Il dramma ignorato delle suore violentate

agnus_deiLa Nuova bussola quotidiana 22 Ottobre 2016

di Rino Cammilleri

In novembre arriverà anche in Italia il film franco-polacco Agnus Dei (nell’edizione francese, Les innocentes). Un film diretto da una donna, Anne Fontaine, e sceneggiato da altre due. Un film femminile, insomma, e al femminile, perché parla di donne. La protagonista è un medico francese che nel 1945 lavora con la Croce Rossa al rimpatrio dei feriti francesi in Polonia. Qui le tocca assistere, discretamente, alcune suore che sono state violentate dai sovietici e, perciò, sono rimaste incinte.

Gli elementi per il dramma psicologico e filosofico ci sono tutti e, va detto, sono trattati con sensibilità e delicatezza. In base alle regole filmiche del 2016 (anno di uscita del lavoro) c’è un happy end e un finale «aperto»: troverà la fede la protagonista? Infatti, ella è comunista, ma quel che ha visto scuote le sue certezze (ma non più di tanto). Nel frattempo, ha una relazione sessuale one shot col suo superiore, un medico ebreo (naturalmente), che non sopporta i polacchi, avendo essi dato un notevole contributo alla persecuzione razziale.

Personaggio negativo (ma non troppo): la superiora delle suore violentate, che rifiuta le cure per la sifilide (è stata stuprata pure lei) e, per fanatismo, deposita uno dei frutti del peccato in aperta campagna e nella neve, «affidandolo alla Provvidenza». La madre dell’esposta (è una bimba), giovane novizia, si suicida appena viene a saperlo. A questo punto si potrebbe scivolare nella pochade dannunziana, ma la regista ha il buon gusto di fermarsi in tempo e assolve la superiora, la quale per espiare fa una specie di sciopero della fame. Vabbe’, dati i tempi che corrono, meglio che niente.

Si potrebbe infierire ricordando che le «ruote» le hanno inventate proprio le suore per scongiurare l’esposizione dei neonati indesiderati e che l’infanticidio è da sempre aborrito dalla Chiesa cattolica. Ma preferiamo elogiare la regista che ha riesumato una storia vera, che gli stessi polacchi hanno dovuto tacere per troppo tempo. La storia (vera), tuttavia, è molto peggiore di quella raccontata nel film e non ha alcun lieto fine. In quel convento di benedettine la soldataglia sovietica violentò per quaranta volte di fila le venticinque suore più giovani: venti morirono e cinque sopravvissero ma gravide.

La protagonista (vera) si chiamava Madeleine Pauliac, era un medico parigino e membro della resistenza. Nel 1945, come ufficiale medico, fu mandata a Varsavia, dove i sovietici erano presenti fin dal 1944. Attestatisi sull’altra sponda della Vistola, avevano aspettato tranquillamente che i tedeschi facessero il lavoro sporco per loro, radendo al suolo la città dopo due mesi di una insurrezione che aveva fatto duecentomila morti (i tre quarti civili). La Croce Rossa aveva il compito di cercare e rimpatriare i soldati francesi feriti in zona.

La Pauliac constatò, come medico, che i sovietici avevano violentato tutto il violentabile e che i conventi femminili erano stati particolarmente presi di mira. Ma non solo. Nei reparti maternità dell’ospedale di Varsavia gli stupri erano continui, non risparmiando neppure le donne in travaglio e neanche quelle che avevano appena partorito. La Pauliac dovette occuparsi di queste donne e riportò la cosa nei suoi diari. Morì l’anno dopo per un incidente proprio da quelle parti. La protagonista del film (nel quale tutti i nomi sono cambiati), invece, sopravvive. Anche se le tocca un «incontro ravvicinato» con una pattuglia sovietica alla cui collezione mancava giusto una francese. Se la cava per il rotto della cuffia, ma la regista non ci dice se le sue convinzioni sul Sol dell’Avvenire siano rimaste intaccate. Finale aperto, si è detto. E storia chiusa.