Il passato come meta

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prof. Marco Tangheroni

L’Osservatore Romano

mercoledì 20 gennaio 2010

Marco Tangheroni, Nicolás Gómez Dávila e il mondo della storia

di Roberto Pertici

A saperlo leggere, il libro postumo di Marco Tangheroni Della storia. In margine ad aforismi di Nicolás Gómez Dávila (a cura di Cecilia Iannella, Milano, Sugarco, 2008, pagine 142, euro 15) appare come una sorta di autobiografia intellettuale, in cui lo storico pisano ripercorre la propria ricerca, in un modo non banalmente cronologico, ma sistematico.

Vi discute cioè una serie di questioni decisive del proprio lavoro e le approfondisce alla luce delle letture fatte e delle esperienze accumulate negli anni: fin da quando si imbatté nel suo primo maestro, Cinzio Violante, che, con le sue lezioni su Le città italiane nell’alto Medioevo nell’anno accademico 1964-1965, fece di lui, «matricola universitaria, un aspirante storico del Medioevo».

Sulla cattedra allora occupata da Violante si erano succeduti nel mezzo secolo precedente studiosi come Giovan Battista Ricotti e Ottorino Bertolini: alle spalle di entrambi stava Giuseppe Toniolo, non medievista di professione, ma che della società medievale era stato studioso tenace e partecipe. In vario modo, tutti costoro erano stati o erano storici «cattolici»: nella tradizione medievistica pisana, questo nesso è stato per decenni una costante, che si è ripresentata nell’opera di Tangheroni.

Quando in un pamphlet del 1978 su La storiografia italiana, Ruggiero Romano sostenne che non potevano esistere storici «cattolici», fece un’eccezione per Violante, considerato uno studioso di storia che «per caso» era anche cattolico: «Posso testimoniare — ricorderà Tangheroni — che nei venticinque anni in cui l’ho frequentato non ho mai visto Violante tanto infuriato».

Il maestro gli mise fra le mani un testo di carattere generale sull’epistemologia della storia, La conoscenza storica di Henri-Iréné Marrou, da poco tradotto in italiano dal Mulino: con esso il giovane studioso iniziò un confronto che doveva durare fino a questo libro.

Tangheroni non si sarebbe laureato a Pisa, ma a Cagliari, dove il padre era stato chiamato alla cattedra di pediatria. Era il 1968: il giovane iniziava allora un percorso controcorrente che avrebbe definito in modo originale la sua personalità.

Mentre la maggior parte dei suoi coetanei, spesso in forme clamorose e drammatiche, abbandonava l’orizzonte religioso o lo secolarizzava in un impegno politico totalizzante, egli visse una tragica esperienza che doveva riportarlo alla fede: «La mia conversione — avrebbe scritto nel 2002 — è lontana nel tempo. Avevo ventitré anni e ora ne ho cinquantasei. Avevo praticamente tutto dalla vita. Sposato da pochi mesi con la mia ragazza di sempre, un posto di assistente universitario appena laureato, un grande futuro apparentemente davanti a me. Invece, in una settimana — la settimana di Natale [1968] — per un’influenza che fece riesplodere una malattia renale che mi aveva tenuto a letto da bambino, passai dalla salute al coma, da un brillante sorridente futuro alla prospettiva di vivere soltanto grazie alla continua purificazione del sangue da parte di una macchina, tre volte alla settimana (grazie alla dialisi, ma allora la parola era quasi sconosciuta e il trattamento praticamente agli inizi). Venivo da una famiglia moderatamente cattolica e praticante, avevo una modesta cultura cattolica verso la quale non provavo avversione, avevo avuto un tranquillo allontanamento dalla pratica religiosa. Ora, dovevo decidermi: alle domande sulla vita e sulla morte che un giovane tende a rinviare dovetti rispondere subito. Credetti, mi convertii. Ho fede, una fede razionale e razionalmente tranquilla. Le cose che dico nel Credo non mi pongono problemi, sono facili da credere».

Sulla base di questa esperienza, cominciò a interrogarsi anche sulla «contestazione» e le sue cause e si accorse che il discorso, allora frequentemente ripetuto, della «crisi dei valori» non aveva senso fuori d’un contesto religioso: anche Tangheroni appartiene dunque all’«altro Sessantotto», a quella galassia culturale che cercò di analizzare il mutamento epocale che si stava verificando e di proporgli un’alternativa culturale e politica.

In questa prospettiva ebbe per lui grande valore l’incontro con Giovanni Cantoni, «reggente» della neonata Alleanza cattolica, a cui questo libro è dedicato «con affetto e gratitudine», e col benedettino Tito Sante Centi, allora uno dei massimi conoscitori della filosofia di san Tommaso: ne ricavò la critica del concetto di rivoluzione e un primo, decisivo incontro col tomismo.

Cantoni gli suggerì di affrontare l’opera di Gustave Thibon, le philosophe-paysan del Midi francese, che lo accostò a una filosofia che potremmo chiamare del «senso comune», contrapposta alla valorizzazione dell’utopia o a un esasperato e intellettualistico soggettivismo: «Gustave Thibon — ricorda in questo libro — è stato tra gli autori che molto hanno influito sulla mia formazione; l’ho potuto conoscere anche personalmente» (p. 110).

Nel 1972 fu proprio il gruppo che gravitava attorno a Tangheroni che promosse la traduzione italiana di Retour au réel, a cui Thibon premise la dedica: «Ai giovani amici pisani che hanno voluto l’edizione italiana di questo libro, all’editore Giovanni Volpe che lo ha pubblicato, con viva amicizia e gratitudine».

Un altro pensatore che influì potentemente sul suo pensiero fu il tedesco Josef Pieper («la cultura diffusa ne parla poco, ma per me Pieper è uno dei pensatori più rilevanti del XX secolo»), di nuovo un originale seguace di san Tommaso, che lo spingeva alla «realtà delle cose»: «Avevo trovato in lui (…) la convincente dimostrazione sia della conoscibilità degli enti sia della loro esistenza al di fuori del soggetto conoscente, nonché una pure convincente negazione del pragmatismo» (p. 106).

Queste varie letture lo spingevano a prendere una precisa posizione di fronte a «un problema che è al centro dell’intera storia della filosofia e in modo particolare della filosofia del Novecento», a compiere, cioè, «una scelta realistica».

Come esiste una realtà distinta dall’atto di pensarla, così anche il passato esiste «come realtà distinta dal nostro pensarlo». Si tratta di una radicale negazione dell’approccio idealistico alla storia, che porta invece all’identificazione fra res gestae e historia rerum gestarum: la storia esiste solo in quanto e nella misura in cui è conosciuta dallo storico, che quindi esaurisce nella sua ricostruzione tutto il passato, o meglio tutto il passato che realmente conta.

Questa opzione anti-idealistica si concreta in una duplice direzione. Innanzitutto in una polemica contro l’inevitabilità storica, che si rifà esplicitamente alla lezione anti-hegeliana di Kierkegaard (pp. 73-78): nulla di ciò che accade è necessario, anche se una volta che è avvenuto possiamo individuare la logica storica per cui è avvenuto, riconoscere che cioè non è accaduto a caso. Così tutto ciò che accade ha una causa, però ogni causa ha una pluralità virtuale di effetti.

Anche il filosofo danese è stato un’antica lettura di Tangheroni, che fin dal 1976 aveva posto al centro della propria riflessione la sua concezione della storia (Libertà nella storia e libertà dello storico. Note in margine ad alcune pagine di Soeren Kierkegaard).

Mentre nella polemica contro un’altra classica posizione hegeliana e posthegeliana, la fede in una filosofia della storia, egli ricorre a letture più recenti, a Popper e alla scuola marginalistica austriaca, da Menger ad Hayek: le filosofie della storia «costruiscono grandi quadri generali che urtano contro il reale, contro la sua complessità, e sono smentite dai fatti. Così si trovano in opposizione alla storia, della quale, insieme, non riconoscono i limiti e rifiutano i risultati concreti e fedeli alle testimonianze. (…) Le filosofie della storia pretendono di piegarla al tempo stesso assolutizzandola e disprezzandola per quello che è».

Insomma anche Tangheroni distingue lo storicismo degli storici da quello dei filosofi: questo è il veleno, quello l’antidoto. La scelta è tra Ranke e Hegel, tra lo storicismo «aperto» del primo e quello che prefigura un ritmo necessario della storia proprio del filosofo di Stoccarda (pp. 93-97).

Lo studioso pisano collega senz’altro Benedetto Croce alla tradizione hegeliana. Questo volume offre pagine piuttosto interessanti sull’atteggiamento che Tangheroni e la sua generazione (a destra come a sinistra, si potrebbe aggiungere) hanno tenuto rispetto a Croce: «Alla mia generazione [egli] è rimasto, mi pare, completamente estraneo, per l’estraneità del suo sistema filosofico e, direi, del suo stesso linguaggio. (…) Mi rendo ora conto che il nostro rifiuto fu forse troppo eccessivo, che la rimozione di Croce fu forse troppo totale e rapida, che più di una pagina ci sarebbe stata utile e ci avrebbe evitato cammini più lunghi e complessi […]: ma il suo “storicismo assoluto” resta irrimediabilmente lontano» (pp. 117-118).

In effetti nelle sue pagine Tangheroni avrebbe ritrovato facilmente, magari diversamente motivate, non poche delle proprie osservazioni e riflessioni. Ma il dissenso resta radicale e verte sull’orizzonte immanentistico dello storicismo crociano e sul diverso atteggiamento verso il passato che ne deriva.

Alla «contemporaneità della storia» intesa come l’esigenza di «legare problemi esistenziali e professione di storico» (lo storico, cioè, è mosso alla ricerca storica dall’esigenza di dare una risposta ad alcuni problemi interiori che vuol chiarire e risolvere), Tangheroni guarda sospettoso, senza tuttavia respingerla completamente. Ma se con essa si intende una completa «soggettivizzazione» del passato, per cui se ne discerne continuamente «ciò che è vivo e ciò che è morto», avendo come punto di riferimento esclusivo i bisogni della vita presente, egli la rifiuta: lo storico non può trasformare quello che studia in mero prologo del proprio tempo o in preistoria delle proprie aspirazioni.

Ancora una volta Nicolás Gómez Dávila, il pensatore colombiano i cui aforismi sulla storia guidano Tangheroni in queste considerazioni, gli offre la riflessione appropriata: «Lo storico non si installa nel passato con l’intento di intendere meglio il presente. Quello che siamo stati non ci interessa per ricercare ciò che siamo. Quello che siamo interessa per ricercare ciò che siamo stati. Il passato non è la meta apparente dello storico, bensì quella reale» (p. 113).

Il passato deve essere quindi studiato per quello che è stato, non per ciò che può trasmetterci. Questo senso della distanza, della diversità non è impedimento alla sua comprensione, ma anzi ne è la condizione: riecheggiando Gadamer, Tangheroni si dice convinto che solo quando il passato è «abbastanza morto da poter essere oggetto di un interesse soltanto storico», quando è conchiuso, può essere oggetto di vera comprensione (p. 121).

La storia dunque non serve a una pseudo-comprensione del presente, tanto meno offre la possibilità di prevedere il futuro («Evitiamo le profezie se non vogliamo avere cattivi rapporti con la storia», avverte ancora Gómez Dávila): ma allora qual è la sua utilità?

Tangheroni è sicuro che essa non dia risposte alle domande fondamentali dell’uomo, ma che a tali risposte ci prepari. Innanzitutto ci pone di fronte all’estrema complessità del reale, rispetto alla quale l’uomo saggio avverte il senso del proprio limite: insomma la storia ci aiuta a comprendere che l’uomo non è Dio. Ma ci spinge anche a fare nel nostro tempo quel che si deve: proprio perché quanto accade non è frutto di un’inesorabile necessità, ma scaturisce dall’incontro di quei molteplici fili che sono le libere volontà degli uomini, la storia ci educa alla responsabilità: a non chiederci dove va il mondo, ma dove dobbiamo andare noi.

Si tratta spesso di una scelta drammatica, perché tragico, non idilliaco, è il contesto in cui dobbiamo agire: lo possiamo affrontare, appunto, con la consapevolezza della tragicità del presente e a questa dimensione lo studio della storia (non edulcorato dal moralismo edificante) contribuisce a darcela.

Ci viene continuamente ricordata la necessità e l’importanza dell’incontro con l’altro da noi, ma solo in un senso sincronico: qui e oggi. Lo studio della storia ci abitua a tale incontro, ma nel tempo: con civiltà e culture lontane nel passato, senza appiattimenti sul nostro secolo. La ricerca storica è perciò «mediazione di tradizione» (p. 110). Tangheroni rivendica da questo punto di vista l’eredità della cultura romantica: «C’è del vero — aggiunge — nel pur estremo aforisma di Gómez Dávila: “Di solito ci si dimentica che il contrario di romantico non è classico bensì imbecille”» (p. 97).

Ma tale incontro col passato — lo storico pisano torna continuamente su questo punto — non deve produrre alcuna illusione di assoluta padronanza: «La verità che lo storico raggiunge è una verità relativa, che non può tendere, che non deve tendere (…) alla verità definitiva.

Essa resta al di fuori della sua portata, non per condizionamenti eliminabili, almeno teoricamente, ma per la sua condizione di uomo, in questa vita». Tangheroni chiude il suo discorso con un presentimento: « In ogni caso — e vale per i giovani come per i vecchi, per i sani come per i malati — non manca molto tempo» (p. 111).

L’11 febbraio 2004, giorno della Madonna di Lourdes, Marco Tangheroni è comparso di fronte al Dio in cui ha avuto fede: in quell’attimo, di fronte ai suoi occhi, si è infine dileguato il mistero della storia.