Noi e la politica: il contributo di una esperienza

 

comunione_liberazioneL’intervento di Mons. LUIGI GIUSSANI, fondatore di Comunione e Liberazione, alla Assemblea della D.C. Lombarda,

6-7 febbraio 1987.

a cura di Movimento Popolare

La politica in quanto forma più compiuta di cultura, non può che trattenere come preoccupazione fondamentale l’uomo. Nel discorso all’Unesco il Papa ricordava: «La cultura si situa sempre in relazione essenziale e necessaria a ciò che è l’uomo».

Ora, la cosa più interessante è che l’uomo è uno nella realtà del suo io. E ancora in quel discorso il Papa dice: «Occorre sempre, nella cultura, considerare l’uomo Integrale, l’uomo tutto Intero, in tutta la verità della sua soggettività spirituale e corporale. Occorre non sovrapporre alla cultura — sistema autenticamente umano, sintesi splendida dello spirito e del corpo — delle divisioni e delle opposizioni preconcette».

Ora, che cosa determina, cosa dà la forma a questa unità dell’uomo, dell’Io? È quell’elemento dinamico che attraverso le domande, le esigenze fondamentali in cui si esprime, guida l’espressione personale e sociale dell’uomo. Brevemente, io chiamo senso religioso questo elemento dinamico che attraverso le domande fondamentali guida l’espressione personale e sociale dell’uomo; la forma della unità dell’uomo è II senso religioso.

Ho detto che questo fattore fondamentale si esprime nell’uomo attraverso domande, istanze, sollecitazioni personali e sociali. Ricordo il XVII capitolo degli Atti degli Apostoli quando S. Paolo spiega II grande ed inarrestabile movimento dei popoli come la ricerca di Dio. Il senso religioso appare, così, la radice da cui scaturiscono I valori: un valore, ultimamente, mi pare consista nella prospettiva del rapporto tra un contingente e la totalità, l’assoluto. La responsabilità dell’uomo, attraverso tutti i tipi di sollecitazioni che gli provengono dall’impatto con il reale, si impegna nella risposta alle domande che il senso religioso, o biblicamente «cuore», esprime.

Seconda reazione. Nel gioco di questa responsabilità di fronte ai valori l’uomo ha a che fare con il potere. Intendo per potere quello che, nel suo libro così tematizzato. Romano Guardini definiva come delineazione dello scopo comune e organizzazione delle cose per il suo raggiungimento.

Ora, o il potere è determinato dalla volontà di servire la creatura di Dio nel suo dinamico evolversi, servire cioè l’uomo, la cultura e la prassi che ne deriva, oppure il potere tenderebbe a ridurre la realtà umana al proprio scopo e così uno Stato sorgente di tutti i diritti ri­conduce l’uomo a «pezzo di materia o cittadino anonimo della città terrena» così come ne parla la Gaudium et Spes.

In questa terza reazione voglio insistere sulla possibilità nefasta cui ho accennato da ultimo. Se il potere mira solo al suo scopo, esso deve cercare di governare i desideri dell’uomo. Il desiderio, infatti, è l’emblema della libertà perché apre sull’orizzonte della categoria della possibilità; mentre il problema del potere, inteso come ho accennato, è quello di assicurarsi il massimo di consenso da una massa sempre più determinata nelle sue esigenze. Così i desideri dell’uomo, e quindi i valori, sono essenzialmente ridotti.

Una riduzione dei desideri dell’uomo, delle esigenze dell’uomo, e quindi dei valori, viene perseguita sistematicamente. Così i mass-media e la scolarizzazione diventano strumenti per l’induzione accanita di determinati desideri e per l’obliterazione o l’estromissione di altri.

Nell’enciclica «Dives in Misericordia» il Papa nota: «Questa è la tragedia del nostro tempo: la perdita della libertà di coscienza da parte di interi popoli ottenuta con l’uso cinico dei mezzi di comunicazione sociale da parte di chi detiene il potere».

Quarta reazione: quale conseguenza ne avviene? Il panorama della vita sociale diventa sempre più uniforme, grigio (pensiamo alla grande «omologazione» di cui parlava Pasolini), così che viene da descrivere la situazione con la formula (che gioco qualche volta con i giovani): bisogna stare attenti che il P (potere) non sia in proporzione diretta con una I (impotenza), perché allora il potere diventerebbe prepotenza di fronte ad un’impotenza perseguita, appunto, con quella che ho chiamato riduzione sistematica dei desideri, delle esigenze e dei valori.

Mi permetto di citare un brano dell’intervista che L’altra Europa ha chiesto al grande scrittore Vaclav Bélohradsky, che è stato uno dei primi firmatari di «Charta 77» e adesso insegna a Genova, di lui la Jaca Book ha pubblicato un libro bellissimo che mi permetto di segnalarvi: La vita come problema politico.

Dice: «Tradizione europea significa non poter mai vivere al di là della coscienza riducendola ad un apparato anonimo come la legge o lo Stato. Questa fermezza della coscienza è una eredità della tradizione greca, cristiana e borghese. L’irriducibilità della coscienza alle istituzioni è minacciata nell’epoca dei mezzi di comunicazione di massa, dagli stati totalitari e della generale computerizzazione della società. Infatti è molto facile per noi riuscire a immaginare istituzioni organizzate così perfettamente da imporre come legittima ogni loro azione. Basta disporre di una efficiente organizzazione per legittimare qualunque cosa. Così potremmo sintetizzare l’essenza di ciò che ci minaccia: gli Stati si programmano i cittadini, le industrie i consumatori, le case editrici i lettori, ecc.. Tutta la società un po’ alla volta diviene qualcosa che lo Stato si produce».

Nell’appiattimento del desiderio ha origine lo smarrimento dei giovani e il cinismo degli adulti; e nella astenia generale l’alternativa qual è? Un volontarismo senza respiro e senza orizzonte, senza genialità e senza spazio e un moralismo d’appoggio allo Stato come ultima fonte di consistenza per il flusso umano.

Un’altra reazione. Una cultura della responsabilità deve mantenere vivo quel desiderio originale dell’uomo da cui scaturiscono desideri e valori; una cultura della responsabilità non può non partire dal senso religioso.

Tale partenza porta gli uomini a mettersi insieme. È impossibile che la partenza dal senso religioso non spinga gli uomini a mettersi insieme. E non nella provvisorietà di un tornaconto, ma sostanzialmente; a mettersi insieme nella società secondo una interezza e una libertà sorprendenti (la Chiesa ne è il caso più esemplare), così che l’insorgere di movimenti è segno di vivezza, di responsabilità e di cultura, che rende dinamico tutto l’assetto sociale.

Occorre osservare che tali movimenti sono incapaci di rimanere nell’astratto. Nonostante l’inerzia o la mancanza di intelligenza di chi li rappresenta o di chi vi partecipa, i movimenti non riescono a rimanere nell’astratto, ma tendono a mostrare la loro verità attraverso l’affronto dei bisogni in cui si incarnano i desideri, immaginando e creando strutture operative capillari e tempestive che chiamiamo «opere», («forme di vita nuova per l’uomo», le chiamò Giovanni Paolo Il al Meeting di Rimini cinque anni fa rilanciando la dottrina sociale della Chiesa). Le opere costituiscono vero apporto a una novità del tessuto e del volto sociale.

Mi permetto anche osservare che le caratteristiche di opere generate da una responsabilità autentica devono essere realismo e prudenza. Il realismo è connesso con l’importanza del fatto che il fondamento della verità è l’adeguazione dell’intelletto alla realtà; mentre la prudenza che nella Summa di S. Tommaso è definita come un retto criterio nelle cose che si fanno, si misura sulla verità della cosa prima che sulla moralità, sull’aspetto etico di bontà. L’opera, proprio per questa necessità di realismo e prudenza, diventa segno di immaginazione, di sacrificio e di apertura.

È quindi nell’impegno con questo primato di libera e creativa socialità di fronte al potere, che si dimostra la forza e la durata della responsabilità personale. È nel primato della società di fronte allo Stato che si salva la cultura della responsabilità. Primato della società, allora: come tessuto creato da rapporti dinamici tra movimenti, che creando opere ed aggregazioni costituiscono comunità intermedie e quindi esprimono la libertà delle persone potenziata dalla forma as­sociativa.

Vorrei trarre ora qualche conclusione.

Un partito che soffocasse, che non favorisse o non difendesse questa ricca creatività sociale contribuirebbe a creare o a mantenere uno Stato prepotente sulla società. Tale stato si ridurrebbe ad essere funzionale solo ai programmi di chi fosse al potere e la responsabilità sarebbe evocata semplicemente per suscitare consenso a cose già programmate e perfino la moralità sarebbe concepita e conclamata in funzione dello status quo, che chiamano anche «pace».

Pasolini mi pare dicesse amaramente che uno stato di potere, così come tante volte ne abbiamo oggi, è immodificabile; lascia, al massimo, spazio all’utopia perché non dura, o alla nostalgia individuale perché è impotente. Politica vera, al contrario, è quella che difende una novità di vita nel presente capace di modificare anche l’assetto del potere.

Cosi concludo dicendo che la politica deve decidere se favorire la società esclusivamente come strumento, oggetto di manipolazione di uno Stato e del suo potere, oppure favorire uno Stato che sia veramente laico, cioè al servizio della vita sociale secondo il concetto tomistico di «bene comune» ripreso vigorosamente dal grande e dimenticato magistero di Leone XIII.

Ho fatto quest’ultima osservazione pur ovvia a tutti per ricordare che è un cammino nient’affatto facile ma duro, come del resto il cammino di ogni verità nella vita. Ma bisogna non aver paura, anche qui, di quello che diceva il santo Evangelo: chi si tiene stretto le sue cose, la sua vita, le perderà e chi darà in nome di Cristo la sua vita, la guadagnerà.