Milano, quell’incontro impossibile tra Al Jazeera e Mc Donald’s

scuola_immigrati ilsussidiario.net martedì 12 gennaio 2010

«Sì, se ne parla sempre, ho però l’impressione che si ripetano formule un po’ vuote». La parola magica è sempre quella, “integrazione”. Questa volta, in modo insolito, i dibattiti arrivano al momento giusto. Giovanni Sartori e Tito Boeri si scontrano sul Corriere, venerdì vi ritorna con un editoriale Angelo Panebianco. Intanto scoppiano violenti disordini a Rosarno, in Calabria, tra immigrati e popolazione locale.

Ma Paolo Camiciotti, milanese, 28 anni, studi alla Cattolica, con gli immigrati fa i conti tutti i giorni. È il suo lavoro. Lo incontriamo sabato mattina. Oggi non dovrebbe andare al “Centro”, ma ha comunque dato appuntamento ad alcuni dei suoi ragazzi per riaccompagnarli a casa.«Lavoro come educatore in un centro diurno per minori – racconta Paolo al sussidiario.net -. Accogliamo ragazzi dai sei ai diciott’anni con disagio sociale. Molti di loro o perché non hanno i genitori, o perché questi lavorano, se non venissero da noi sarebbero in mezzo a una strada. A mandarli sono i servizi sociali del comune di Milano, le scuole, il Tribunale dei minori».

Nelle scuole l’arrivo massiccio di extracomunitari ha posto problemi nuovi. Che prima vanno avanti in modo latente, ma poi esplodono. «Io lavoro con ragazzi delle medie, che dovrebbero essere dagli 11 ai 14 anni, in realtà l’immigrazione ha cambiato tutto. Se arriva dal Marocco un ragazzino di 15 anni e non sa una parola di italiano, non si può inserire nella nostra superiore al posto che gli spetterebbe per età anagrafica, perché non sa una parola, e uno come lui viene messo o in quinta elementare o in prima media. Con la situazione paradossale di una prima media in cui ci sono il ragazzino di 11 e quello di 18 anni».

Ma questo è solo uno dei problemi.

«La realtà è che il nostro sistema scolastico – va avanti Camiciotti – non è pronto a reggere l’urto dell’immigrazione. A Milano il quartiere di San Siro è ormai un ghetto, ci sono intere scuole dove la presenza di italiani è ridotta al 10 per cento». Proprio l’altro ieri il ministro Gelmini ha proposto di mettere un tetto del 30 per cento alla presenza di stranieri nelle classi.

«Secondo me è una buona idea. Ma dev’esserci una prevalenza di ragazzi che parlano l’italiano come prima lingua. Se mi metto nei panni di una famiglia italiana che ha un bambino in una classe dove il 70 per cento è di extracomunitari, cosa faccio? Lo sposto da un’altra parte, è chiaro. Risultato? Il ghetto. Per questi ragazzi la scuola è solo un parcheggio, ha una funzione contenitiva ma non li forma. E alimenta una sindrome del sospetto reciproco».

Paolo segue una ventina di ragazzi delle medie. Lo raggiungono al Centro, in zona San Siro, dopo la scuola. La struttura dà loro il pranzo, perché molti di loro non hanno genitori o ne hanno solo uno e quasi sempre è la madre, perché il padre è rimasto nel paese d’origine. Prevalgono egiziani e marocchini, generalmente sono quasi tutti nordafricani.

«Cominciamo con i compiti – racconta Camiciotti -. I libri semplificati per stranieri sono ormai indispensabili. Poi facciamo altro, impegniamo tutto il loro tempo: calcetto, teatro. Insomma attività strutturate».

Ma chi non ha a che fare con persone del genere non può capire. L’educatore deve spiegare loro tutto: che quando si vuole una cosa si deve chiederla, che la violenza non è l’unica strada, che non si gira per Milano armati di coltello. Persone, insomma, con le quali ripartire da zero, o quasi. E non è raro che da parte loro le prime aperture siano equivoche.

«Bisogna stare attenti, il concetto di amicizia è rischioso. Deve essere chiaro che il nostro è un rapporto lavorativo. All’inizio i ragazzi ti chiedono di “colludere” con loro. Io non mi definisco mai loro amico, ma un adulto che si cura di loro, che ha a cuore la loro vita. Nella massima distinzione dei ruoli».

E il loro approccio? «Devono capire che li abbiamo tirati fuori da un circuito penale, o da rapporti potenzialmente criminali. Quando arrivano da noi mostrano grande diffidenza. Non rispettano l’autorità. La nostra intendo, perché l’autorità del padre l’hanno molto chiara. Ma hanno forti difficoltà a relazionarsi con un ordine diverso da quello familiare. Per questo comandare serve a poco, vanno presi per mano e persuasi di quello che è bene per loro. Devono capire che possiamo fare un pezzo di strada insieme, e che anche se sono ai margini noi vogliamo loro bene per quello che sono, extracomunitari, poveri, spesso con precedenti penali. Devono capire che ricominciare è sempre possibile».

Stando al Centro i ragazzi prendono confidenza, lentamente nasce una stima. Dopo un po’ Camiciotti si è ritrovato ospite dei ragazzi che segue quotidianamente. «Ma quando vai a casa loro – prosegue Camiciotti – rimani stupito, perché non ti sembra più di essere in Italia. Buona parte vive in un contesto di case occupate o di abusivismo; ebbene, mi ha colpito come tutti, e dico tutti, abbiano la parabola satellitare e la tv sia sintonizzata sempre e solo su Al Jazeera. Così tutta la casa sente l’arabo. Poi c’è una differenza abissale tra le famiglie, mettiamo il caso, sudamericane e quelle islamiche. Sono stato a mangiare in molte famiglie, eravamo solo uomini perché le donne non erano ammesse. O mangiavano dopo di noi, per servirci, oppure in un’altra stanza. Le donne stanno in casa, hanno una vita sociale limitata al minimo».

Uno scenario che mette a dura prova i dibattiti, le inchieste, il perbenismo di tante opinioni politicamente corrette. Per le quali parlare di integrazione è ormai segno di distinzione sociale, quando invece per chi la vive e vi lavora è una fatica immane.

«Il problema è la lingua, perché la lingua è davvero l’ingresso in un nuovo mondo. Bisogna però vedere come e quando questo avviene. La famiglia di prima immigrazione è quasi sempre impermeabile, non interagisce».

Molta confusione nasce dal fatto che vediamo noi stessi al posto loro, come se fossimo a Berlino o New York. E pensiamo che i figli degli immigrati, per il fatto di essere in Italia, entrino spontaneamente in rapporto con noi. Ma non è così.

«È come se vivessero contemporaneamente in due mondi – spiega Paolo – il mondo di casa in cui si parla l’arabo, in cui c’è uno spaccato di vita che potrebbe essere pari pari quella del Cairo, di Algeri o Rabat, e poi l’impatto con il mondo esterno, quello che per i ragazzi è l’incontro con i loro coetanei, che vanno al cinema, che fumano, che mangiano da McDonald’s. Da un lato la rigidità di provenienza delle loro tradizioni, dall’altro la “decadenza” della civiltà occidentale. Ne sono affascinati ma al tempo stesso ne hanno paura, perché va contro le loro tradizioni».

Ma allora sorge la domanda: che cosa bisogna fare? «Come educatori partiamo dalla nostra esperienza personale. Essa ci dice che il cuore è uguale a tutte le latitudini. E prima o poi, domanda. Chiede, si interroga. Ecco, la scuola deve insinuarsi in questa domanda, raccoglierla, educarla. I ragazzini che nascono qua o che arrivano piccoli, nell’arco di due anni parlano l’italiano come lo parliamo noi. La distanza tra il nostro ed il loro mondo culturale è grande, ma proprio per questo la scuola ha un compito ancor più fondamentale. Deve educare per davvero, renderli capaci di incontrare qualcosa di diverso da loro, aiutarli a superare la diffidenza e l’ostilità».

Una fatica, dice Paolo, che val la pena di compiere. «Per noi il rapporto con le famiglie rimane essenziale, perché un approccio completo alla loro vita di persone non può lasciar fuori la famiglia. Chiamo le madri, le invito al Centro a bere un caffè, vado con loro a scuola a parlare coi prof. Con molta calma e pazienza il circolo chiuso si può rompere, e può nascere un rapporto di fiducia. Così è per i ragazzi. Sentono se una persona vuole loro bene. Allora decidono di fidarsi e di venirti dietro. E questo va a conferma del fatto che il loro cuore, nonostante le età diverse e quello che siamo e abbiamo fatto, è uguale al mio».

Ora c’è una squadretta di calcio. Paolo ha messo in piedi una squadra veramente internazionale, su undici otto sono di nazionalità tutte diverse, ma si rispettano e si intendono. E non giocano nemmeno così male. È la prova allora che un’integrazione è possibile, proponiamo convinti.

Camiciotti però frena subito. «Ho i miei dubbi – dice -. Questo accade quando due persone anche molto diverse, ma consapevoli della propria storia e dei propri valori, si confrontano. Ma questa certezza della nostra identità noi occidentali l’abbiamo un po’ persa. Nelle scuole ho visto di tutto: presepi con le moschee e statue di Cristo con la kefiah per non turbare la sensibilità dei musulmani. Ma il dialogo non è questo. L’ho imparato dai genitori dei miei ragazzi. Hanno molta più facilità a relazionarsi con un’identità forte, che possa essere individuata e riconosciuta con chiarezza. Chiedono una posizione umana vera, anche se diversa dalla loro, ma non arrendevole. Il resto non importa».