Dittatori a vita, questa è la regola che regna in Africa

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Pierre Nkurunziza

La Nuova bussola quotidiana 10 settembre 2016

di Anna Bono

L’estate scorsa il presidente degli Stati Uniti Barack Obama, in visita all’Unione africana ad Addis Abeba, ha ricordato ai suoi ospiti che «nessuno dovrebbe essere presidente a vita». Si è sentito rispondere dai capi di Stato e di governo africani che sarebbe gravemente antidemocratico, ed è quindi impensabile, impedire alla gente di eleggere chi le pare, tutte le volte che vuole.

E se non vuole, fa lo stesso, tanto peggio. Pierre Nkurunziza,presidente del Burundi dal 2005, lo scorso anno si è candidato per la terza volta alla carica violando la costituzione del suo Paese che limita a due i mandati presidenziali che un cittadino può svolgere. Ha represso brutalmente le manifestazioni popolari di protesta scoppiate quando nell’aprile del 2015 ha annunciato la propria candidatura e poi tre mesi dopo quando è stato proclamato vincitore di elezioni contestatissime per l’evidenza di brogli in suo favore. All’indomani della vittoria si è detto certo di avere il diritto di restare il carica fino alla morte perché è Dio che lo ha destinato al governo del Burundi. Il suo diritto per volontà divina finora è costato 400 dissidenti morti, migliaia in carcere e oltre 220.000 sfollati.

Invece il presidente del Gambia, Yahya Jammet, al potere con un colpo di Stato nel 1994 e dal 1996 in poi eletto, si rimette alla volontà di Allah. «Manterrò gli impegni con i miei connazionali e se dovrò governare per un miliardo di anni lo farò, se Allah lo vuole», ha detto a margine del vertice della Comunità economica dell’Africa occidentale, Ecowas, svoltosi nel 2015 per decidere tra l’altro come rispondere alla proposta delle Nazioni Unite di vietare ai capi di stato dei Paesi membri di svolgere più di due mandati. I presidenti dei 15 stati Ecowas avevano espresso parere contrario all’unanimità.

In questi giorni è Ali Bongo, presidente del Gabon, a «mantenere gli impegni» con i suoi connazionali. Il 27 agosto il Paese è andato alle urne per scegliere il presidente della Repubblica. Bongo, eletto una prima volta nel 2009, si è ricandidato e ha sconfitto con un esiguo margine di 5.594 voti l’avversario Jean Ping. Alla proclamazione del vincitore è seguita la denuncia di brogli da parte dell’opposizione, confermata in parte dagli osservatori dell’Unione europea. Da una settimana i sostenitori del leader sconfitto organizzano proteste e manifestazioni. Il ministro della giustizia Seraphim Moundounga ha dato le dimissioni per protesta e la Francia chiede che si ricontino i voti (e meglio farebbe a non immischiarsi, visto il disastro che ha provocato in Costa d’Avorio schierandosi con uno dei candidati che rivendicavano la vittoria nel 2010)

La Corte costituzionale che doveva pronunciarsi l’8 settembre in merito a un ricorso presentato daPing non ha ancora deliberato. La missione mediatrice dell’Unione africana che avrebbe dovuto recarsi in Gabon il giorno successivo è stata rimandata: i capi di Stato che la compongono – Idriss Déby del Ciad, Macky Sall del Senegal e Denis Sassou-Nguesso, della Repubblica del Congo – hanno detto di aver bisogno di tempo per consultarsi. Déby e Sassou-Nguesso si sono liberati da tempo del fastidioso limite costituzionale dei due mandati presidenziali. Nonostante le proteste popolari e il biasimo internazionale, Déby, al potere dal 1991, ha iniziato il suo quinto mandato ad aprile e Sassou-Nguesso, in carica dal 1979, si è fatto rieleggere a marzo.

Intanto in Gabon già sei persone sono state uccise durante gli scontri dei dimostranti con la polizia,105 sono rimaste ferite e circa 1.200 sono state arrestate. Il presidente Bongo ha accusato la missione dell’Unione Europea di parzialità e il leader dell’opposizione Ping di «brogli massicci». Si è rivolto alla Nazione con espressioni suadenti: «il mio amore per il Gabon mi ha spinto a formulare un doppio progetto che si sintetizza in due parole: democrazia e progresso. È del futuro del Gabon che si tratta, lo scriveremo insieme».

Benché governi da pochi anni, Ali Bongo è un uomo potente e ricco grazie all’eredità paterna, inclusala carica stessa che ricopre essendo succeduto al padre Omar, presidente del Gabon dal 1967 fino alla morte, nel 2009. In oltre 40 anni Omar Bongo ha accumulato una fortuna, grazie ai proventi del petrolio di cui il Gabon è produttore. Il patrimonio della famiglia Bongo in Francia, che comprende grandi proprietà immobiliari, è stimato in decine di milioni di dollari. Omar ha lasciato inoltre al figlio una costituzione che non pone limiti al numero di mandati presidenziali che un gabonese può ricoprire.

Come lui altri due leader africani hanno ereditato dal padre carica, potere e patrimonio: il presidentedel Togo, Faure Gnassingbe, figlio di Eyadema, che prese il potere nel 1967 e lo conservò fino alla morte avvenuta nel 2005; e Joseph Kabila, presidente della Repubblica Democratica del Congo, succeduto nel 2001 al padre Laurent Désiré, ucciso in un attentato. Sono tutti giovani: Ali Bongo ha 57 anni, Faure Gnassingbe ne ha 50, Joseph Kabila 45. Anche Pierre Nkurunziza ha solo 53 anni e Yahya Jammet ne ha 51. Appartengono alla nuova generazione di leader che qualcuno ha immaginato finalmente diversa, capace di portare l’Africa nel XXI secolo.

Lo si era pensato anche di quella precedente: quella di Melles Zenawi, rivelatosi implacabile premier in Etiopia, di Isaias Afewerki, responsabile di una delle peggiori dittature del mondo, di Yoweri Museveni e Paul Kagame, rispettivamente al potere in Uganda dal 1986 e in Rwanda dal 1994, determinati a conservare la carica il più a lungo possibile e con ogni mezzo. Senza neanche rifarsi alla volontà divina.