La nascita dell’Universo fra Filosofia e Scienza

universoLepanto Focus
 a cura del Centro Culturale Lepanto-n.9
1 dicembre 2009

di Claudio Bernabei

Nell’anno 2009 è ricorso il settantesimo anniversario della pubblicazione delle osservazioni che da qualche tempo stava facendo l’astronomo Edwin Hubble sull’allontanamento delle galassie fra di loro, ossia l’espansione dell’Universo.

Queste osservazioni ebbero grandi conseguenze non solo nel campo della astronomia ma, più in generale, sulla visione del mondo proposta dalla cultura del tempo.

Per quanto riguarda la cosmologia, infatti, grande parte della filosofia moderna e contemporanea ha negato e nega che l’Universo abbia la sua ragion d’essere nella Creazione divina, afferman-do invece che esso avrebbe la sua ragion d’essere in se stesso.

Questo pregiudizio, che fu già proprio nel corso dei secoli dei tanti negatori di un Dio personale, aveva portato alla concezione di un cosmo eterno stazionario, e tale fu la tesi prevalente fra gli scienziati moderni, fino all’Ottocento.

Tra la fine del XIX secolo ed i primi del XX la scoperta dei principi della termo­dinamica, quali furono formulati in chiave cosmologica dal Clausius, e la scoperta dell’allontana­mento reciproco delle galassie, quale fu osservato dell’Hubble, accertarono che l’universo non è eterno né stazionario.

Secondo il principio termodinamico, infatti, la materia tende inevitabilmente a degradarsi; l’allontanamento reciproco delle galassie, poi, se avvenisse da un’eternità avrebbe come conseguenza che le galassie sarebbero fra loro infinitamente lontane e noi oggi avremmo un cielo oscuro e senza stelle, senza nemmeno fare eccezione per quelle della nostra Galassia, la Via Lattea appunto, perché da una eternità ad oggi si sarebbero tutte consumate, per il principio di entropia, in fredde nuvole di gas e polveri cosmiche.

II filosofo A.N. Whitehead, la cui opera principale, II Processo e la Realtà. Saggio di Cosmologia, è coeva alle osservazioni di Hubble, cercò di superare l’impasse affermando che la materia è di per sé, in continuazione, autocreativa: «”Creatività” è un altro modo di tradurre la “materia” aristotelica ed il moderno “materiale neutro”» (II Processo e la Realtà. Saggio di cosmologia, Milano, Bompiani, 1965, p.92).

L’autocreatività sarebbe continua nel tempo, in quanto afferirebbe alla natura stessa della materia e quindi dell’Universo, «per cui nuovi elettroni e nuovi protoni vengono ad esistere» (op. cit, p.204) qui e lì negli spazi fra le stelle, a differenza della Creazione che, come narra la Bibbia, Dio ha deciso una volta per sempre in un punto preciso: l’inizio del Tempo.

Anche questa ardita speculazione filosofica del Whitehead trovò studiosi decisi a rivestirla dell’autorevolezza della Scienza. Ciò per la necessaria dipendenza della ricerca scientifica dalle teorie filosofiche cui lo scienziato si ispira: è proprio per questo rapporto necessario fra filosofia e scienza che si giustifica il giudizio che l’Autorità teologica e filosofica si sente di dare sulle varie ipotesi scientifiche (cfr. SS. Giovanni Paolo II, Lettera enciclica “Fides et Ratio”, §§ 19, 28, 30 e passim.)

Anche l’odierna filosofia della scienza concorda su questa dipendenza della teoria scientifica da una teoria filosofica, anzi addirittura la esagera perché arriva a negare in radice la capacità della ragione umana di conoscere le verità naturali, capacità che invece è difesa dalla dottrina cattolica.

Karl Popper scrive: «Capii perché l’errata teoria della scienza che aveva prevalso fin dai tempi di Bacone – la teoria secondo la quale le scienze naturali sono le scienze induttive, e l’induzione è un processo di costituzione o di giustificazione delle teorie mediante reiterate osservazioni o esperimenti – fosse così profondamente radicata. La ragione era che gli scienziati dovevano demarcare la loro attività (…) rispetto alla teologia ed alla metafisica» (K. Popper, La ricerca non ha fine: autobiografia intellettuale, Roma, Armando, 1976, p.82).

Al contrario, osserva l’epistemologo austriaco, «l’osservazione “pura” – cioè l’osservazione priva di una componente teorica – non esiste. Tutte le osservazioni – e, specialmente, le osservazioni sperimentali – sono osservazioni di fatti compiute alla luce di questa o quella teoria” (K. Popper, Problemi, scopi e responsabilità della scienza, in Idem, Scienza e filosofia, Torino, Einaudi, 1969, p.128).

Più sbrigativo è l’amico e collaboratore di Karl Marx, Friedrick Engels, che brutalmente afferma: «Gli scienziati possono prendere l’atteggiamento che credono: essi sono sotto il dominio della filosofia. C’è da porre solo il problema se essi vogliono essere dominati da una cattiva filosofia corrente o da una forma di pensiero teorico che riposa sulla conoscenza della storia del pensiero e sui suoi risultati» (F. Engels, Dialettica della natura, in K. Marx, F. Engels, Opere, Roma, Editori Riuniti, 1974, vol. XXV, p.495).

Fu così che, per conciliare la teoria filosofica dell’eternità dell’Universo (e quindi cancellare il Dio creatore) ed il fatto della espansione delle galassie, tra gli anni Quaranta e Cinquanta del XX secolo gli astronomi Thomas Gold e Hermann Rondi prima e Fred Hoyle poi crearono un modello di interpretazione dell’espansione galattica chiamato Steady State Universe: «II modello dello steady state universe descrive in effetti un’espansione esponenziale dell’universo unita ad una creazione permanente di materia: la sincronizzazione tra espansione e creazione permette di mantenere nell’universo una densità costante di materia energia. Si tratta, dunque, di un universo eterno, senza età, ma in uno stato di creazione continua» (I. Prigogine, I. Stengers, Tra il tempo e l’eternità, Torino, Bollati Boringhieri, 1989, p.149).

Questo modello, che eliminava radicalmente la necessità di un Dio creatore, ottenne un successo stupefacente all’interno della comunità scientifica mondiale, come si osserva scorrendo le pubblicazioni di quel periodo.

Addirittura vi furono adesioni, incaute quanto entusiaste, anche da parte degli studiosi cattolici, per così dire, «più aperti al dialogo» (cfr. P. Pasolini, Come è nato l’Universo, Mariapoli, Città Nuova ed., 1961, pp. 39-40).

Tanto più sconcerta il successo di questa ipotesi dell'”universo in stato stazionario” in quanto non erano mancati altri modelli, più logicamente impostati, che ponevano all’inizio dell’espansione universale un punto preciso: per esempio il “super atomo” del sacerdote ed astronomo belga Georges Edouard Lemaìtre oppure il plasma ipotizzato da George Gamow e Ralph Asher Alpher (alla prima pubblicazione della sua teoria il Gamow, uomo di spirito, volle far aggiungere alla sua firma ed a quella del suo collaboratore Alpher la firma di un collega astronomo suo conoscente ma del tutto estraneo alla ricerca, Hans Bethe, solo perché in inglese i tre cognomi suonano come le prime tre lettere dell’alfabeto greco: alfa, beta, gamma).

Gamow ed il suo collaboratore supposero che l’Evento iniziale sarebbe stato caratterizzato da una tale energia da lasciare nell’Universo una radiazione tuttora verificabile.

Benché già dalla fine degli anni Quaranta i radioastronomi avessero avuto a disposizione gli strumenti necessari a verificare questa teoria, nessuna ricerca della radiazione venne ufficialmente avviata fino al 1964, mentre da parte sua Fred Hoyle definiva con disprezzo l’ipotizzato evento iniziale come un “Big Bang” (grande botto).

Si noti che già nel 1955 i radioastronomi Martin Ryle e P. Scheuer, effettuando dei conteggi delle varie sorgenti radio dell’Universo, arrivarono alla conclusione che i risultati «fossero incompatibili con la teoria dello stato stazionario di Bondi, Gold e Hoyle e della conseguente creazione continua della materia» (D.W. Sciama, Cosmologia moderna, Milano, Mondadori, 1973, p.102).

Addirittura già nel 1941 Gerhard Herzberg pubblicava i risultati delle osservazioni di Andrew Me Kellar del Dominion Observatory del Canada sugli spettri stellari, che evidenziavano la presenza di una radiazione interstellare fra i due e i tre gradi Kelvin (D.W. Sciama, op. cit., p. 189). Malgrado tutte queste osservazioni scientifiche contrarie, fino al 1964 la teoria dell’autocreazione dell’Universo conservò la supremazia.

Il motivo lo spiega, a posteriori, il Nobel Ilya Prigogine: «Qualcuno certo è soddisfatto di poter vedere, nella singolarità del big bang, la “mano di Dio”, il trionfo del racconto biblico della creazione, l’atto unico, fuori della scienza, di cui noi possiamo solo ricostruire l’esistenza partendo dal mondo che conosciamo. Altri hanno tentato di evitare questa situazione inquietante. Uno dei tentativi più importanti in tal senso è stato il modello cosmologico dello steady state universe di Bondi, Gold ed Hoyle.» (I. Prigogine, I. Stengers, op. cit, p. 146).

Non è comunque solo lo scienziato, e Premio Nobel, Prigogine a trovare «inquietante» ogni osservazione scientifica che, a suo parere, comporti il «trionfo del racconto biblico della creazione».

Anche il Premio Nobel Stephen Hawking, astrofisico noto per le sue teorie sui cd. “buchi neri”, ammette che «a diversa gente non piacque l’idea che il tempo avesse un inizio ed una fine, perché sapeva di intervento divino, e vennero fatti vari tentativi per evitare tale conclusione. Uno di questi era il modello dello “stato stazionario”, proposto nel 1948 da Hermann Bondi, Thomas Gold e Fred Hoyle» (S. Hawking, II bordo dello spazio-tempo, in Idem, Inizio del tempo e fine della fisica, Milano, A. Mondadori, 1997, p. 57).

Forse non è senza significato il fatto che l’annuncio dell’osservazione della radiazione attribuita al Big Bang sia stato compiuto non da astrofisici di professione ma da due esterni all’ambiente astrofisico (e alle sue censure e pregiudizi): Arno Penzias e Robert Wilson, ingegneri delle telecomunicazioni presso i Bell Telephone Laboratories del New Jersey.

Costoro scoprirono casualmente questa radiazione mentre effettuavano delle misurazioni con un’antenna progettata in origine per ricevere i segnali riflessi dai satelliti della serie “Echo”.

Questo comportamento della comunità scientifica merita di essere commentato: a dispetto del Nobel Prigogine, l’idea di una esplosione cosmica non corrisponde per nulla alla descrizione che la Sacra Bibbia ci fa della Creazione.

Inoltre, per essere precisi, la radiazione interstellare misurata in circa 2,7 gradi Kelvin, ossia poco più dello zero assoluto ed equivalente a circa -270 gradi centigradi, non corrisponde ai calcoli fatti dai teorici dell’esplosione cosmica in base alle analisi spettroscopiche delle stelle più antiche, analisi che comporterebbero, nel caso fosse vera la teoria dell’esplosione iniziale, una radiazione misurabile in 5 gradi Kelvin, ossia circa il doppio di quella verificata nello spazio interstellare (J. Gribbin, Enciclopedia di Astronomia e Cosmologia, Milano, Garzanti, 1998, p. 412).

Rimane poi a tutt’oggi senza una spiegazione convincente il motivo per cui l’originario grumo di materia sarebbe dovuto esplodere (vedi più oltre la questione della “massa mancante”).

Il «trionfo del racconto biblico della creazione» temuto dal Nobel Prigogine ha quindi ben altre radici, perlomeno in un fatto e forse in due: anzitutto, come osserva il Nobel Hawking, se si ammette che il tempo ha un inizio occorre ammettere l’intervento di un Dio creatore; ammesso il Dio creatore si arriva necessariamente al Dio provvidente che ci ammaestra direttamente o tramite la Sacra Scrittura.

In secondo luogo, a proposito della ed. “radiazione di fondo”, premetto che luce e calore non sono altro che fotoni, ossia quanti di energia elettromagnetica, che differiscono fra loro solo per la lunghezza d’onda, che viaggiando nel tempo e nello spazio tende ad alterarsi.

Da quanto abbiamo riferito più sopra è chiaro il “turbamento” che coglierebbe la comunità scientifica al solo pensiero che accanto all’espansione dell’Universo, che ne prova la non eternità, occorra ammettere la scoperta del residuo fossile del Fiat Lux biblico («Iddio disse: “Sia la luce”: e la luce fu», Genesi, 1, 3).

La «situazione», per dirla col Nobel Prigogine, sarebbe veramente allora più che «inquietante», e ciò per «diversa gente», per dirla col Nobel Hawking.

Prigogine, da parte sua, pur continuando a scrivere che «il modello dello steady state universe implica il principio cosmologico perfetto» (I. Prigogine, I. Stengers, op. cit., p.149), ha dovuto constatare la necessità di abbandonare la coerenza della impostazione filosofica whiteheadiana per confinare e limitare l’autocreazione dello Universo al periodo testimoniato dalla radiazione fossile (op. cit., pp. 151 e ss.).

Il nostro Universo, e si badi che in questa prospettiva di universi ce ne potrebbero essere molti, si sarebbe dunque autocreato da «una fluttuazione spontanea del vuoto» (op. cit, p. 52).

Questa ipotesi, che forse meriterebbe di essere definita la “ruota di scorta” dell’ateismo travestito da scienza, prese il nome di “teoria dell’inflazione” dall’astrofisico Alan Guth del M.I.T., la celebre università americana, ma fu sviluppata, durante gli anni ’70, dal fisico sovietico Aleksej Starobiskij dell’Istituto di Fisica Teorica Lev Davidovic Landau di Mosca (J. Gribbin, op. cit., p. 239).

Nell’ottobre del 1981 si tenne a Mosca un convegno internazionale ove la “teoria dell’inflazione” fu accettata dai più noti astrofisici del mondo, come ad esempio Stephen Hawking, grazie soprattutto all’opera del cosmologo Andrej Dimitrievic Linde dell’Istituto di Fisica Lebedev dell’Accademia delle Scienza Sovietica (op. cit., p. 240 e p. 267), il quale coniò il termine di “inflazionismo caotico”, prospettando una teoria cosmologica che immagina una moltitudine di universi che si confondono vorticosamente l’un l’altro come una schiuma ribollente.

Chi avesse dei dubbi sulla determinazione e sulla raffinatezza dei fisici dell’Accademia delle Scienze sovietica nell’utilizzare ipotesi scientifiche per propagandare il materialismo marxista, sia nella versione classica che in quella “caotica” postmoderna, non avrà che da sfogliare un testo ben documentato quale L’interpretazione materialistica della meccanica quantlstica. Fisica e filosofia in URSS, a cura di Silvano Tagliagambe, edito da Feltrinelli nel 1972.

Per inquadrare il problema della successione dei due tipi di marxismo è fondamentale il capitolo terzo, parte terza, dell’insostituibile testo di Plinio Corréa de Oliveira, Rivoluzione e Contro Rivoluzione.

Quanto alla concreta natura di surrogato che ha il modello inflazionario rispetto al fallito progenitore a stato stazionario, basterà ricordare che, «come osservò maliziosamente Hoyle in un’assemblea della Royal Astronomical Society a Londra nel dicembre 1994, le equazioni rivelanti nella teoria dell’inflazione sono esattamente le stesse della sua versione dell’idea dello stato stazionario, ma con la lettera C sostituita dalla lettera greca Φ “fi”. «Qui», commentò ironicamente Hoyle, «sta tutta la differenza». (op. cit., p. 240)

Abbiamo perciò visto come:

1) apprezzati studiosi, nonché Premi Nobel, abbiano affermato per iscritto che il principale movente di molti scienziati, nel formulare teorie, sia quello di trovare argomenti contro l’esistenza di Dio creatore:

2) una teoria così assurda da sostenere che la materia nasca per conto suo dal nulla, violando i principi della termodinamica, abbia riscosso per molti anni un grande ed indiscusso successo malgrado esistesse la possibilità sperimentale di dimostrarne la falsità:

3) per di più, dopo che per un caso fortunato questa falsità è stata dimostrata, i grandi centri di ricerca occidentali (finanziati direttamente o indirettamente da cittadini in maggioranza anticomunisti) abbiano festosamente accolto la stessa teoria, riciclata e sommariamente mascherata, dai guardiani del materialismo marxista sovietico, cioè i membri della famigerata Accademia delle Scienze dell’URSS.

Dobbiamo ancora ricordare, fra i tentativi di costruire un’immagine del cosmo senza Dio creatore, anzitutto la cd. “teoria delle stringhe” o “super-stringhe” o “corde” o “supercorde”: di essa diremo solo che «la difficoltà qui consiste nel fatto che non c’è alcuna possibilità di verificare sperimentalmente queste idee» (op. cit., p. 501).

Infine l’ultima citazione spetta di diritto a quella che in realtà fu la prima della teorie nate per conciliare l’osservata espansione delle galassie e l’asserita inesistenza di Dio creatore: essa cominciò ad essere dibattuta nel 1930, all’indomani della pubblicazione delle osservazioni di Hubble.

Questa teoria sostiene che, se l’Universo avesse una certa massa complessiva, molto alta, la forza di gravita inerente a questa massa tenderebbe a rallentare prima, e poi a fermare ed invertire il moto complessivo dello Universo.

Questo allora collasserebbe su se stesso in un nocciolo che poi, con l’energia accumulata in questo collasso, riesploderebbe in un nuovo Big Bang che darebbe il via ad un nuovo ciclo di espansione-contrazione: e così per l’eternità.

Ci limiteremo qui a sottolineare che questa ipotesi, oramai quasi ottantenne, si è guadagnata il nome, presso gli astrofisici, di “teoria della massa mancante” (op. cit., p. 29-5).

Vero è che molti astrofisici sono fiduciosi che questa massa ci sia, anche se non è osservabile, e che prima o poi la troveremo – e lo affermano «dal 1930 circa» (op. cit., p. 296) – ma, «benché i teorici si dilettino a giocare con modelli matematici comprendenti esotismi come la materia scura fredda e calda, le WIMP e la materia oscura mista, gli osservatori hanno gradualmente scoperto una verità sgradevole: nell’universo esiste senza dubbio una quantità di materia oscura, ma forse meno di quanto suggeriscono alcuni di questi modelli» (op. cit., p. 74).

In conclusione, dobbiamo chiederci se sia possibile confrontare serenamente (trovandosi di fronte a studiosi ed a divulgatori di scienza così dichiaratamente faziosi nei confronti della Genesi biblica) i dati scritturali che Dio e la Chiesa propongono alla nostra Fede con i dati di incerta e continuamente mutevole interpretazione che laboratori ed osservatori ricavano dallo studio dell’Universo

Purtroppo non sembra cosa facile, se quegli studiosi che vogliono cercare nelle «verità conoscibili naturalmente (…) un presupposto necessario per accogliere la rivelazione di Dio» (SS. P. Giovanni Paolo II, Lettera enciclica “Fides et Ratio”, § 67), come ben scriveva il precedente Pontefice, possono venire cumulativamente diffamati come «una generazione di scienziati di estrema destra, alcuni dei quali fondamentalisti cristiani, altri suprematisti bianchi, scienziati che si misero ad usare (sarebbe meglio dire a parodiare) le tecniche scientifiche per produrre argomenti “creazionisti”» (Marco D’Eramo, Quando l’evoluzione diventa una discutibile teoria, in “il manifesto”, 20 agosto 1999, p. 23).

Rimane perciò, purtroppo, molto difficile discutere, ad esempio, sulla possibilità che la ed. “radiazione di fondo” sia o non sia la luminosità residua di quella luce fisica che Dio creò nell’Universo quattro giornate prima, si badi bene, di creare il Sole, la Luna e le stelle (Genesi, 1, 14), ossia tutti quei corpi celesti che l’esperienza degli antichi Ebrei, come di tutti i popoli primitivi, avrebbe dovuto identificare come fonti prime ed originarie della luce fisica.

Ed è perlomeno più logicamente elegante ipotizzare un Dio creatore come soluzione al ed. “problema dello orizzonte”, che a tutt’oggi gli studiosi di cosmologia definiscono come un «rompicapo rappresentato dal fatto che l’universo ci appare uguale in direzioni opposte del ciclo (orizzonti opposti), anche se dopo il big bang né la luce né alcun altra cosa hanno avuto il tempo di attraversare l’universo andata e ritorno. Come fanno quindi gli orizzonti opposti a ‘sapere’ com’è l’altra parte dell’universo (ossia ad interagire fra loro, N.d.R.) e a mantenersi uguali?» (J. Gribbin, op. cit., p.359).

Purtroppo gli ambienti culturali predominanti oggi nella ricerca scientifica non solo preferiscono dei riciclaggi marxisti di teorie cosmologiche dimostratesi false all’idea di un Dio creatore, ma anzi se ne fanno un obbligo ed un vanto.