimento siano sempre più difficili da individuare: infatti, se l’adesione a una determinata confessione — che normalmente si caratterizza per precisi indirizzi morali — fosse condivisa dalla maggior parte delle persone, sarebbe inevitabile che anche l’etica che s’impone — spontaneamente o in forza di norme — nello Stato o nella collettività fosse in qualche modo fondata sui valori di cui è portatrice la religione.

Nella prospettiva di una società multi-etnica e multi-religiosa, ampiamente secolarizzata, è invece difficile ispirare le norme ai principi, perché questi hanno di norma un fondamento religioso e, quando accade che questi vengano pregiudizialmente esclusi, diviene ancor più difficile individuare quali siano gli altri valori cui rifarsi. L’unico criterio residuo sembra essere, allora, quello di fare ricorso ai principi naturali che sono, per definizione, universali e immutabili. Tuttavia anche in questo caso l’esperienza insegna quanto siano tutt’altro che univoche le posizioni dei singoli rispetto a questi principi, anche a dispetto della loro presunta universalità.

Alla progressiva perdita della capacità di individuare valori certi che ispirino l’attività legislativa, fa riscontro quella tendenza moderna, tutt’altro che morale, che contraddistingue molti governi degli Stati fondati sul modello democratico-rappresentativo, di impostare la loro attività legislativa sul criterio della popolarità delle scelte, al fine di ottenere maggiori consensi elettorali.

Nei Paesi il cui governo è espresso con il metodo democratico-rappresentativo, infatti, si può esercitare il potere solo con il consenso della maggioranza dei votanti. Se i più sono mossi da stimoli egoistici, chi governa, se vuole mantenere il potere, non potrà fare altro che adeguarsi, magari tentando di confondere le idee a quella parte dell’elettorato meno attenta o meno impegnata che è rimasta su posizioni diverse. Insomma, la terribile conseguenza di questo atteggiamento è che nessuno ha più la forza o la voglia di esercitare un vaglio morale sulla produzione normativa.

Esiste dunque il rischio di una involuzione sociale dovuta al circolo vizioso secondo cui i singoli non s’ispirano più a valori ormai difficili da individuare, bensì a criteri egoistici e opportunistici, mentre chi governa non lo fa per gestire la cosa pubblica ma per la scelta, altrettanto opportunistica, di avere consensi elettorali che gli consentiranno di continuare a governare. In questa prospettiva si prospettano due rischi: il primo, altissimo, che lo Stato diventi incapace di ogni funzione etica e, se lo Stato perde la sua essenza, ossia servire il bene comune, la giungla è dietro l’angolo, con buona pace di millenni di civiltà giuridica. Il secondo, forse ancora più grave, è che questo stato di cose alimenti il desiderio popolare di un governo autoritario, il quale, come insegna costantemente la storia, è destinato a degenerare in tirannia o, ancora, che siano gli stessi organi di governo a strumentalizzare il malessere diffuso per ottenere lo stesso risultato.

In entrambi i casi sarà l’ideologia a trionfare, dapprima creandone i presupposti, quindi realizzandosi pienamente mediante una molto singolare forma di Stato etico.

Fatta questa doverosa premessa viene da chiedersi: quali sono, invece, i valori e i presupposti cui si dovrebbe ispirare uno Stato “laico” per definire l’etica cui conformare le proprie leggi? Esclusa la religione — per i motivi che abbiamo visto — e la legge naturale — che è sempre vista come scarsamente oggettiva e comunque vicina alla religione — si fatica a individuare che cosa rimanga per essere accettato come principio ispiratore.

È necessario, allora, di recuperare il significato essenziale della politica ovvero quello di garantire la convivenza civile e il bene della città (polis) e dei cittadini: insomma, un laicissimo bene comune. Ora, per perseguire questo scopo, occorre partire da un concetto il più possibile condiviso in ordine a che cosa s’intenda per bene comune. È questo un aspetto determinante, perché se non viene stabilita una base comune da cui partire e su cui discutere, si apre la strada a una legislazione faziosa, che non solo non s’ispira a valori religiosi — che almeno per il cristianesimo dovrebbero essere comunque orientati al bene —, ma che neppure è indirizzata al bene dei cittadini, né, addirittura, fa la volontà della maggioranza di questi.

La realizzazione di quest’obiettivo, però, a dispetto di quanti auspicano provvedimenti risolutivi, passa attraverso un’evoluzione culturale e morale che richiede tempi lunghissimi; l’unico risultato che in tempi brevi è non solo auspicabile, ma anche realizzabile, è l’inversione di tendenza.

3. L’ideologia

Il dizionario Treccani definisce l’ideologia come il complesso di credenze, opinioni, rappresentazioni, di valori che orientano un determinato gruppo sociale; altri dizionari precisano che costituisce la ragione d’essere e il programma di un movimento politico o di un partito.

L’ultima precisazione è importante, anche se non biunivocamente vera, nel senso che non necessariamente un partito politico si fonda su una ideologia, potendosi, per esempio, limitare ad avere lo scopo di amministrare bene la cosa pubblica senza per questo proporre modelli sociali nuovi o diversi da quelli esistenti. Ma è sicuramente vero che per orientare un gruppo sociale secondo un modello definito, è necessario operare anche attraverso i partiti politici.

Al di là della nuda definizione vi sono però altri elementi che all’atto pratico contraddistinguono l’ideologia, così come la forte caratterizzazione dei principi su cui si fonda e la determinazione con cui essa viene proposta o addirittura imposta.

Altro aspetto che non si evince dalla definizione è se i principi, le opinioni e le rappresentazioni che costituiscono l’ideologia debbano essere fra loro più o meno legati e interdipendenti o indirizzati ad un fine comune. Qui può venire in aiuto l’esperienza storica, perché, guardando alle due grandi ideologie che hanno contraddistinto buona parte del secolo scorso, il comunismo e il nazionalsocialismo, ci accorgiamo che, al di là dei numerosi aspetti peculiari, il fine è stato, in entrambi i casi, uno solo: la creazione di una società nuova, nel primo caso fondata sulla classe, nell’altro sulla razza.

Se è facile, guardando indietro nel tempo, comprendere come singoli atteggiamenti fossero riconducibili a un medesimo e ben preciso fine, non è altrettanto agevole, oggi, individuare se esista e quale sia il fine ultimo e l’elemento caratterizzante di comportamenti che vengono, anche oggi, comunque avvertiti come ideologici, così come è particolarmente difficile — ma non meno importante — capire se vi sia una sorta di continuità fra le ideologie di ieri e quelle di oggi.

4. Destra e sinistra

Sulla base delle ideologie del secolo scorso siamo tuttora abituati a distinguere sistemi di pensiero e dottrine come “di destra” o “di sinistra”, nonostante numerose apparenti contraddizioni.

La seconda metà del secolo scorso, infatti, oltre che dalle ideologie, è stata caratterizzata dalla contrapposizione dei blocchi, che s’identificavano con i rispettivi modelli ideologici: il comunismo e il capitalismo, quest’ultimo spesso assimilato all’imperialismo dai suoi detrattori. La rimozione del Muro di Berlino, nel 1989, ha segnato la fine del modello — ancorché non della realtà — di Stato fondato sul comunismo. Dopo anni di guerra “fredda” o condotta a distanza attraverso altri Stati, il comunismo sovietico, paradossalmente, non era stato sconfitto sul campo, manu militari, bensì era crollato sotto il peso stesso della sua insostenibilità.

La Cina, l’altra grande potenza mondiale, se pure non abbia mai formalmente rinnegato il comunismo, di fatto si è da tempo convertita al modello economico capitalistico, sia pure mantenendo l’assetto politico totalitario caratteristico dei Paesi comunisti. La considerazione che spontaneamente segue queste vicende è: finito il comunismo, è finita anche l’ideologia di sinistra su cui questo si fondava?

4.1 L’inversione dei poli

Fine del comunismo, però, non vuole affatto dire fine di quell’ideologia di sinistra che per lungo tempo siamo stati abituati a identificare con il comunismo: anzi, a ben vedere, l’ideologia progressista si è rigenerata come le sette teste dell’Idra di Lerna, paradossalmente proprio in quei Paesi che si sono storicamente contrapposti al blocco comunista.

Fenomeni “di sinistra” come il femminismo e la “liberazione” dei costumi, a lungo osteggiati nei Paesi occidentali e soprattutto negli Stati Uniti d’America, oggi vi trovano i loro più attivi sostenitori, anche a livello politico istituzionale.

4.2 È finito il comunismo?

Tornando alla domanda di esordio, dobbiamo rispondere che, se ancora oggi parliamo di ideologia di sinistra, la risposta evidentemente è che essa non è finita. Esistono tuttora comportamenti, orientamenti, azioni che, ovunque si manifestino, ciascuno è capace di catalogare come di sinistra, anche se magari non ne sa individuare con certezza né l’aspetto qualificante, né i principi e gli scopi comuni. Qualche esempio: è di sinistra mettere in discussione il diritto di proprietà, ma è percepito come di sinistra anche il movimento femminista, l’animalismo o il pacifismo? Esiste qualcosa che accomuna queste posizioni? Che cos’è che fa sì che un’idea o un comportamento siano istintivamente e universalmente catalogati come “di sinistra”?

Se vogliamo fare una elencazione, pur sommaria e incompleta, dei comportamenti normalmente ritenuti di sinistra possiamo citare: il principio di uguaglianza fra le persone — spinto talora fino al discapito della valorizzazione delle qualità e dell’impegno personali: basti pensare al cosiddetto “sei politico” dell’epoca sessantottina o all’avversione per la meritocrazia —; la critica al concetto di proprietà privata; il pacifismo indiscriminato; lo statalismo; la lotta per la liberalizzazione delle droghe; l’eutanasia; il femminismo; la contraccezione; il divorzio; l’aborto procurato; i cosiddetti “diritti civili” — con questo termine sono ormai intesi unicamente i provvedimenti a favore delle persone omosessuali o di particolari orientamenti sessuali —; l’ecologismo; l’animalismo; il sindacalismo statalista e ugualitaristico — soprattutto nelle sue manifestazioni più intransigenti —; l’“educazione” al gender; il secolarismo e la separazione fra Stato e Chiesa, solo per citare i più rilevanti.

Prima di affrontare il problema del principio fondante dell’ideologia di sinistra, però, sarà utile fare un piccolo excursus storico. La terminologia “destra” e “sinistra” è stata usata per la prima volta nell’epoca della Rivoluzione francese: nell’assemblea degli Stati Generali indetta nel 1789 dal re di Francia Luigi XVI di Borbone (1754-1793) e nelle successive sedute dell’Assemblea Nazionale, la parte politica conservatrice, favorevole a mantenere l’ordine monarchico, sedeva alla destra nell’aula parlamentare, dal lato opposto stavano i radicali, cioè i rivoluzionari.

Da subito la sinistra francese si connotò per il suo anticlericalismo, opponendosi all’influenza della Chiesa francese e sostenendo la necessità della separazione fra Stato e Chiesa (1). Successivamente anche l’ideologo comunista Karl Marx (1818-1883) sostenne che «La religione è il singhiozzo di una creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, lo spirito di una condizione priva di spirito. È l’oppio dei popoli» (2).

Il credo professato dai bolscevichi nella Russia sovietica era che tutta la religione si sarebbe dovuta atrofizzare e il cristianesimo in quanto tale sarebbe dovuto essere estirpato e i bambini privati di qualsiasi istruzione religiosa al di fuori della loro casa. Nel 1918, dieci alti prelati della Chiesa ortodossa russa furono sommariamente fucilati con la spiegazione: «Il potere sovietico continuerà a sparare a questi signori fino a quando manderemo in frantumi e schiacceremo la criminale attività controrivoluzionaria dei capi della Chiesa» (3).

Storicamente, dunque, l’ideologia di sinistra si è caratterizzata per il suo anticlericalismo e per la sua avversione alla religione, sostanzialmente a quella cristiana, di gran lunga la più diffusa in Europa.

Questo discorso è tuttora attuale alla luce dei nuovi obiettivi dell’ideologia progressista? Vi è continuità fra l’ateismo anticlericale del vecchio comunismo e l’ideale antropocentrico della nuova sinistra? Basta ricercare il fondamento dei temi che caratterizzano questa ideologia per scoprire che il suo fine è sempre quello di contraddire la religione, soprattutto il cristianesimo, o di creare i presupposti per destrutturare, ovvero demolire, il modello di società che da questo è ispirato. Insomma, esiste un filo — non a caso — rosso che lega la Rivoluzione francese e il modello socioculturale da questa imposto, ai nuovi obiettivi dell’ideologia di sinistra.

Come accennato, sono questi, a mio avviso, alcuni degli aspetti caratterizzanti l’ideologia di sinistra contemporanea.

a. Il principio ugualitaristico, insieme a “libertà” e “fraternità”, è il Leitmotiv della Rivoluzione francese e afferma molto semplicisticamente l’uguaglianza di tutti gli uomini, senza però specificare uguaglianza in che cosa. Vi era bisogno di tale affermazione? Evidentemente sì, perché bisognava affermare un principio autonomo, che tentasse di superare quello già da tempo sancito dal cristianesimo, che aveva nei fatti cambiato il corso della storia, proclamando non un’uguaglianza tout court, ma l’indefettibilità della dignità dell’uomo, creato a immagine e somiglianza di Dio.

b. La critica al diritto di proprietà privata, cavallo di battaglia del comunismo, è avversa a un cardine del modello sociale ed economico della nostra società ed è stato spesso propagandato come affine al messaggio cristiano. L’Antico Testamento ha, invece, sempre dato per scontato il diritto alla proprietà individuale e, per la Chiesa Cattolica «[…] l’appropriazione dei beni è legittima al fine di garantire la libertà e la dignità delle persone, di aiutare ciascuno a soddisfare i propri bisogni fondamentali e i bisogni di coloro di cui ha la responsabilità» (4).

 c. La contraccezione è un’affermazione di principio tesa a esautorare la divinità: sarà l’uomo, e non Dio, a decidere se far nascere i bambini.

d. Il femminismo e la legalizzazione del divorzio sono entrambi fattori di destrutturazione della società costituita sul modello della famiglia tradizionale e patriarcale, istituzione che, ancorché più antica della cultura cristiana, ne è invece assurdamente ritenuta un retaggio.

e. Gli asseriti diritti delle persone omosessuali o con particolari orientamenti sessuali, oltre a superare la valutazione sfavorevole che se ne ricava dalle sacre scritture e il giudizio di peccato che ne scaturisce, costituiscono uno strumento che, tendendo a equiparare le unioni omosessuali al matrimonio, mirano a banalizzare la forma naturale del consorzio familiare, cellula fondamentale della comunità umana in quanto è in essa che da sempre si formano e vengono educati e allevatati i cittadini del futuro

f. L’“educazione” al “gender”, sulla scia dei “diritti” del punto precedente, ha l’obiettivo di destrutturare la società rispetto ai fondamenti sessuati su cui da sempre è stata costruita; inoltre, per le modalità con cui è somministrata, tende a sottrarre la potestà educativa ai genitori a favore di educatori ideologizzati anonimi.

g. Il pacifismo e l’antimilitarismo hanno uno scopo anch’esso destrutturante, in quanto di solito sono intesi a senso unico ovvero privare del potenziale militare gli stati nemici ignorando la proliferazione di armamenti di quelli amici: basti pensare all’attivismo dei relativi movimenti all’epoca della Guerra Fredda.

h. L’avversione alla meritocrazia e lo statalismo del sindacalismo intransigente sono elementi che hanno notoriamente condizionato l’efficienza sia degli Stati sia delle aziende, in maniera direttamente proporzionale al loro grado d’ingerenza nel rapporto di lavoro: l’obiettivo di queste tendenze è ancora una volta la destrutturazione della società tradizionale creando apparati economici e amministrativi inefficienti facilmente condizionabili da strutture politiche.

i. La secolarizzazione e la separazione fra Stato e Chiesa è un elemento antico e strutturale dell’ideologia della sinistra, già illustrato.

j. L’ecologismo e l’animalismo hanno come obiettivo, oltre il normale sentimento di rispetto per la natura che è auspicabile che ognuno nutra e che è affermato anche da molte religioni ivi compreso il cristianesimo, ancora una volta di banalizzare la preminenza dell’uomo rispetto alle altre creature, sostenuto invece dai testi sacri (5).

k. La liberalizzazione delle droghe è indice della volontà di affermare la libertà dell’uomo rispetto ai limiti segnati dalla natura e rispetto a quanto affermato dalla religione e dalla scienza più seria (6).

l. Il decidere autonomamente della vita e della morte delle persone — eutanasia e aborto —, oltre a costituire una palese violazione del precetto di non uccidere, esprimono il desiderio di emendarsi dalla volontà di un Dio in cui non si deve più credere, fino insediare se stessi al suo posto e, da qui, decidere autonomamente anche della vita degli altri.

m. Analogamente, anche legittimare le unioni omosessuali e dare loro un’artificiosa discendenza attraverso l’“utero in affitto”, nonché decidere in maniera autonoma e continuamente mutevole persino il sesso cui appartenere, altro non sono che tentativi di affermare la supremazia dell’uomo sull’ordine naturale delle cose, sostenuto dalla religione. Insomma, che cosa c’è di più antireligioso dell’uomo che decide autonomamente della vita e della morte delle persone e finanche del loro sesso?

n. L’integrazione culturale secondo il modello multietnico, in quanto favorisce i flussi migratori in maniera indiscriminata, ovvero senza un preventivo piano che ne preveda e disciplini le possibilità d’integrazione, svolge efficacemente una funzione destrutturante sia perché la promiscuità culturale — e soprattutto religiosa — affievolisce la rilevanza della cultura autoctona, sia perché crea motivi di contrasto religioso.

Tutti questi aspetti, però, non esauriscono ancora la questione. Non si può, infatti, ignorare che l’attuale società occidentale, a partire dall’Europa, è in buona misura l’inequivocabile frutto di un processo storico in cui il cristianesimo ha giocato un ruolo decisivo nel farle conseguire il livello di formazione culturale, di complessità sociale e di evoluzione tecnologica più progredito del mondo.

Perché l’uomo possa definitivamente emendarsi dall’influenza del divino, gli “ideologi” hanno quindi ritenuto necessario che fosse reciso anche ogni legame storico dell’attuale contesto sociale con il suo passato e di promuovere un processo di damnatio memoriae delle vestigia cristiane nella società presente. Come dire: non solo vogliamo mietere dove non abbiamo seminato, ma anche uccidere il seminatore perché non abbia più possibilità di recriminare.

Questo è il motivo per cui, nonostante le pressanti richieste del Pontefice san Giovanni Paolo II (1978-2005), l’Europa non ha mai voluto recepire nella sua Carta costituzionale quel fatto innegabile che sono le radici giudaico-cristiane del suo ethos civile. È inutile ricordare che la richiesta del pontefice di allora non era solo un’affermazione di principio che avesse lo scopo di influire sulla laicità della nuova realtà rappresentata dalla Comunità europea, ma, invece, si trattava di un dato di fatto ben definito ed evidente. Anche il modo di essere del cittadino europeo più laico e antireligioso è riflesso di una cultura forgiata sui principi etici del cristianesimo, la religione che, originata in seno al giudaismo, ha trovato nell’eredità classica greca e romana il più efficiente veicolo d’integrazione e di diffusione (7) .

4.3 La destrutturazione

Per recidere il legame fra cultura europea e cristianesimo si è pensato che non sarebbe stato sufficiente evitare ogni riferimento formale al secondo nei documenti e nelle proclamazioni di principio, ma si sarebbe resa necessaria un’operazione più diffusa, incisiva e radicale, attraverso uno strumento che l’ideologia di sinistra conosce molto bene, la destrutturazione.

Essa consiste nell’avversare tutti quei comportamenti ritenuti frutto, anche indiretto, della storia che si vuole far dimenticare, ossia recidere ogni legame con un passato sgradito, e favorire la costituzione ex novo di un ordine di cose privo di qualsiasi riferimento alla tradizione. Così, atteggiamenti e comportamenti che, secondo logica, non sarebbero direttamente riconducibili all’etica religiosa, devono essere avversati, privati di valore, ridicolizzati, perché comunque costituiscono un retaggio di quelle origini che si vogliono fare dimenticare.

L’istituto del matrimonio è sicuramente vecchio quanto l’uomo e sicuramente antecedente al cristianesimo. Oggi esso è oggetto di azioni che tentano di precarizzarlo mediante forme di scioglimento sempre più rapide, intese a banalizzarne la struttura e a parificarlo anche giuridicamente ad altre forme di convivenza.

La stessa differenza dei sessi, innegabilmente vecchia quanto l’uomo, dev’essere annullata, favorendo la continua e replicabile scelta individuale, nella cosiddetta “fluidità sessuale”. Anche in questo caso il procedimento messo in atto è la destrutturazione: quella dell’istituto matrimoniale e quella della identità sessuale, che gli ideologi vedono come conseguenza non di un presupposto naturale bensì di una educazione secondo stereotipi culturali.

Avversando tutto ciò che rimanda alla religione, si consegue lo scopo di rendere l’uomo libero di soddisfare ogni suo desiderio senza alcun condizionamento o remora di tipo religioso. Qui si dovrebbe cogliere in tutta evidenza la diametrale contrapposizione fra la visione antropocentrica e il messaggio giudaico-cristiano per il quale fonte della perdizione umana è il volersi porre al posto di Dio nel giudicare il bene e il male (8).

Davanti a queste posizioni il pensiero corre subito al filosofo tedesco Friedrich Nietzsche (1844- 1900), profeta della visione nichilista dell’esistenza, il quale, in perfetta coerenza con il solco tracciato dalla Rivoluzione francese, riteneva che scopo dell’“uomo nuovo” — il “superuomo” o, per alcuni, l’“ultra-uomo” — fosse proprio quello di ribellarsi e superare la morale cristiana fondata sulla commiserazione e la repressione del desiderio di vivere.

5. La “doppia appartenenza”

Dopo aver evidenziato l’intrinseca anti-religiosità di cui è intrisa l’ideologia di sinistra — di ieri e non meno di oggi — non si può non evidenziare altresì la grande contraddizione che affligge molti dei sostenitori di tale ideologia, ovvero di coloro che, allo stesso tempo, si dicono religiosi e “di sinistra”. Dovrebbe essere infatti chiara la contraddizione fra ritenersi sinceramente religioso e aderire a un credo politico la cui essenza è di avversare la religione stessa.

Il pensiero corre all’esortazione di San Paolo: «[…] ma dico che i sacrifici dei pagani sono fatti a demoni e non a Dio. Ora, io non voglio che voi entriate in comunione con i demoni; non potete bere il calice del Signore e il calice dei demoni; non potete partecipare alla mensa del Signore e alla mensa dei demoni» (9).

Diversa è la condizione, almeno dal punto di vista pratico — ma non certo da quello morale —, di chi esercita un ruolo politico attivo, per il quale ostentare il credo religioso spesso non è altro che uno dei tanti strumenti utili a conquistare consensi elettorali, ovvero un inganno.

6. Tipologia degli interessati dall’ideologia

Al vertice del “sistema” cui l’ideologia ha dato vita stanno, ovviamente, coloro che decidono le linee-guida di applicazione dell’ideologia cioè, in buona sostanza, quello che il popolo dovrà pensare e quali posizioni dovranno essere sostenute per affermare l’ideologia.

Subito al di sotto siedono coloro che, amministrando un potere politico o economico o di fatto, operano in modo da divulgare, pubblicizzare e far accettare le varie forme in cui l’ideologia si esprime.

Al termine della scala troviamo i destinatari dell’ideologia, coloro che saranno indotti più o meno subdolamente ad accettarne le tesi.

In questa sede non vi è spazio per trattare le tecniche con cui l’ideologia può essere inculcata, ma solo per descrivere il ruolo di coloro che la impongono e la subiscono.

È difficile, a questo proposito, capire quanto, nelle varie possibili graduazioni intermedie, ognuno di noi possa essere promotore consapevole oppure vittima di questo particolare processo d’inculturazione. Più facile è individuare i fini pratici per cui molti accettano l’ideologia, anche se, non sempre o non in tutto, la condividono. A questo proposito in primo luogo dobbiamo ricordare che uno degli strumenti più importanti per imporre l’ideologia è far passare il messaggio che è la maggioranza a condividerla e il non allinearvisi sarebbe indice di arretratezza, di scarsa cultura e di poca intelligenza.

È facile comprendere come i partiti politici vi trovino l’opportunità di acquisire consensi e i “poteri forti” — forti proprio perché dispongono di potere materiale ed economico — “investano” in questo campo garantendo considerevoli benefici a chi aderisce alle loro richieste. Per esempio, con la concessione agli Stati poveri di prestiti condizionati dall’approvazione dei cosiddetti diritti civili oppure la sovvenzione di scuole a condizione che garantiscono di impartire determinati tipi di istruzione ideologica oppure ancora promuovere e sostenere economicamente movimenti e iniziative popolari di tipo ideologico da parte di potentati finanziari.

Ma anche a un livello più concreto e popolare si possono riscontrare forme di adesione di comodo. Per esempio, un insegnante ideologizzato e politicizzato, una volta che il suo partito promuova la campagna per un determinato tipo di istruzione, si potrà adeguare a questa esigenza solo perché sposata dal suo partito, anche a prescindere dal fatto cha la condivida effettivamente.

7. “Buonismo” e imposizione dell’ideologia

Nonostante escluda le tecniche di persuasione più o meno occulta dalla presente trattazione, non posso non fare un cenno al cosiddetto “buonismo”, sia in ragione della sua rilevanza pratica, sia per meglio circostanziare il concetto dinanzi espresso, cioè il fatto che l’ideologia troverebbe un facile terreno di coltura nella superficialità e nello scarso impegno di certi suoi destinatari.

In sostanza il “buonismo” è il ricorso strumentale ai valori universali, vale a dire a quei valori naturali di cui tutti gli uomini ritengono che ognuno dovrebbe poter godere, per esempio “pace”, “vita”, “libertà”, “amore”, “uguaglianza”, “fraternità”, “salute”, “istruzione”, e così via. La strumentalità sta nel fatto che lo scopo che si vuole conseguire non è quello proclamato. Per esempio, quando si giustificano determinati atteggiamenti connotandoli come positivi e gratuiti mentre, al di là dall’effetto superficiale che creano, essi prevedono un tornaconto occulto oppure trascurano le gravi, ma meno evidenti, conseguenze che da questi possono derivare. “Valore”, infatti, è un concetto assoluto, che dev’essere contestualizzato. Così, se è vero che ognuno ha diritto alla pace, è anche vero che il male fa parte di questo mondo e la guerra è sempre esistita e, quindi, per combatterla, sarà spesso necessario usare lo strumento della forza; oppure: per favorire la pace, dovremmo abolire gli eserciti? sarebbe un atto moralmente corretto il restare inerme, mentre il proprio popolo viene trucidato?

L’imperatore Napoleone Bonaparte (1769-1821) era solito dire, con ragione, che il popolo che non vuole mantenere un esercito, finirà inevitabilmente per mantenere quello di un altro Paese.

Lo strumento del buonismo è subdolo e assai malvagio: fa leva sui buoni sentimenti umani nella certezza di perseguire, invece, obiettivi opportunistici, che altrimenti non sarebbero raggiunti o darebbero minor profitto (10). Per affermare un valore bisogna considerare, invece, che spesso si rende necessario affievolirne un altro: i valori sono indubbiamente qualcosa cui tendere nell’immediato, però, a volte, può rendersi necessario rinunciare, almeno in parte, ad alcuni di essi, considerando le priorità e ricorrendo a compromessi, in vista di un bene più esteso o diffuso. Per esempio, di fronte a un bambino affetto da una malattia rara ognuno si commuove e, facendo leva sui suoi buoni sentimenti, si potrebbe concludere che è bene ostinarsi a somministrare determinate cure anche se non ne è stata dimostrata l’efficacia, oppure investire molte risorse per trovare altri rimedi, sia pure con esiti incerti.

Se approfondiamo il discorso, ci accorgiamo che questo tipo di ricerca comporta un grosso impegno economico e, siccome in natura i mezzi sono sempre scarsi, essi vanno utilizzati nella maniera più proficua possibile.

Concludendo e tornando alle considerazioni iniziali, la morale concerne la scelta individuale fra il bene e il male, ma l’individuo non sempre può avere una visione complessiva degli esiti della sua scelta ed è quindi necessario l’intervento dell’autorità pubblica, la quale, proprio perché ha una visione d’insieme più attendibile, dovrebbe consentire di svolgere una funzione più propriamente etica.

Insomma, che il singolo si fermi, in buona fede, all’immediata evidenza delle cose è comprensibile, ma se questi non si sforza di portare lo sguardo oltre il proprio naso, diventa ipocrita; chi, invece, facendo leva sui buoni sentimenti altrui, persegue i propri egoistici interessi, si rende autore di una mancanza ancora più grave, una offesa alla buona fede e all’umanità intera.

In epoche passate i tiranni, per esercitare il proprio potere, facevano grande affidamento sull’ignoranza del popolo; quest’ultimo, dal suo canto, consapevole dei propri limiti, trovava utile riporre la propria fiducia nel suo principe e, su questo tacito accordo, si reggeva la possibilità di governare, almeno finché chi esercitava il suo potere lo faceva in forma etica.

Oggi, invece, come detto, la deriva anti-etica lascia poche speranze sia per quanto riguarda i singoli, sia i governanti. Anzi, la necessità che hanno i governanti di raccogliere il consenso degli elettori li espone alla tentazione di forgiare un elettorato sempre meno consapevole. Ma oggi, almeno in Occidente, l’ignoranza pare superata, la maggior parte dei cittadini è istruita e ne è consapevole, legge, guarda la televisione e naviga su Internet: ecco, allora, che l’ignoranza lascia il posto a un disvalore ancor peggiore: la superficialità. La disaffezione per le questioni sociali, l’impossibilità o anche solo la difficoltà di cogliere le questioni nella loro essenza, l’incapacità di prefigurare le conseguenze disastrose che possono derivare da scelte accettate o condivise con faciloneria, il tutto aggravato dalla convinzione di essere adeguatamente istruiti, sono il fertile terreno in cui attecchisce l’imposizione ideologica e, in primo luogo, attraverso lo strumento del buonismo. Se i più, anziché aderire all’ideologia per il timore di apparire retrogradi, stupidi e ignoranti come si vuol far loro credere, imparassero a informarsi e giudicare in autonomia, probabilmente potremmo evolverci verso un mondo veramente migliore.

8. Le religioni

Per uno Stato laico avere un comportamento etico, che possa essere condiviso dalle numerose religioni praticate nel paese, è indubbiamente molto difficoltoso. A riguardo, non posso non accennare a un paio di aspetti quanto mai attuali nei rapporti fra società civile, cristianesimo e islam.

Il primo di questi riguarda una certa benevolenza “buonistica” da parte delle istituzioni nei confronti delle popolazioni islamiche di recente immigrazione. Buonistica perché, anziché creare i presupposti per una seria integrazione, esse sembrano volere premiare gli aspetti esteriori di questi ultimi facendo leva sui soliti malintesi valori universali e spesso in aperto discapito della popolazione autoctona. La strumentalità di tale operazione pare risiedere nella malcelata intenzione di accaparrare nuovi, attuali benefici pratici e futuri consensi elettorali.

Il secondo aspetto investe anche il grave problema del terrorismo di matrice islamica e riguarda, invece, la considerazione che l’islam — una cultura che si fonda saldamente, comunque, su un credo religioso — può avere dell’Occidente, il quale, pur essendosi formato e avendo raggiunto un livello di progresso invidiabile e unico nella storia dell’uomo, grazie soprattutto all’impulso che gli ha impresso il cristianesimo, oggi si comporta come se Dio non esistesse e, anzi, rinnega la sua religiosità preferendogli, addirittura, un atteggiamento antireligioso.

A questo proposito è appena il caso di rammentare che quell’Occidente, ormai solo nominalmente cristiano, costituisce un bersaglio previlegiato del terrorismo islamico nonostante sia il Corano, sia il profeta Muḥammad (570 ca.-632), abbiano previsto un particolare regime di tolleranza verso ebrei e cristiani — detti “la gente del libro”, Ahl al-Kitāb —, in ragione del comune credo in alcuni testi ritenuti di origine divina — rispettivamente la Tōrāh degli ebrei e l’Injīl ovvero il Vangelo dei cristiani.

Da quanto detto risulta chiaro, insomma, che fra un Occidente religioso che avrebbe dovuto meritare una certa tolleranza da parte degli islamici e un Occidente, che si professa non solo “laico”, ma molto vicino all’ateismo e che viene avversato dall’islam perché ritenuto demoniaco, è il secondo che pare essere prevalso nella considerazione sia di buona parte dei musulmani, sia della totalità degli integralisti e dei terroristi al suo interno.

9. Il manovratore

Se è abbastanza agevole analizzare l’ideologia nel suo aspetto fenomenico e risalire alla sua essenza, non altrettanto facile comprendere se esista qualcuno, e soprattutto chi sia, che ne muove le fila. Si può intuire che in buona parte il fenomeno si autoalimenti per effetto dell’abbrivio che gli ha impresso il movimento culturale rivoluzionario e il mai sopito desiderio umano di rendersi autonomo rispetto sia a Dio, sia al messaggio religioso.

Vi sono però altri segnali che non possono essere ignorati, per esempio l’appoggio che l’inculturazione dell’ideologia riceve da parte di molti “poteri forti” — economici, finanziari e politici di caratura mondiale —, un appoggio che difficilmente può essere giustificato solo sulla base del tornaconto personale. Già allargando lo sguardo su un panorama un po’ più ampio del nostro abituale ambito di vita ci accorgiamo di non poche contraddizioni che caratterizzano la nostra epoca.

Con buona pace di tutti i bei propositi di un progresso che dovrebbe migliorare le condizioni della vita umana, oggi ci accorgiamo che la distribuzione della ricchezza ha un andamento contrario a quello auspicato: secondo l’ultimo studio di Oxfam (11), nel prossimo anno l’1% della popolazione mondiale deterrà più ricchezza del restante 99%, con ritmi di crescita in continuo aumento. Poco prima la stessa ONG aveva stilato un altro rapporto secondo il quale 85 persone al mondo deterrebbero una ricchezza equivalente a quella del 50% della popolazione più povera del pianeta, cioè 3,5 miliardi d’individui; nell’anno successivo la soglia sarebbe scesa a 80 elementi mentre nel 2010 erano ben 388 persone.

Una progressione impressionante che non può essere colta se non come un segnale dell’inarrestabile polarizzazione della distribuzione delle risorse economiche. Anche l’Europa, sebbene caratterizzata da livelli di distribuzione della ricchezza più omogenei, non è indenne dal problema del progressivo impoverimento delle masse a beneficio di poche ricche élite capaci di influenzare le istituzioni politiche ed economiche a proprio vantaggio (12).

Per un altro verso, dopo decenni di tutela del posto di lavoro che a volte risultava paradossale per la sua sconsideratezza, oggi si assiste, complice la crisi — ma non solo — a una precarizzazione del posto di lavoro e delle prospettive previdenziali, un fenomeno che ci riporta indietro nel tempo di molti lustri. E il fatto, pur essendo particolarmente grave in Italia, riguarda anche, con dimensioni più o meno rilevanti, buona parte del mondo e, in particolare, i Paesi dell’Occidente.

Certo, rimane da discutere su come l’ideologia contribuisca a determinare questo stato di cose, ma la via intrapresa lascia prefigurare una società futura in cui Dio sarà bandito e le persone, pur credendosi appagate dai progressi che la tecnologia mette loro a disposizione e ritenendosi libere di decidere autonomamente del loro destino, non si renderanno conto di aver invece smarrito ogni capacità di analizzare le problematiche nella loro essenza e complessità e si troveranno sempre più sole e incapaci di relazionarsi fra loro, inebetite dai mass-media, indebolite, indebitate e, sostanzialmente, incapaci di opporsi ai padroni del sistema economico che li controlla, li tiene in ostaggio e li sfrutta come meglio crede.

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1) Cfr. Andrew Knapp e Vincent Wright, The Government and Politics of France, Routledge, Londra 2006.

2) Karl Marx, Critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione, in Idem e Friedrich Engels, (1820-1895) Opere complete, trad. it., 50 voll., Editori Riuniti (poi La Città del Sole), Roma(-Napoli) 1976-1991, vol. III, 1843-1844, a cura di Nicolao Merker (1931-2016), p. 91.

3) Cfr. Michael Burleigh, Sacred Causes, Harper Collins, New York 2006, pp. 41-43.

4) Catechismo della Chiesa Cattolica [CCC], n. 2.402; cfr. anche n. 2.403.

5) Cfr. Gn 1, 26-30 e Sal 8, 5-9.

6) Cfr. CCC, n. 2.291.

7) Nell’Epistola enciclica “Slavorum apostoli” nel ricordo dell’opera evangelizzatrice dei santi Cirillo e Metodio dopo undici secoli (2 giugno 2005, n. 27), Giovanni Paolo II affermava che «Cirillo e Metodio sono come gli anelli di congiunzione, o come un ponte spirituale tra la tradizione occidentale e quella orientale, che confluiscono entrambe nell’unica grande Tradizione della Chiesa Universale. Essi sono per noi i campioni ed insieme i patroni dello sforzo ecumenico delle Chiese sorelle d’Oriente e d’Occidente, per ritrovare mediante il dialogo e la preghiera l’unità visibile nella comunione perfetta e totale»

8) Cfr. Gn 3, 22.

9) 1Cor 10, 20-21.

10) Cfr. Mt 18, 6.

11) Cfr. il sito web, https://www.oxfam.org/en/research/eco- nomy-1  consultato il 26-8-2016.

12) Cfr. il sito web http://www.oxfamitalia.org/wp-content/uploads/2015/09/EU-report_finale_08.09.pdf , consultato il 26-8-2016.