A vent’anni dalla morte di Giuseppe Dossetti

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Giuseppe Dossetti

Per Rassegna Stampa dicembre 2016

Piero Mainardi

Il ventesimo anniversario della morte di Giuseppe Dossetti (15 dicembre 1996) cade in un momento particolarmente significativo per la società e la cattolicità italiana: nella fase di passaggio tra un governo  e un altro governo guidato da esponenti che sono espressione del “cattolicesimo democratico” e sotto la guida di un Presidente della Repubblica pure lui espressione di quest’area politica. Poco importa che i nomi di Matteo Renzi, Paolo Gentiloni e Sergio Mattarella siano culturalmente poco significativi, certamente non riconducibili integralmente a quel tipo di “cattolicesimo democratico” che, per esempio, un Romano Prodi incarnò in prima persona come eredità del dossettismo. Fatto sta che ne sono in qualche modo una prosecuzione e un esito. Sono la storia del “lungo cammino” che parallelamente il mondo comunista e parte di quello cattolico hanno compiuto per giungere al “grande abbraccio” politico nel “Partito Democratico”.

Il quadro non sarebbe completo se non valutassimo anche il punto di approdo spirituale ed ecclesiologico del cattolicesimo italiano e della Chiesa in generale, oggi, sotto il pontificato di Jorge Mario Bergoglio.

La storia di Dossetti è di una importanza senza pari per la storia politica italiana e quella ecclesiale del XX secolo poiché egli si occupò di entrambe con un impeto e una radicalità fuori dal comune. Entrambi i settori, quello politico e quello ecclesiale, portano visibilmente i segni e recano ancora gli effetti della sua azione.

Nato nel 1913, vissuto nel reggiano, di formazione giuridica e canonistica, esperto di diritto romano, cresciuto nella Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, fucina intellettuale prima dell’incontro tra cattolicesimo e Fascismo e, dal ’41 in poi, laboratorio per una via d’uscita cattolica al Fascismo nel dramma della guerra, fu partigiano, esponente democristiano e capocorrente della sinistra DC, rifacentesi, grosso modo, al progetto politico del filosofo francese Jacques Maritain. Ma soprattutto fu, non solo padre costituente, ma convinto assertore del carattere fondante e pedagogico della Costituzione per il nuovo cittadino italiano, nei termini di una reale educazione democratica, considerata alla stregua di un Vangelo politico.

Nella Resistenza e nella Costituente ebbe modo di confrontarsi con i comunisti. Dossetti non era marxista, ma il fascino dell’idealismo comunista, il richiamo continuo alla giustizia sociale, una certa “integrità” che coglieva nei suoi militanti ed esponenti lo affascinava e lo attraeva. Tra Usa ed Urss certamente preferiva l’Urss, al punto da palesare ammirazione per i piani quinquennali sovietici. Egli fece concorrenza ai comunisti, ma sul loro stesso terreno, utilizzando argomentazioni che non fossero mai riconducibili o confondibili con quelle del mondo conservatore o di destra, anche cattolica, come si poteva notare esplicitamente sul concetto di proprietà privata.

La dimensione ideologica e intellettuale che insieme ad altri esponenti DC suoi amici come Lazzati, La Pira, Fanfani, Moro nel campo cattolico, negli anni della guida politica degasperiana calibrata su una concezione sostanzialmente liberal-cattolica e parlamentare del partito, gli valse un crescente consenso tra i quadri del partito e l’egemonia pressoché totale sul movimento giovanile DC.

Certamente, ancor più del già poco stimato De Gasperi, non incontrò la simpatia di Pio XII. E Dossetti ricambiò.

Il successo della Dc nel 1948 fu ben poco in realtà una vittoria democristiana e molto più della mobilitazione dell’Azione Cattolica di Gedda, fedelissima ed espressione della mens di papa Pacelli. E infatti le dimensioni e i toni del successo vennero giudicate da entrambi, Dossetti e De Gasperi, “preoccupanti”. De Gasperi rimediò con un quadripartito laico, Dossetti leccandosi le ferite e meditando a lungo su questo “problema” di un laicato considerato manipolato dal clero e legato a suggestioni autoritarie e costantiniane.

L’idea centrale dell’inquietudine dossettiana è quella di “Riforma”, intesa come riforma radicale, totale in tutti gli ambiti della società. Dossetti nella sua radicalità cristiana, è molto prossimo all’utopia e all’ideologia. Non accetta la realtà politica, né quella sociale, né quella economica: il vero nemico per Dossetti è il mondo conservatore, piccolo, medio o grande che sia, giudicato borghese e fondamentalmente anticristiano. Nella sua profonda dimensione ideologica Dossetti finisce per trascinare le categorie evangeliche nella lotta politica.

Prescindendo dalla dottrina sociale della Chiesa, sentita come troppo angusta e fomentante il clericalismo, la sua analisi socio-politica si ideologizza e si radicalizza sempre più, fatto questo che gli impedisce di cogliere la complessa stratificazione e articolazione della società, i corpi intermedi, le diseguaglianze naturali, legittimando, di fatto, la dialettica classista, se pur in tinta cristiana. Ma tra le realtà che Dossetti non gradisce e intende rieducare vi è pure la realtà cattolica. Anzi nel suo continuo riflettere arriverà a considerare che il vero ostacolo alla sua azione politica non è De Gasperi, non sono i comunisti, né è la politica in sé, bensì la situazione stessa della cristianità italiana e della Chiesa, in modo del tutto strutturale. Se non cambiano i cattolici e la Chiesa la sua azione, pensa Dossetti, è condannata all’insuccesso.

Dossetti decide allora di abbandonare clamorosamente la politica e la DC nel 1952. Ma non fu un gettare la spugna, anzi i Dossettiani si sparpagliarono nella società e nella Chiesa: Fanfani alla guida del partito, Lazzati nell’ambiente universitario, La Pira diverrà carismatico sindaco di Firenze, altri di loro presso strategici Istituti statali come lo Svimez e l’Iri e altri ancora nei gangli dirigenziali dell’Azione Cattolica trascinandola nella ”scelta religiosa” e con orientamenti del tutto opposti a quelli geddiani e pacelliani.

Nel ’56, a Bologna, con una ristretta cerchia di amici – tra i quali Giuseppe Alberigo – fonda il “Centro di documentazione” che cercava di individuare nella linea della storicità i fondamenti accessori della teologia e delle istituzioni del cattolicesimo, in modo da poter operare una radicale e globale riforma nel cattolicesimo e nella Chiesa, su tutti i livelli. È l’atto di nascita di quella che sarà la “Scuola di Bologna”.

Nel 1959 viene ordinato sacerdote dal cardinale Giacomo Lercaro. Dossetti aveva individuato con i suoi amici del Centro un primo obiettivo da mettere a fuoco: quello dello studio critico di tutti i Concili ecumenici della Chiesa cattolica. Quando Giovanni XXIII annuncerà il prossimo Concilio i “Bolognesi” avevano le armi già ben oliate. Il Concilio è sentito da Dossetti come un passaggio eccezionale dello Spirito Santo sulla vita della Chiesa e sull’umanità ed anche come la grande occasione attraverso cui far passare le proprie convinzioni di riformatore ecclesiale.

Al Concilio partecipò come perito per conto del card. Lercaro, ma fu consulente anche di numerosi altri vescovi per i quali scrisse decine di interventi sui temi più svariati. Fu nominato segretario dei Quattro cardinali moderatori. Un ruolo estremamente importante perché sui Quattro e su di lui gravava la riorganizzazione dell’impostazione “tecnica” dello svolgimento del Concilio dopo che si era imposta la volontà da parte della maggioranza dei padri conciliari di rigettare gli Schemi preparatori, stesi dalla Curia e approvati dal Papa. Più tardi, con compiacimento ostentato, Dossetti ebbe modo di definire la sua azione nel Concilio quale quella di un “partigiano” e di aver utilizzato la sua precedente esperienza politica, maturata soprattutto nella Costituente, trattando l’aula conciliare e i padri, alla stregua di un’aula politica, quasi che, come rilevò il cardinal Biffi, si trovasse un’accozzaglia di uomini da manovrare e non un’assemblea di uomini di Dio, sui quali avrebbe dovuto dominare l’affidarsi al soffio dello Spirito Santo.

L’infaticabile attivismo di Dossetti al Concilio trova un ostacolo in Paolo VI che comprende che quel ruolo di segretario non fa per lui. Ciò nonostante Dossetti (aiutato dai suoi collaboratori, soprattutto i coniugi Alberigo) è irrefrenabile sia nell’attività intraconciliari, sia al suo esterno già delineando linee di interpretazione e di recezione del Concilio in corso.

Nell’azione di Dossetti durante il Concilio, rileva Gianni Baget Bozzo, si rileva un “forte pathos rivoluzionario” e un “momento di soluzione di continuità, di rottura col passato e con la Tradizione e di radicale rinnovamento nella vita della Chiesa”.

Il successo più notevole al Concilio per Dossetti fu l’affermazione del principio della collegialità nella Chiesa che venne però parzialmente frustrato nel suo principio antimonarchico dall’inserimento della Nota esplicativa previa richiesto da alcuni cardinali e accettato Paolo VI che ben comprese la trappola che insidiava il governo monarchico petrino. Praticamente uno schiaffo che la Scuola di Bologna ancora non ha digerito.

L’intreccio tra la dimensione politico-sociologica del pensiero di Dossetti, la recezione – certamente parziale ma importante – di certe sue idee nei testi del Concilio e soprattutto nella recezione e propaganda postconciliare appaiono abbastanza evidenti su molte questioni: oltre alla già accennata questione demonarchizzante del primato petrino, figlia di una concezione sostanzialmente “democratizzante” della Chiesa (che si può osservare anche nell’attacco alla Curia e nella esaltazione invece del ruolo del Vescovo, dei teologi, e strutture quali Sinodi e Conferenze episcopali), lo troviamo nell’enfasi del concetto di “popolo di Dio”, nel sostituire per la Chiesa la categoria di “societas perfecta” con quella più vagamente mistica e meno giuridica e quindi più malleabile di “mistero”, la polemica contro la Chiesa “Costantiniana”, la radicalità sulla questione della pace e sul disarmo e soprattutto sulla Chiesa povera.

Ma non solo povera in termini di beni materiali ed è questo, forse il punto di arrivo più significativo (e terribilmente attuale e inquietante, spacciato come ritorno alla spiritualità del nudo Evangelo) della lunga marcia dossettiana che oggi sembra veramente raggiunto. Infatti scrivendo al cardinal Lercaro, Dossetti affermava che “la povertà della Chiesa non può prescindere da un riconoscimento di sé stessa “culturalmente povera” … che abbia il coraggio di rinunziare alle sue stesse ricchezze culturali del passato, per proporre sempre più, in modo spoglio ed essenziale, la ricchezza divina del messaggio evangelico … abbandonando la sicurezza basata su un sistema razionale per confidare piuttosto nella ricchezza assoluta del libro sacro”.

In questa “povertà culturale” è presente una vera e propria rinuncia al diritto e alla metafisica, sostegno razionale dei praemabula fidei, tratto dalle strutture del pensiero greco con cui la Chiesa aveva riconosciuto i propri dogmi e la struttura stessa dell’essere e della realtà a vantaggio della “nuda spiritualità e purezza evangelica”. Inutile sottolineare che la dimensione adottrinale e anomica sono i caratteri più evidenti di un movimento interno alla dinamica culturale del cattolicesimo postconciliare che ha raggiunto la sua apoteosi proprio con il pontificato di Papa Francesco.

A venti anni dalla morte possiamo per certi aspetti affermare che ci stiamo trovano davanti al trionfo di Dossetti e del dossettismo nell’opera dei suoi prosecutori diretti e indiretti. Nella fase politica l’incontro tra sinistra e cattolici e soprattutto tra postcomunisti e cattolici è avvenuto, ed è avvenuto più che nell’elettorato tra i vertici dei dirigenti delle associazionismo del mondo cattolici con la palese approvazione di una parte dell’episcopato italiano, in funzione anti-conservatrice e tessuta attorno alla ideologia democratica che sostituisce, di fatto, la “dottrina sociale della Chiesa ”tanto invisa ai dossettiani perché considerata strumento di controllo clericale.

Sul piano ecclesiale il successo è ancora più netto: la Scuola di Bologna si è imposta nella elaborazione delle categorie di recezione del Concilio, gli Istituti Superiori di Scienze religiose nei loro docenti e attraverso i loro docenti nella formazione degli studenti, cioè insegnanti di religione, catechisti, animatori delle parrocchie e semplici studiosi sono permeati di molte delle categorie proposte da questo centro e, analogamente accade nel clero. Abbiamo già sottolineato come siano in corso la dedogmatizazione e la dedottrinalizzazione in corso a vantaggio di una elastica propaganda dell’ortoprassi evangelica (come se la dottrina non ne avesse costituito il fondamento logico e la precisa espressione concettuale) che Dossetti aveva espresso oltre cinquant’anni fa.

Eppure davanti a questo successo apparentemente trionfante e totale è facile scorgere anche gli elementi della sua stessa decomposizione: il cattolicesimo, lo si è visto, sulla liturgia non è suscettibile né riducibile di mera riforma umana e per vie “progettuali” o “intellettuali” e simili; il cattolicesimo può patire gli effetti dell’ideologia e il suo circolare in lei, ma alla fine ha sempre gli anticorpi per risorgere a nuova vita riformato sì e anche dall’azione umana ma solo se questa concorda con i suoi principi e con la volontà di Dio.

Il paradosso di questo trionfo consiste proprio nel proprio scacco: in politica i cattolici esprimono il Presidente della Repubblica, il Presidente del Consiglio, oltre a ministri e parlamentari ma a nessuno sfugge che si tratta solo di cattolici all’anagrafe parrocchiale, cioè nulli in rapporto alla propria fede e questo proprio in un momento dove sono caduti gli ultimi bastioni non della cristianità ma del diritto naturale e della natura, come la famiglia uomo-donna e la questione-gender.

Allo stesso modo, nella Chiesa, l’occupazione di tutti i posti possibili nella gerarchia e nel laicato da parte della setta progressista ha prodotto un essiccamento tale nella vita spirituale individuale ed ecclesiale, una confusione tale e un isterilimento vocazionale (che certamente Dossetti non voleva né aveva previsto, pur nel suo aderire a forme prossime a quelle della teologia della tenda e quindi legata al deserto attorno a sè) che ha spinto molti cattolici responsabili ad approfondire la propria fede e a nutrirsi di ben altri alimenti spirituali di quelli propinati da molte delle strutture ormai logore del cattolicesimo ufficiale rivalutando, si spera intelligentemente, tutto il patrimonio spirituale, culturale e intellettuale della Tradizione cattolica.