Nuovo sguardo sulla legge naturale (cap I)

Dal sito della Santa Sede

COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE

ALLA RICERCA DI UN’ETICA UNIVERSALE:
NUOVO SGUARDO SULLA LEGGE NATURALE

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CAPITOLO I: CONVERGENZE

1.1. Le sapienze e le religioni del mondo

12. Nelle diverse culture, gli uomini hanno progressivamente elaborato e sviluppato tradizioni di sapienza nelle quali esprimono e trasmettono la loro visione del mondo, come pure la loro percezione riflessa del posto che l’essere umano occupa nella società e nel cosmo. Prima di ogni teorizzazione concettuale, queste sapienze, che sono spesso di natura religiosa, trasmettono un’esperienza che identifica ciò che favorisce o ciò che impedisce il pieno manifestarsi della vita personale e il buon andamento della vita sociale.

Esse costituiscono una sorta di «capitale culturale» disponibile per la ricerca di una sapienza comune necessaria per rispondere alle sfide etiche contemporanee. Secondo la fede cristiana, queste tradizioni di sapienza, nonostante i loro limiti e talvolta i loro errori, colgono un riflesso della sapienza divina che opera nel cuore degli uomini. Esse richiedono attenzione e rispetto, e possono aver valore di praeparatio evangelica.

La forma e l’estensione di queste tradizioni possono variare considerevolmente. Tuttavia sono testimoni dell’esistenza di un patrimonio di valori morali comuni a tutti gli uomini, al di là del modo in cui tali valori sono giustificati all’interno di una particolare visione del mondo. Ad esempio, la «regola d’oro» («Non fare a nessuno ciò che non vuoi che sia fatto a te» [Tb 4,15]) si ritrova, sotto una forma o un’altra, nella maggior parte delle tradizioni di sapienza (7).

Inoltre, sono generalmente concordi nel riconoscere che le grandi regole etiche non solo si impongono a un determinato gruppo umano, ma valgono universalmente per ogni individuo e per tutti i popoli. Infine molte tradizioni riconoscono che questi comportamenti morali universali sono richiesti dalla natura stessa dell’essere umano: essi esprimono la maniera in cui l’uomo deve inserirsi, in modo creativo e insieme armonioso, in un ordine cosmico o metafisico che lo supera e che dà senso alla sua vita. Infatti tale ordine è impregnato da una sapienza immanente. È portatore di un messaggio morale che gli uomini sono in grado di decifrare.

13. Nelle tradizioni indù il mondo — il cosmo, come pure le società umane — è regolato da un ordine o da una legge fondamentale (dharma) che bisogna rispettare per non provocare gravi squilibri. Il dharma definisce perciò gli obblighi socio-religiosi dell’uomo. Nella sua specificità, l’insegnamento morale dell’induismo si comprende alla luce delle dottrine fondamentali delle Upanishads: la credenza in un ciclo indefinito di trasmigrazioni (samsāra), con l’idea che le azioni buone o cattive compiute nella vita presente (karman) hanno influenza sulle rinascite successive.

Tali dottrine hanno importanti conseguenze sul comportamento nei confronti degli altri: implicano un alto grado di bontà e di tolleranza, il senso dell’azione disinteressata a beneficio degli altri, come pure la pratica della non-violenza (ahimsā). La principale corrente dell’induismo distingue due corpi di testi: šruti («ciò che è inteso», cioè la rivelazione) e smrti («ciò che si ricorda», cioè la tradizione).

Le prescrizioni etiche si trovano soprattutto nella smrti, più in particolare nei dharmaśāstra (i più importanti dei quali sono i mānava dharmaśāstra o leggi di Manu, del 200-100 a.C.). Oltre al principio di base, secondo il quale «il costume immemorabile è la legge trascendente approvata dalla sacra scrittura e dai codici dei divini legislatori; perciò ogni uomo delle tre classi principali, che rispetta lo spirito supremo che è in lui, deve sempre conformarsi diligentemente al costume immemorabile» (8), vi si trova un equivalente pratico della regola d’oro: «Ti dirò ciò che è l’essenza del più grande bene dell’essere umano. L’uomo che pratica la religione (dharma) del non-nuocere (ahimsā) universale acquista il più grande Bene.

Quest’uomo che si domina nelle tre passioni, la cupidigia, la collera e l’avarizia, rinunciandovi in rapporto agli esseri, acquisisce il successo. […] Quest’uomo che considera tutte le creature come il proprio “se stesso” e li tratta come il proprio “sé”, deponendo la verga punitiva e dominando completamente la sua collera, si assicurerà il possesso della felicità. […] Non farà all’altro ciò che si considera nocivo per se stesso. È insomma la regola della virtù. […] Nel fatto di rifiutare e di dare, nell’abbondanza e nell’infelicità, nel gradevole e nello sgradevole, si giudicherà di tutte le conseguenze considerando il proprio “sé”» (9). Diversi precetti della tradizione indù si possono mettere in parallelo con le esigenze del Decalogo (10).

14. Generalmente si definisce il buddismo con le quattro «nobili verità» insegnate da Buddha dopo la sua illuminazione: 1) la realtà è sofferenza e insoddisfazione; 2) l’origine della sofferenza è il desiderio; 3) la cessazione della sofferenza è possibile (con l’estinzione del desiderio); 4) c’è una via che conduce alla cessazione della sofferenza. Questa via è il «nobile ottuplice sentiero» che consiste nella pratica della disciplina, della concentrazione e della sapienza.

Sul piano etico le azioni favorevoli si possono riassumere nei cinque precetti (śīla, sīla): 1) non nuocere agli esseri viventi e non togliere la vita; 2) non prendere ciò che non è dato; 3) non avere una condotta sessuale scorretta; 4) non usare parole false o menzognere; 5) non ingerire prodotti intossicanti che diminuiscono il dominio di sé. Il profondo altruismo della tradizione buddista, che si traduce in un atteggiamento deliberato di non-violenza, con la benevolenza amichevole e la compassione, raggiunge così la regola d’oro.

15. La civiltà cinese è profondamente segnata dal taoismo di Laozi o Lao-Tse (VI sec. a.C.). Secondo Lao-Tse, la Via o Dào è il principio primordiale, immanente a tutto l’universo. È un principio inafferrabile di cambiamento permanente sotto l’azione di due poli contrari e complementari: lo yīn e lo yáng.

Spetta all’uomo sposare tale processo naturale di trasformazione, lasciarsi andare al flusso del tempo, grazie all’atteggiamento di non-azione (wú-wéi). La ricerca dell’armonia con la natura, indissociabilmente materiale e spirituale, è dunque al cuore dell’etica taoista. Quanto a Confucio (571-479 a.C.), («Maestro Kong»), in occasione di un periodo di crisi profonda egli tenta di restaurare l’ordine con il rispetto dei riti, fondato sulla pietà filiale che dev’essere al cuore di ogni vita sociale.

Infatti le relazioni sociali si modellano sulle relazioni familiari. L’armonia si ottiene con un’etica della giusta misura, in cui la relazione ritualizzata (il li), che inserisce l’essere umano nell’ordine naturale, è la misura di tutte le cose. L’ideale da raggiungere è il ren, virtù perfetta di umanità, fatta di dominio di sé e di benevolenza verso gli altri. «“Mansuetudine” (shù) non è forse la parola chiave? Ciò che tu non vorresti fosse fatto a te, non infliggerlo agli altri» (11). La pratica di questa regola indica la via del Cielo (Tiān Dào).

16. Nelle tradizioni africane, la realtà fondamentale è la stessa vita. Essa è il bene più prezioso, e l’ideale dell’uomo consiste non solo nel vivere al riparo delle preoccupazioni fino alla vecchiaia, ma soprattutto nel rimanere, anche dopo la morte, una forza vitale continuamente rafforzata nella e con la sua progenie. Infatti la vita è un’esperienza drammatica.

L’essere umano, microcosmo all’interno del macrocosmo, vive intensamente il dramma dello scontro fra la vita e la morte. La missione che gli compete, di assicurare la vittoria della vita sulla morte, orienta e determina il suo agire etico. Così l’uomo deve identificare, in un orizzonte etico conseguente, gli alleati della vita, guadagnarli alla sua causa e così assicurare la propria sopravvivenza che è al tempo stesso la vittoria della vita.

Questo è il significato profondo delle religioni tradizionali africane. L’etica africana si rivela così come un’etica antropocentrica e vitale: gli atti ritenuti suscettibili di favorire lo schiudersi della vita, di conservarla, di proteggerla, di svilupparla o di accrescere il potenziale vitale della comunità sono perciò considerati buoni; ogni atto considerato dannoso alla vita degli individui o della comunità è giudicato cattivo.

Le religioni tradizionali africane appaiono così essenzialmente antropocentriche, ma un’osservazione attenta unita alla riflessione mostra che né il posto riconosciuto all’uomo vivo né il culto degli antenati costituiscono qualche cosa di chiuso. Le religioni tradizionali africane raggiungono il loro vertice in Dio, fonte della vita, creatore di tutto ciò che esiste.

17. L’islàm si considera la restaurazione della religione naturale originale. Vede in Maometto l’ultimo profeta inviato da Dio per ricondurre definitivamente gli uomini sulla retta via. Maometto però è stato preceduto da altri: «Non c’è comunità nella quale non sia passato un ammonitore» (12). L’islàm si attribuisce dunque una vocazione universale e si rivolge a tutti gli uomini, che sono considerati «naturalmente» musulmani. La legge islamica, indissolubilmente comunitaria, morale e religiosa, è intesa come una legge data direttamente da Dio. L’etica musulmana è dunque fondamentalmente una morale dell’obbedienza. Fare il bene significa obbedire ai comandamenti; fare il male significa disobbedire ad essi.

La ragione umana interviene per riconoscere il carattere rivelato della Legge e ricavarne le implicazioni giuridiche concrete. Certo, nel IX secolo, la scuola mou’tazilita ha proclamato l’idea secondo la quale «il bene e il male sono nelle cose», cioè alcuni comportamenti sono buoni o cattivi in se stessi, anteriormente alla legge divina che li comanda o li proibisce.

I mou’taziliti ritenevano che l’essere umano potesse conoscere con la ragione ciò che è buono o cattivo. Secondo loro, l’uomo sa spontaneamente che l’ingiustizia o la menzogna sono cattive, e che è obbligatorio restituire un prestito, allontanare da sé un danno, o mostrarsi riconoscenti verso i propri benefattori, il primo dei quali è Dio.

Ma gli ach’ariti, che dominano nell’ortodossia sunnita, hanno sostenuto una teoria contraria. Fautori di un occasionalismo che non riconosce alcuna consistenza alla natura, ritengono che soltanto la rivelazione positiva di Dio definisca il bene e il male, il giusto e l’ingiusto. Tra le prescrizioni di questa legge divina positiva, molte riprendono i grandi elementi del patrimonio morale dell’umanità e si possono mettere in relazione con il Decalogo (13).

1.2. Le fonti greco-romane della legge naturale

18. L’idea che esista un diritto naturale anteriore alle determinazioni giuridiche positive si trova già nella cultura greca classica con la figura esemplare di Antigone, la figlia di Edipo. I suoi due fratelli, Eteocle e Polinice, si sono affrontati per il potere e si sono reciprocamente uccisi. Polinice, il ribelle, è condannato a rimanere insepolto e ad essere bruciato sul rogo.

Ma Antigone, per adempiere al dovere della pietà verso il fratello morto, si appella contro il divieto di sepoltura pronunciato dal re Creonte, «alle leggi non scritte e immutabili».

Creonte: E così, tu hai osato violare le mie leggi?

Antigone: Sì, perché non le ha proclamate Zeus

Né la Giustizia che abita con gli dèi di quaggiù;

Né l’uno né l’altra le hanno stabilite tra gli uomini.

Io non ritengo che i tuoi decreti siano tanto forti

Che tu, mortale, possa passare oltre

Alle leggi non scritte e immutabili degli dèi.

Esse esistono non da oggi né da ieri, ma da sempre:

Nessuno sa quando sono apparse.

Per il timore delle volontà di un uomo

Non dovevo rischiare che gli dèi mi punissero (14).

19. Platone e Aristotele riprendono la distinzione operata dai sofisti tra le leggi che hanno origine in una convenzione, cioè una pura decisione positiva (thesis), e quelle che sono valide «per natura». Le prime non sono né eterne né valide in modo generale e non obbligano tutti. Le seconde obbligano tutti, sempre e dovunque (15).

Alcuni sofisti, come Càllicle del Gorgia di Platone, ricorrevano a questa distinzione per contestare la legittimità delle leggi istituite dalle città umane. A tali leggi opponevano la loro idea, stretta ed erronea, della natura, ridotta alla sola componente fisica. Così, contro l’uguaglianza politica e giuridica dei cittadini nella Città, sostenevano ciò che sembrava loro la più evidente delle «leggi naturali»: il più forte deve spuntarla sul più debole (16).

20. Niente di questo in Platone e Aristotele. Essi non oppongono diritto naturale e leggi positive della Città. Sono convinti che le leggi della Città sono generalmente buone e costituiscono l’attuazione, più o meno riuscita, di un diritto naturale conforme alla natura delle cose. Per Platone il diritto naturale è un diritto ideale, una norma per i legislatori e per i cittadini, una regola che consente di fondare e di valutare le leggi positive (17).

Per Aristotele questa norma suprema della moralità corrisponde alla realizzazione della forma essenziale della natura. È morale ciò che è naturale. Il diritto naturale è immutabile; il diritto positivo cambia secondo i popoli e le diverse epoche. Ma il diritto naturale non si colloca al di là del diritto positivo. Esso si incarna nel diritto positivo, che è l’applicazione dell’idea generale della giustizia alla vita sociale nella sua varietà.

21. Nello stoicismo la legge naturale diviene il concetto chiave di un’etica universalista. È buono e dev’essere compiuto ciò che corrisponde alla natura, compresa in un senso psico-biologico e insieme razionale. Ogni uomo, qualunque sia la nazione alla quale appartiene, deve integrarsi come una parte nel Tutto dell’universo. Deve vivere secondo la natura (18).Questo imperativo presuppone che esista una legge eterna, un Logos divino, il quale è presente sia nel cosmo, che essa impregna di razionalità, sia nella ragione umana. Così, per Cicerone la legge è «la ragione suprema inserita nella natura che ci comanda ciò che bisogna fare e ci proibisce il contrario» (19). Natura e ragione costituiscono le due fonti della nostra conoscenza della legge etica fondamentale, che è di origine divina.

1.3. L’insegnamento della Sacra Scrittura

22. Il dono della Legge sul Sinai, di cui le «Dieci Parole» costituiscono il centro, è un elemento essenziale dell’esperienza religiosa di Israele. Questa Legge di alleanza comporta precetti etici fondamentali. Essi definiscono il modo in cui il popolo eletto deve rispondere con la santità della vita alla scelta di Dio: «Parla a tutta la comunità degli israeliti dicendo loro: “Siate santi, perché io, il Signore, vostro Dio, sono santo”» (Lv 19,2). Ma questi comportamenti etici valgono anche per gli altri popoli, tanto che Dio chiede conto alle nazioni straniere che violano la giustizia e il diritto (20).

Infatti Dio aveva già stabilito nella persona di Noè un’alleanza con la totalità del genere umano, che implicava in particolare il rispetto della vita (Gn 9) (21). Più fondamentalmente, la creazione stessa appare come l’atto con cui Dio struttura l’insieme dell’universo dandogli una legge. «Lodino [gli astri] il nome del Signore, perché al suo comando sono stati creati. Li ha resi stabili per sempre; ha fissato un decreto che non passerà» (Sal 148,5-6). Tale obbedienza delle creature alla legge di Dio è un modello per gli esseri umani.

23. Insieme ai testi che si riferiscono alla storia della salvezza, con i maggiori temi teologici dell’elezione, della promessa, della Legge e dell’alleanza, la Bibbia contiene anche una letteratura di sapienza che non tratta direttamente della storia nazionale di Israele, ma che si interessa del posto dell’uomo nel mondo.

Essa sviluppa la convinzione che c’è un modo corretto, «sapiente», di fare le cose e di condurre la vita. L’essere umano deve impegnarsi a cercarlo e poi sforzarsi di metterlo in pratica. Questa sapienza non si trova sia nella storia sia nella natura e nella vita di tutti i giorni (22).

In tale letteratura, la Sapienza è spesso presentata come una perfezione divina, talvolta ipostatizzata. Essa si manifesta in modo sorprendente nella creazione, di cui essa è «l’artefice» (Sap 7,21). L’armonia che regna tra le creature le rende testimonianza.

Di tale sapienza che viene da Dio l’uomo è reso partecipe in diversi modi. Questa partecipazione è un dono di Dio, che bisogna chiedere nella preghiera: «Pregai e mi fu elargita la prudenza, implorai e venne a me lo spirito di sapienza» (Sap 7,7). Essa è ancora frutto dell’obbedienza alla Legge rivelata. Infatti la Torah è come l’incarnazione della sapienza. «Se desideri la sapienza, osserva i comandamenti e il Signore te la concederà. Il timore del Signore è sapienza e istruzione» (Sir 1,26-27).

Ma la sapienza è anche il risultato di una sagace osservazione della natura e dei costumi umani al fine di scoprire la loro intelligibilità immanente e il loro valore esemplare (23).

24. Nella pienezza dei tempi, Gesù Cristo ha predicato l’avvento del Regno come manifestazione dell’amore misericordioso di Dio, che si rende presente tra gli uomini attraverso la propria persona e chiede da parte loro una conversione e una libera risposta d’amore. Questa predicazione non è senza conseguenze sull’etica, sul modo di costruire il mondo e le relazioni umane.

Nel suo insegnamento morale, del quale il discorso della montagna è un’ammirevole sintesi, Gesù riprende da parte sua la regola d’oro: «Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa infatti è la Legge e i Profeti» (Mt 7,12) (24). Questo precetto positivo completa la formulazione negativa della stessa regola nell’Antico Testamento: «Non fare a nessuno ciò che non vuoi che sia fatto a te» (Tb 4,15) (25).

25. All’inizio della Lettera ai Romani, l’apostolo Paolo, con l’intento di manifestare la necessità universale della salvezza portata da Cristo, descrive la situazione religiosa e morale comune a tutti gli uomini. Egli afferma la possibilità di una conoscenza naturale di Dio: «Ciò che di Dio si può conoscere è loro manifesto; Dio stesso lo ha manifestato a loro. Infatti le sue perfezioni invisibili, ossia la sua eterna potenza e divinità, vengono contemplate e comprese dalla creazione del mondo attraverso le opere da lui compiute» (Rm 1,19-20) (26).

Ma tale conoscenza si è pervertita in idolatria. Ponendo sullo stesso piano giudei e pagani, san Paolo afferma l’esistenza di una legge morale non scritta, che è inscritta nei loro cuori (27). Essa consente di discernere da se stessi il bene e il male.

«Quando i pagani, che non hanno la Legge, per natura agiscono secondo la Legge, essi, pur non avendo Legge, sono legge a se stessi. Essi dimostrano che quanto la Legge esige è scritto nei loro cuori, come risulta dalla testimonianza della loro coscienza e dai loro stessi ragionamenti, che ora li accusano, ora li difendono» (Rm 2,14-15). La conoscenza della legge però non basta da sé per condurre una vita giusta (28). Questi testi di san Paolo hanno avuto un’influenza determinante sulla riflessione cristiana relativa alla legge naturale.

1.4. Gli sviluppi della tradizione cristiana

26. Per i Padri della Chiesa il sequi naturam e la sequela Christi non si oppongono. Al contrario, essi adottano generalmente l’idea stoica secondo la quale la natura e la ragione ci indicano quali sono i nostri doveri morali. Seguirle è seguire il Logos personale, il Verbo di Dio. Infatti la dottrina della legge naturale fornisce una base per completare la morale biblica.

Essa inoltre consente di spiegare perché i pagani, indipendentemente dalla rivelazione biblica, possiedono una concezione morale positiva. Questa è indicata loro dalla natura e corrisponde all’insegnamento della Rivelazione: «Da Dio sono la legge della natura e la legge della rivelazione, che fanno un tutt’uno» (29).

Tuttavia i Padri della Chiesa non adottano puramente e semplicemente la dottrina stoica, ma la modificano e la sviluppano. Da una parte, l’antropologia di ispirazione biblica che vede l’uomo come l’imago Dei, la cui piena verità è manifestata in Cristo, vieta di ridurre la persona umana a un semplice elemento del cosmo: chiamata alla comunione con il Dio vivente, essa trascende il cosmo pur integrandosi in esso.

D’altra parte, l’armonia della natura e della ragione non si fonda più sulla visione immanentista di un cosmo panteista, ma sul comune riferimento alla sapienza trascendente del Creatore. Comportarsi in modo conforme alla ragione significa seguire gli orientamenti che Cristo, come Logos divino, ha deposto grazie ai logoi spermatikoi nella ragione umana.

Agire contro la ragione è una colpa contro questi orientamenti. È molto significativa la definizione di sant’Agostino: «La legge eterna è la ragione divina o la volontà di Dio, che ordina di conservare l’ordine naturale e proibisce di turbarlo» (30).

Più precisamente, per sant’Agostino le norme della vita retta e della giustizia sono espresse nel Verbo di Dio, che le imprime poi nel cuore dell’uomo «alla maniera di un sigillo che da un anello passa alla cera, ma senza lasciare l’anello» (31).

Inoltre, nei Padri la legge naturale è ormai compresa nell’ambito di una storia della salvezza che conduce a distinguere diversi stati della natura (natura originale, natura decaduta, natura restaurata), nei quali la legge naturale si realizza in modi diversi.

La dottrina patristica della legge naturale è stata trasmessa al Medioevo, insieme alla concezione, molto vicina, del «diritto delle genti (ius gentium)», secondo la quale esistono, fuori del diritto romano (ius civile), princìpi universali di diritto che regolano le relazioni tra i popoli e sono obbligatori per tutti ( 32).

27. Nel Medioevo la dottrina della legge naturale raggiunge una certa maturità e assume una forma «classica», che costituisce il sottofondo di tutte le discussioni ulteriori. Essa si caratterizza per quattro elementi. In primo luogo, in conformità con la natura del pensiero scolastico che cerca di raccogliere la verità dovunque si trovi, assume le riflessioni anteriori sulla legge naturale, pagane o cristiane, e tenta di proporne una sintesi.

In secondo luogo, in conformità con la natura sistematica del pensiero scolastico, colloca la legge naturale in un quadro metafisico e teologico generale. La legge naturale è intesa come partecipazione della creatura razionale alla legge divina eterna, grazie alla quale entra in modo consapevole e libero nei disegni della Provvidenza.

Non è un insieme chiuso e completo di norme morali, ma una fonte di ispirazione costante, presente e operante nelle diverse tappe dell’economia della salvezza. In terzo luogo, con la presa di coscienza della densità propria della natura, che è in parte legata alla riscoperta del pensiero di Aristotele, la dottrina scolastica della legge naturale considera l’ordine etico e politico come un ordine razionale, opera dell’intelligenza umana.

Definisce per essa uno spazio di autonomia, una distinzione senza separazione, in rapporto all’ordine della rivelazione religiosa (33). Infine, agli occhi dei teologi e dei giuristi scolastici, la legge naturale costituisce un punto di riferimento e un criterio alla luce del quale essi valutano la legittimità delle leggi positive e dei costumi particolari.

1.5. Evoluzioni ulteriori

28. La storia moderna dell’idea della legge naturale si presenta per certi aspetti come un legittimo sviluppo dell’insegnamento della scolastica medievale in un contesto culturale più complesso, segnato in particolare da un senso più vivo della soggettività morale. Tra questi sviluppi, segnaliamo l’opera dei teologi spagnoli del XVI secolo che, alla maniera del domenicano Francesco de Vitoria, sono ricorsi alla legge naturale per contestare l’ideologia imperialista di alcuni Stati cristiani d’Europa e per difendere i diritti dei popoli non cristiani d’America.

Infatti tali diritti sono inerenti alla natura umana e non dipendono dalla situazione concreta nei confronti della fede cristiana. L’idea di legge naturale ha inoltre consentito ai teologi spagnoli di porre le basi di un diritto internazionale, cioè di una norma universale che regoli le relazioni dei popoli e degli Stati tra loro.

29. Ma, per altri aspetti, nell’epoca moderna l’idea della legge naturale ha assunto orientamenti e forme che contribuiscono a renderla difficilmente accettabile oggi. Negli ultimi secoli del Medioevo, si è sviluppata nella scolastica una corrente volontarista, la cui egemonia culturale ha modificato profondamente l’idea di legge naturale. Il volontarismo si propone di valorizzare la trascendenza del soggetto libero in rapporto a tutti i condizionamenti.

Contro il naturalismo, che tendeva ad assoggettare Dio alle leggi della natura, sottolinea unilateralmente l’assoluta libertà di Dio, con il rischio di comprometterne la sapienza e di renderne arbitrarie le decisioni. Inoltre, contro l’intellettualismo, sospettato di assoggettare la persona umana all’ordine del mondo, esalta una libertà di indifferenza intesa come puro potere di scegliere i contrari, con il rischio di staccare la persona dalle sue inclinazioni naturali e dal bene oggettivo (34).

30. Le conseguenze del volontarismo sulla dottrina della legge naturale sono numerose. Anzitutto, mentre in Tommaso d’Aquino la legge è intesa come opera di ragione ed espressione di una sapienza, il volontarismo conduce a legare la legge alla sola volontà, e ad una volontà staccata dal suo ordinamento intrinseco al bene.

Allora tutta la forza della legge risiede nella sola volontà del legislatore. La legge è così espropriata della sua intelligibilità intrinseca. In tali condizioni, la morale si riduce all’obbedienza ai comandamenti, che manifestano la volontà del legislatore. Thomas Hobbes dichiarerà quindi: «È l’autorità e non la verità che fa la legge (auctoritas, non veritas, facit legem)» (35).

L’uomo moderno, amante dell’autonomia, non poteva non insorgere contro una tale visione della legge. Poi, con il pretesto di preservare l’assoluta sovranità di Dio sulla natura, il volontarismo priva questa di ogni intelligibilità interna. La tesi della potentia Dei absoluta, secondo la quale Dio potrebbe agire indipendentemente dalla sua sapienza e dalla sua bontà, relativizza tutte le strutture intelligibili esistenti e indebolisce la conoscenza naturale che l’uomo ne può avere. La natura cessa di essere un criterio per conoscere la sapiente volontà di Dio: l’uomo può ricevere tale conoscenza soltanto da una rivelazione.

31. D’altra parte, parecchi fattori hanno condotto alla secolarizzazione della nozione di legge naturale. Tra questi, si può ricordare il crescente divorzio tra la fede e la ragione che caratterizza la fine del Medioevo, o ancora alcuni aspetti della Riforma (36), ma soprattutto la volontà di superare i violenti conflitti religiosi che hanno insanguinato l’Europa all’alba dei tempi moderni.

Si è giunti a voler fondare l’unità politica delle comunità umane mettendo tra parentesi la confessione religiosa. Ormai la dottrina della legge naturale prescinde da ogni rivelazione religiosa particolare, e dunque da ogni teologia confessante. Essa pretende di fondarsi unicamente sui lumi della ragione comune a tutti gli uomini e si presenta come la norma ultima nel campo secolare.

32. Inoltre, il razionalismo moderno pone l’esistenza di un ordine assoluto e normativo delle essenze intelligibili accessibile alla ragione e insieme relativizza il riferimento a Dio come fondamento ultimo della legge naturale.

L’ordine necessario, eterno e immutabile delle essenze dev’essere certamente attualizzato dal Creatore, ma, si crede, possiede già in se stesso la sua coerenza e la sua razionalità. Il riferimento a Dio dev’essere dunque opzionale. La legge naturale si imporrebbe a tutti «anche se Dio non esistesse (etsi Deus non daretur)» (37).

33. Il modello razionalista moderno della legge naturale è caratterizzato: 1) dalla credenza essenzialista in una natura umana immutabile e a-storica, di cui la ragione può cogliere perfettamente la definizione e le proprietà essenziali; 2) dal mettere tra parentesi la situazione concreta delle persone umane nella storia della salvezza, segnata dal peccato e dalla grazia, la cui influenza sulla conoscenza e sulla pratica della legge naturale è però decisiva; 3) dall’idea che è possibile per la ragione dedurre a priori i precetti della legge naturale a partire dalla definizione dell’essenza dell’essere umano; 4) dalla massima estensione data ai princìpi così dedotti, tanto che la legge naturale appare come un codice di leggi già fatte che regola la quasi-totalità dei comportamenti.

Questa tendenza a estendere il campo delle determinazioni della legge naturale è stata all’origine di una grave crisi quando, in particolare con il progresso delle scienze umane, il pensiero occidentale ha preso maggiormente coscienza della storicità delle istituzioni umane e della relatività culturale di numerosi comportamenti che a volte si giustificavano richiamandosi all’evidenza della legge naturale.

Questo scarto tra una teoria massimalista e la complessità dei dati empirici spiega in parte la disaffezione per l’idea stessa di legge naturale. Perché la nozione di legge naturale possa servire all’elaborazione di un’etica universale in una società secolarizzata e pluralista come la nostra, bisogna dunque evitare di presentarla nella forma rigida che ha assunto, in particolare nel razionalismo moderno.

1.6. Il magistero della Chiesa e la legge naturale

34. Prima del XIII secolo, poiché la distinzione tra l’ordine naturale e quello soprannaturale non era chiaramente elaborata, la legge naturale era generalmente assimilata alla morale cristiana. Così il decreto di Graziano, che fornisce la norma canonica di base nel XII secolo, inizia affermando: «La legge naturale è ciò che è contenuto nella Legge e nel Vangelo». Identifica poi il contenuto della legge naturale con la regola d’oro e precisa che le leggi divine corrispondono alla natura (38).

I Padri della Chiesa sono dunque ricorsi alla legge naturale e alla Sacra Scrittura per fondare il comportamento morale dei cristiani, ma il magistero della Chiesa, nei primi tempi, ebbe poco da intervenire per troncare le dispute sul contenuto della legge morale.

Quando il magistero della Chiesa fu condotto non solo a risolvere discussioni morali particolari, ma anche a giustificare la propria posizione di fronte a un mondo secolarizzato, si richiamò più esplicitamente alla nozione di legge naturale. Nel XIX secolo, specialmente sotto il pontificato di Leone XIII, il ricorso alla legge naturale si impone negli atti del magistero. La presentazione più esplicita si trova nell’enciclica Libertas praestantissimum (1888).

Leone XIII si riferisce alla legge naturale per identificare la fonte dell’autorità civile e fissarne i limiti. Ricorda con forza che bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini quando le autorità civili comandano e riconoscono qualche cosa che è contrario alla legge divina o alla legge naturale. Ma ricorre pure alla legge naturale per proteggere la proprietà privata contro il socialismo o ancora per difendere il diritto dei lavoratori a procurarsi con il lavoro ciò che è necessario per il sostentamento della loro vita. In questa stessa linea, Giovanni XXIII si riferisce alla legge naturale per fondare i diritti e i doveri dell’uomo (enciclica Pacem in terris [1963]). Con Pio XI (enciclica Casti connubii [1930]) e Paolo VI (enciclica Humanae vitae [1968]), la legge naturale si rivela un criterio decisivo nelle questioni relative alla morale coniugale.

Certamente, la legge naturale è di diritto accessibile alla ragione umana, comune ai credenti e ai non credenti, e la Chiesa non ne ha l’esclusiva, ma, poiché la Rivelazione assume le esigenze della legge naturale, il magistero della Chiesa ne è costituito il garante e l’interprete (39).

Il Catechismo della Chiesa Cattolica (1992) e l’enciclica Veritatis splendor (1993) assegnano un posto determinante alla legge naturale nell’esposizione della morale cristiana (40).

35. Oggi la Chiesa cattolica invoca la legge naturale in quattro contesti principali. In primo luogo, dinanzi al dilagare di una cultura che limita la razionalità alle scienze positive e abbandona al relativismo la vita morale, insiste sulla capacità naturale che hanno gli uomini di cogliere con la ragione «il messaggio etico contenuto nell’essere» (41) e di conoscere nelle loro grandi linee le norme fondamentali di un agire giusto conforme alla loro natura e alla loro dignità.

La legge naturale risponde così all’esigenza di fondare sulla ragione i diritti dell’uomo (42) e rende possibile un dialogo interculturale e interreligioso in grado di favorire la pace universale e di evitare lo «scontro delle civiltà». In secondo luogo, dinanzi all’individualismo relativista, il quale ritiene che ogni individuo sia la fonte dei propri valori e che la società risulti da un puro contratto  stipulato tra individui che scelgono di fissarne essi stessi tutte le norme, ricorda il carattere non convenzionale ma naturale e oggettivo delle norme fondamentali che regolano la vita sociale e politica.

In particolare, la forma democratica di governo è intrinsecamente legata a valori etici stabili, che hanno la fonte nelle esigenze della legge naturale e quindi non dipendono dalle fluttuazioni del consenso di una maggioranza aritmetica. In terzo luogo, dinanzi a un laicismo aggressivo che vuole escludere i credenti dal pubblico dibattito, la Chiesa fa notare che gli interventi dei cristiani nella vita pubblica, su argomenti che riguardano la legge naturale (difesa dei diritti degli oppressi, giustizia nelle relazioni internazionali, difesa della vita e della famiglia, libertà religiosa e libertà di educazione…), non sono di per sé di natura confessionale, ma derivano dalla cura che ogni cittadino deve avere per il bene comune della società.

In quarto luogo, dinanzi alle minacce di abuso del potere, e anche di totalitarismo, che il positivismo giuridico nasconde e che certe ideologie trasmettono, la Chiesa ricorda che le leggi civili non obbligano in coscienza quando sono in contraddizione con la legge naturale, e chiede il riconoscimento dell’obiezione di coscienza, come pure il dovere della disobbedienza in nome dell’obbedienza a una legge più alta (43).

Il riferimento alla legge naturale non solo non produce il conformismo, ma garantisce la libertà personale e difende gli emarginati e gli oppressi da strutture sociali dimentiche del bene comune.

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