Legalizzazione della cannabis: implicazioni sanitarie e sociali

cannabisA cura di Rassegna Stampa

Brescia 21 agosto 2016

Massimo Gandolfini

Neurochirurgo e Psichiatra

La delicata questione della legalizzazione della cannabis richiede di essere affrontata senza pregiudizi ideologici o confessionali, essendo in gioco il futuro delle nuove generazioni e la costruzione della nostra società.

CENNI DI FARMACOLOGIA E CLINICA

La marijuana è una soatanza psicoattiva che si ottiene dalle inflorescenze essiccate delle piante femminili di CANNABIS (C. Sativa).

La principale sostanza psicoattiva in essa contenuta è il delta-9-tetraidrocannabinolo (THC). Oltre ai noti effetti sugli apparati cardiovascolare, respiratorio e riproduttivo/fertilità, particolare attenzione – anche per risvolto sociale che implica – va posta sugli effetti psicotropi, conseguenti al coinvolgimento del SNC.

Il meccanismo d’azione del THC è rappresentato dall’occupazione dei siti recettoriali propri degli endocannabinoidi (o cannabinoidi endogeni), in particolare della anandamide, mimandone con intensità molto maggiore gli effetti fisiologici

E’, quindi, utile elencare i centri nervosi sui quali agisce il THC , descrivendo la funzione che ciascun centro svolge, così da evidenziare le conseguenze pericolose indotte dalla sostanza.

In generale, si tratta di regioni cerebrali ricche di recettori cannabinoidi:

  1. nuclei della base – controllo dei fini movimenti
  2. cervelletto – controllo equilibrio/spazialità/movimento
  3. ippocampo – centro dell’apprendimento, memoria, controllo dello stress
  4. corteccia cerebrale – funzioni cognitive
  5. nucleo accumbens – centro delle vie dopaminergiche del piacere
  6. ipotalamo e tronco encefalico – controllo della “sazietà” (fame,sete), temperatura corporea, ritmo sonno-veglia, stato di allerta, pulsione sessuale
  7. amigdala – centro della vita emotiva (paura, allerta, emozioni)
  8. midollo spinale – controllo sensibilità periferica e dolore, controllo funzione motoria
  9. nucleo del tratto solitario – controllo sensazioni viscerali (nausea e vomito).

 

In generale, quindi, il THC interferisce con il normale funzionamento cerebrale, che la letteratura denuncia con una lunga lista di effetti:

  • tachicardia, euforia, eccitamento, agitazione con perdita del controllo attentivo
  • nausea e vomito (soprattutto alle prime assunzioni)
  • instabilità posturale
  • difficoltà di concentrazione
  • difficoltà dell’esecuzione di movimenti, soprattutto fini
  • dispercezioni sensoriali (gusto, odorato, udito)
  • alterata percezione temporo-spaziale
  • alterata percezione del proprio corpo, fino alla “depersonalizzazione” (reazione psicotica)
  • disturbi della memoria, soprattutto di fissazione

 

Gli effetti della cannabis sono dose-dipendenti, ma risentono anche dell’assetto genetico del soggetto che l’assume, secondo il consolidato principio di “farmacogenomica” basato sullo studio dei polimorfismi genetici (che influenzano l’attività metabolica), per cui ogni individuo ha reazioni a farmaci/droghe che possono essere molto diverse da soggetto a soggetto.

Si può definire la cannabis una droga “leggera”?

Sappiamo tutti che in ambito scientifico non esistono droghe leggere. La droga è droga; una sostanza stupefacente è una sostanza stupefacente. Forse, chi ha pensato di coniare questa improvvida definizione, ha voluto riferirsi al tema della “dipendenza” indotta da questa droga.

Fermo restando che la “dipendenza” è una condizione plurifattoriale (fattori genetici, biologici, metabolici, tratti ereditari, che si combinano con tratti psicosociali, culturali ed ambientali) con la conseguenza che il rischio non è ne generalizzabile né quantificabile a priori, ed è quindi da considerarsi (“principio di precauzione”, internazionalmente adottato e riconosciuto) potenzialmente elevato per ciascun individuo, è opportuno chiarire alcuni aspetti:

  1. come ogni sostanza psicoattiva, provoca dipendenza psicologica;
  2. se utilizzata in modo abbastanza regolare per un periodo di tempo non particolarmente lungo, provoca anche dipendenza fisica, nel senso che – alla sospensione – compaiono sintomi da astinenza (insonnia, agitazione, anoressia, irritabilità, rabbia, aumento dell’attività muscolare/motoria, aggressività). Questa condizione costituisce un forte stimolo alla riassunzione e/o alla sostituzione con altra sostanza stupefacente.
  3. l’uso prolungato – modificando sia farmacocinetica che farmacodinamica – spinge il soggetto a consumare quantitativi sempre più elevati per ottenere lo stesso effetto, oppure a cercare una nuova sostanza psicotropa più attiva (Ectasy, LSD, cocaina, eroina).

Sul piano clinico – a riprova che di fatto si è strutturata una vera dipendenza fisica, quantizzata nel 10% dei consumatori (“Addiction”, Wayne Hall, 2015) – c’è il fatto che l’interruzione improvvisa, dopo un periodo di utilizzo assiduo e ad alto dosaggio, provoca insonnia, agitazione, perdita di appetito, irritabilità, rabbia, aumento dell’attività muscolare e dell’aggressività.

Se ne deduce che la terminologia “droga leggera” è non fondata scientificamente, e pericolosa per la cultura popolare diffusa che viene indotta a ritenere che si tratti di una “droga light”, non particolarmente dannosa.

La cannabis può essere dannosa per il feto?

Gli studi condotti sugli effetti dell’esposizione prenatale alla marijuana hanno escluso un aumento di patologie perinatali (parto prematuro e basso peso alla nascita), ma hanno evidenziato effetti sullo sviluppo neuronale a livello della corteccia prefrontale e dell’ippocampo. Sul piano clinico, questi bimbi presentano deficit di apprendimento, problemi nella socializzazione e turbe comportamentali che compaiono in età scolare (molto simili alla “sindrome alcoolica fetale”).

Che cosa ne pensa la comunità scientifica internazionale?

L’uso delle droghe è regolato da tre trattati internazionali (che hanno la stessa cogenza dei trattati riguardanti la non-proliferazione delle armi nucleari ed il controllo del clima). ONU 1961, 1971, 1988 e aggiornamento aprile 2016 : cannabis e derivati sono elencati nella “Tabella 1: sostanze dannose e pericolose” (insieme a cocaina ed eroina). Il testo 2016 è stato approvato all’unanimità: 193 voti su 193.

Viene anche riportata l’esperienza di quattro stati USA (Colorado, Washington, Oregon e Alaska) che hanno legalizzato l’uso della cannabis:

  • aumento del consumo nella fascia d’età 18-25 anni;
  • aumento del numero di ricoveri in P.S. per effetti della sostanza
  • aumento del numero di soccorsi/incidenti stradali legati all’uso della sostanza
  • contemporaneo aumento dell’uso di alcoolici

Vengono, quindi, elencati effetti dannosi su respirazione, apparato cardiovascolare, neurocognitivi, fino alla psicosi. In particolare si dichiara che negli adolescenti può provocare danni alla memoria e alla condotta relazionale, anche irreversibili. Infine si dichiara che l’uso di cannabis induce un aumento dell’uso di alcoolici e di fumo di sigaretta.

ASPETTI SOCIALI

Valutiamo – alla luce dei dati clinici e scientifici sopra riportati – la proposta di legalizzazione sostenuta dall’Intergruppo Parlamentare “Cannabis Legale”.

Alla base della proposta di legalizzazione ci stanno alcune affermazioni di carattere socio-culturale che devono essere lucidamente affrontate e criticate.

Vorrei partire dall’assunto che la funzione dello Stato in una società civile e democratica è l’impegno per la costruzione del “bene comune”, che significa il massimo bene possibile per ogni singolo cittadino. La Costituzione (art.32) dichiara che è dovere dello Stato riconoscere e garantire  il diritto alla salute, per ogni cittadino. E’ talmente cogente questo impegno che è riconosciuto allo Stato di poter intervenire in maniera anche coattiva per la tutela della salute pubblica, dalle vaccinazioni alla medicina preventiva sul lavoro.

Entrando maggiormente nel dettaglio, possiamo affrontare le argomentazioni che vengono più frequentemente proposte a sostegno della legalizzazione, analizzandole alla luce di fatti concreti.

1. E’ una via che, cancellando il mercato clandestino, toglierà “ossigeno” alla mafia.

Potremmo partire dal pensiero del giudice Paolo Borsellino, che certamente di mafia se ne intendeva più di chiunque; egli definì “dilettanti di criminologia”(Bassano del Grappa, 1989) coloro che erano “favorevoli alla liberalizzazione delle sostanze stupefacenti”.

Sappiamo benissimo tutti come una delle caratteristiche del potere mafioso è quella di infiltrarsi, purtroppo con successo, all’interno delle attività e dei mercati legali, soprattutto se gestiti direttamente dallo stato. Si sprecano gli esempi e, quindi, basterà ricordare gli “affari” nello smaltimento dei rifiuti/gestione delle discariche, monopolio dei tabacchi (Confesercenti denuncia un aumento dei furti nelle tabaccherie, grazie al fiorente mercato clandestino!), fino al regime di assegnazione degli appalti e degli alloggi pubblici. E’ da illusi (ma forse si dovrebbe dire, da “sciocchi”) pensare che la mafia, il più esperto gestore di droghe, accuserà il colpo, magari ritirandosi dal mercato. E’ assai più logico e ragionevole pensare che metterà in atto strategie di “concorrenza” sul mercato: prezzi più bassi, intensificazione della rete di spaccio e più alta concentrazione di principio attivo per singola dose, così da ottenere “migliori” effetti ed il conseguente apprezzamento da parte dei fruitori (fidelizzazione dell’assuntore).

Senza dimenticare – come scienza e statistiche ampiamente documentano – che la marijuana è molto spesso la tappa di passaggio verso altri stupefacenti; una sorta di iniziazione tossica verso orizzonti ancora più devastanti. Infine, paradossalmente, se si assume questo criterio, ben sapendo che il mercato clandestino più redditizio è quello dei derivati dell’oppio (eroina, cocaina) e delle droghe di sintesi (Ectasy e altro) perché non legalizzare anche questi e promuovere laboratori statali che producano stupefacenti doc.?

2. La legalizzazione farà diminuire il consumo.

Non c’è nulla di più illogico ed irreale. Anzi è vero proprio il contrario: una legge fondamentale del commercio è che “l’offerta fa aumentare la domanda”. Quindi, la facilità di reperimento ed assunzione favorirà l’incremento del consumo, allargando la platea di assuntori anche a chi neanche ci pensava o non si sarebbe mai preso la briga di andarla a cercare. Del resto, abbiamo sotto gli occhi ogni giorno quanto accade per alcoolici, sigarette e gioco d’azzardo (in progressiva crescita soprattutto fra i giovani) e quanto è accaduto il altri Paesi (Olanda: legalizzazione nel 1984, rilevazione del consumo nel 1996: aumento dal 15% al 44%)

3. Anche alcool e fumo fanno male alla salute, eppure sono legali.

E’ un argomento di superficialità culturale che offende il semplice buon senso. Si cura un male aggiungendone un altro? Un danno già esistente legittima di introdurne un altro? Oppure, non dovrebbe spingere proprio in direzione opposta: cerchiamo di evitare nuovi (e magari più pericolosi) danni? Senza dimenticare che è ampiamente documentato che l’uso di cannabis aumenta l’uso anche di fumo e di alcoolici (DRUG,ALCOHOL DEPEND, luglio 2016: “Medical marijuana legalization and cigarettes and marijuana co-use in adolescents and adults”)

4. Legalizzare non vuol dire liberalizzare.

Anche questo appare come un argomento inconsistente e molto debole. Tutti sappiamo molto bene che la legge svolge anche un ruolo pedagogico e culturale. Per la cosiddetta cultura diffusa, quando lo Stato legalizza, significa che accetta, accoglie e promuove. Al contrario, quando proibisce, vuol dire che condanna e disincentiva.

5. La legalizzazione riguarda l’uso personale a scopo “ricreativo”.

Possiamo diffondere il messaggio che l’uso di una sostanza stupefacente ha uno scopo ricreativo assolutamente legittimo? Si può affermare che la legittima ricerca di uno stato di benessere personale, contempla anche l’uso di droghe?  Per non parlare della confusa, farraginosa e bislacca previsione di istituzione di “cannabis social club” prevista dalla proposta di legge (associazione senza fini di lucro, di non più di 50 persone maggiorenni, con autorizzazione a coltivare non più di 5 piante di cannabis per associato, da utilizzare solo per gli associati). Non ci vuole grande fantasia per pensare a quanti abusi, truffe, imbrogli si presta una organizzazione del genere, diffusa sull’intero territorio nazionale. Come non vedere che c’è il concreto rischio che si creino veri e propri centri di produzione a scopo di lucro, clandestino, considerato che neppure il monopolio di Stato sui tabacchi è riuscito a cancellare il florido mercato clandestino delle sigarette.

Per combattere la clandestinità, creiamo altre potenziali occasioni di ancor più capillare clandestinità! Senza voler mancare di rispetto a chicchessia, c’è da chiedersi se chi ha pensato e scritto questa possibilità non si era proprio “fatto una canna”!

E se una persona, a scopo “ricreativo” personale, volesse l’insulina, dobbiamo dargliela? O un immunosoppressore? Il compito dello Stato è la tutela della salute della persona o stabilire la soglia minima di autodistruzione permessa al cittadino, e garantita per legge?

Infine, sgombriamo il campo da una grande ipocrisia: l’assunzione di droghe – e la marijuana è una droga – è il segnale di un disagio esistenziale e psicologico, che spinge il soggetto a far di tutto per dimenticare ciò che lo fa “non essere felice”, fino a giungere all’autodistruzione stessa. Piuttosto che soffrire, meglio non pensare, annullarsi, “sballare”, costi quel che costi. Poi, scivolati in questa gabbia, il tutto peggiora, con l’insorgenza della dipendenza fisica, che va ad aggiungersi a quella psicoaffettiva, creando una vera schiavitù.

Così, sul sentiero della legalizzazione, si infoltirà il numero di vittime (si guardi che cosa sta accadendo con la ludopatia!) ed aumenteranno i costi sociali, di riabilitazione e reinserimento,  nel tentativo di contenere un male che noi stessi abbiamo promosso.

Di fronte a questo doloroso e desolante panorama, la legalizzazione di una sostanza che certamente fa male e contraddice palesemente il valore civile della tutela della salute, assomiglia molto ad una resa di fronte al disagio di tanti giovani vittime di situazioni che non sono in grado di risolvere. Mentre la società civile sceglie di rispondere con la più vecchia e ingenerosa delle strategie: lavandosene le mani.

Consapevole di non aver per nulla esaurito l’argomento in discussione, spero di aver dato un contributo per promuovere il confronto, anche con opinioni divergenti, circa un tema di grande delicatezza, sia sul piano della responsabilità che ci compete in quanto medici, che di quello della responsabilità socioculturale in quanto cittadini.

Credo che sarebbe colpevole, moralmente e civilmente, rimanere indifferenti e chiamarsi fuori da un dibattito che, al contrario, ci deve vedere in prima linea proprio in quanto esperti e competenti nel grande mondo della salute, individuale e pubblica.

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