Le ideologie non sono morte, lo dimostra il linguaggio

neolinguaVita e Pensiero n.5
settembre-ottobre 2009

La vera rivoluzione cambia il senso delle parole, come insegna la storia del marxismo teorico e realizzato. Uno scenario da Grande Fratello che si ripropone nell’ideologia del “gender” e nel filone del “sessismo linguistico” in voga in Spagna.

di Jesùs Trillo-Figueroa Martinez-Conde (*)

Una delle questioni più allarmanti tra le tante suggerite dal romanzo 1984 di George Orwell è la Creazione di una neolingua, la nuova lingua creata dal Grande Fratello. L’autore spiega che il primo dovere rivoluzionario del totalitarismo consiste nel modificare il linguaggio, creando una nuova lingua che rispecchi l’ideologia totalitaria, dando vita a parole nuove oppure cambiando il signifìcato di quelle vecchie.

L’obiettivo è duplice: far sì che le idee derivate dalla nuova ideologia trovino adeguata espressione, e impedire qualsiasi modo di pensare alternativo. Con i totalitarismi marxista e socialista le intuizioni di Orwell divengono realtà, ma nonostante l’esperienza storica negativa, l’umanità non ha imparato la lezione: lo stesso continua a succedere oggi, con le nuove correnti ideologiche sorte dalle macerie rimaste dalla caduta del muro di Berlino, che si pongono come primo obiettivo della loro strategia rivoluzionaria il cambiamento della lingua.

Una delle ragioni di questo fenomeno è che la filosofia moderna non ammette altra realtà constatabile al di là del linguaggio, che diventa la fonte di cui si nutrono le nuove correnti ideologiche. Questo processo è descritto da Foucault nella famosa opera Le parole e le cose, in cui l’evoluzione della filosofia in relazione al linguaggio si sviluppa così: in un primo momento il realismo riteneva il linguaggio «espressione e lettura delle cose»; secondo questa filosofia, i segni linguistici si identificano con le cose e il linguaggio rappresenta la realtà.

In una seconda fase, corrispondente a ciò che potremmo denominare genericamente idealismo, il linguaggio non rappresenta più le cose; i segni si costituiscono mediante un atto di conoscenza e in definitiva i segni linguistici non sono altro che «le forme delle idee». È qui che nasce il grande elemento di ambiguità della parola, in quanto essa non risponde a una rappresentazione reale verificabile, ma all’idea, prodotto del pensiero.

In una terza fase, o formalismo, il linguaggio si è staccato del tutto dalla realtà; Foucault scrive in proposito: «II linguaggio non è più una riproduzione del pensiero, ma configura e definisce il pensiero». In tal modo il linguaggio assume un essere proprio e definisce l’essere, motivo per cui la filosofia postmoderna sostiene che solo il discorso definisce la realtà.

Ideologia marxista e controllo del linguaggio

La lotta per il controllo del linguaggio non è un’invenzione della filosofia postmoderna, quanto piuttosto una costante a partire dall’invenzione, da parte del marxismo, dell'”ideologia” come strumento teorico per la conquista del potere. Pochi sanno che Stalin è stato un eccellente linguista e che esistono vari testi del dittatore su temi linguistici; esperto di linguistica fu anche l’altro grande teorico della rivoluzione comunista, Antonio Granisci. Si tratta dei due protagonisti delle due alternative rivoluzionarie del comunismo, il cosiddetto stalinismo — rivoluzione dall’alto – e il cosiddetto eurocomunismo — rivoluzione dal basso.

Il marxismo si è servito sin dall’inizio della semantica per una ragione teorico-pratica: per esprimersi adeguatamente, esso esige che alcuni termini cambino di senso o che si svuotino del contenuto di senso proprio dei termini originari; è per questo che si parla di “lessicologia” o di “linguaggio marxista”.

Secondo Marx il linguaggio «è essenzialmente un fenomeno sociale» e, tanto quanto la coscienza, esso sorge dalla necessità determinata dall’economia, cosicché è un prodotto sociale, che nega qualsiasi innatismo. Con ciò si spiega l’esistenza di un linguaggio del proletariato che sarà l’espressione della coscienza del proletariato e quindi l’unico linguaggio libero.

D’altro canto Marx studia le relazioni tra classi sociali e ideologie mediante la teoria linguistica, giungendo alla conclusione che le strutture linguistiche determinano diverse forme di pensiero e visioni del mondo. Per questo, per ottenere la rivoluzione del proletariato sarà necessario cambiare il linguaggio della borghesia, che presuppone una determinata visione del mondo borghese.

Sono tuttavia i post-marxisti a elaborare importanti analisi riguardo al linguaggio. In uno studio del 1950 chiamato Sul marxismo nella linguistica, pubblicato all’interno del giornale del Partito Comunista «Pravda», Stalin afferma che la tesi anteriore non è sufficiente poiché si constata che, nonostante la rivoluzione proletaria sia stata realizzata, il linguaggio non è cambiato: a cambiare, per Stalin, è il senso delle parole stesse, non la lessicologia in toto.

In conclusione, lo strumento rivoluzionario per cambiare l’ideologia attraverso il linguaggio non è la lessicologia intesa come significante, ma è la semantica: il significato. In seguito autori come Bachtin e Voloshinov approfondiscono lo studio semantico, analizzando le cause fondamentali del legame tra ideologia e linguaggio e giungendo alla conclusione che il contenuto di ciascun segno linguistico possiede una determinata enfasi o un valore socialmente acquisito, in virtù del quale il segno funziona ideologicamente. Si tratta della cosiddetta “funzione affettiva ideologica del linguaggio”.

La semantica come strategia rivoluzionaria

Oggetto fondamentale della semantica è lo studio del cambiamento di senso delle parole, di cui la politica viene considerata una causa determinante. Il linguista Sperber prende in considerazione quella che chiama «forza emotiva subcosciente», una delle fonti della creazione linguistica e dei cambiamenti di significato dovuti alle ideologie. Egli ritiene che, tanto nella collettività quanto nell’individuo, ci siano sfere di pensiero privilegiate, gruppi di temi ricorrenti, che condizionano socialmente il linguaggio. D’altro canto bisogna anche considerare che le parole in molti casi si definiscono in relazione al contesto; Weinrich scrive infatti: «Le parole ingannevoli appartengono a un sistema contestuale e hanno un valore sostitutivo all’interno di un’ideologia.

Tali parole acquisiscono falsità quando è falsa l’ideologia nei suoi principi dottrinali. Per questo esistevano parole di per sé neutre come popolo, sangue e nazione che attraverso il contesto dell’ideologia nazista si trasformano in parole ingannevoli, mentre alcune diventano definitivamente inutilizzabili per il loro uso fallace». Weinrich giunge a sostenere che le strategie linguistiche ingannevoli possono persino influire sullo “spirito del tempo” (Zeitgeist) così da poter trasformare in pochi anni una determinata visione del mondo, cosa che secondo lui accadde in Germania tra il 1930 e il 1933.

Questa tesi ha una sua spiegazione anche all’interno di riflessioni puramente linguistiche: nel 1931, Jost Trier, professore a Heidelberg, da vita alla «teoria dei campi linguistici». A suo parere, le parole si relazionano con un settore concettuale dell’intendere e costituiscono un insieme strutturato all’interno del quale ciascuna dipende dalle altre; in questo modo le parole formano un «campo linguistico» che abbraccia un campo concettuale.

Allo stesso tempo permettono di ricostruire la visione del mondo che esprimono. L’utilità dell’idea sta nel fatto che i nostri concetti abbracciano tutto il campo del reale, come i pezzi di un puzzle, senza lasciare buchi. Ne deriva che ciascun cambiamento nei confini di un concetto causerà una modifica nei concetti attigui e di conseguenza nelle parole che lo esprimono. Un cambiamento semantico della parola chiave può dunque modificare il senso non solo di una parola, ma di tutto un campo linguistico.

D’altro canto Georges Matoré, creatore della lessicologia generativa, studia l’esistenza di generazioni linguistiche, grandi fasi storiche nelle quali esiste una struttura lessicale caratteristica. In ciascuno degli stadi storici della lingua ci imbattiamo in parole testimone o “parole chiave” che sono neologismi corrispondenti a nuove nozioni, nate in seno alla collettività in un particolare momento della storia.

Le parole testimone di Matoré equivalgono a quelle che il filosofo spagnolo Lopez Quintas chiama parole talismano. Si tratta di parole che assumono una carica emotiva speciale in ogni epoca storica, un effetto quasi magico che conferisce loro un indiscutibile carattere che si proietta su tutto il campo linguistico: «Tutti i termini che risultano in qualche modo affini al termine talismano vengono circondati automaticamente da un’aura di prestigio per cui quasi nessuno osa discuterli o riesaminarli; s’impongono come qualcosa di noto e indiscutibile».

Parole talismano sono, a titolo esemplificativo: nel XVI e XVII secolo la parola ordine, nel XVIII secolo la parola ragione, nel XIX secolo la parola rivoluzione e nel XX secolo la parola libertà.

L’ideologia di genere, esempio di manipolazione semantica

Definisco ideologia di genere il contenuto ideologico della corrente politica che ha le sue basi nel femminismo radicale, che nasce come esito del maggio del ’68. Si tratta di una delle correnti più influenti nel mondo contemporaneo; si propone di porre fine alla differenza sessuale propugnando la tesi che sesso o differenza sessuale non sono una realtà naturale propria dell’essere umano; esistono solo “generi”, ossia stili, parti, ruoli sociali opzionali nella condotta sessuale dell’individuo. In natura non esistono quindi differenze sessuali, ma solo un fenomeno culturale, derivato dalla socializzazione del ruolo, che ciascuno riveste nella società, chiamato “genere”.

Secondo l’ideologia di genere, da un punto di vista sessuale l’uomo nasce neutro nello stato di natura e innocenza che precede il patto sociale; è la società che lo corrompe, lo aliena, creando le differenze sessuali. La rivoluzione consisterà nella liberazione sessuale, intesa come soppressione della differenza sessuale, che è considerata la principale alienazione umana sia sul piano personale sia su quello sociale.

È pertanto necessario che scompaiano tutte quelle istituzioni che si basano sull’idea e sulla realtà della differenza sessuale, le cosiddette “istituzioni sociali”, ossia la famiglia, il matrimonio, così come tutto ciò che perpetua socialmente questa alienazione, «la procreazione tra i sessi, la maternità e la parentela». L’identità sessuale sarà il risultato di una scelta, i figli saranno frutto di un compito e l’educazione spetterà allo Stato.

Oggi come oggi l’ideologia di genere figura come la corrente più influente nella determinazione del comportamento sessuale nel mondo occidentale. Tale concezione del sesso e del genere comincia a escludere decisamente l’idea di natura umana.

L’ideologia di genere, al pari di ogni ideologia, nasce da un a priori dogmatico, in questo caso dalla considerazione che la storia è una continua lotta tra sessi in seguito alla quale la donna è stata sin dal principio sottomessa e sfruttata dall’uomo; si tratta del patriarcato, che si palesa nel sessismo linguistico. L’ideologia di genere affonda le sue radici nella corrente di filosofia del linguaggio che si sviluppa a partire dalle Ricerche filosofiche, l’ultima opera di Ludwig Wittgenstein.

Il filosofo austriaco ritiene che il linguaggio non sia più rappresentazione del mondo, ma una rete strutturata che esprime l’insieme dei pensieri sul mondo. Il compito della filosofia è l’indagine sul cattivo uso delle parole o sul significato erroneo. La filosofia deve sciogliere i nodi che contaminano il sistema linguistico e quindi il sistema di pensiero. È Jacques Derrida, il più noto post-strutturalista, a dedicarsi alla cosiddetta decostruzione, che consiste fondamentalmente nel ricostruire dall’inizio il sistema linguistico e di pensiero: l’ordine simbolico, contaminato dall’esistenza degli errori della metafìsica.

Semplificando le cose, Derrida sostiene che la metafisica si basa su alcuni dualismi fondamentali nati con la filosofia greca e scolastica, intrinsecamente falsi: unità e pluralità, corpo e anima, materia e spirito, ecc. L’espressione ordine simbolico deriva dalla considerazione del linguaggio come qualcosa di più di un sistema di parole, giacché comprende l’insieme dei segni, la cui definizione va oltre la filosofia del linguaggio, essendo una forma compiuta della stessa: una semiotica, come la chiama Umberto Eco.

Per l’ideologia di genere, il principale dualismo su cui si fonda tutta la costruzione dell’ordine simbolico è il dualismo uomo-donna, maschile-femminile. La storia del patriarcato sarebbe il risultato della naturalizzazione della “donna” da parte della metafisica, che si è servita di questo falso dualismo creando una concezione del mondo “sessista”. Questa concezione deve essere distrutta, per essere sostituita da un ordine femminista che deve abolire la categoria “donna”. Compito dell’ideologia sarà la decostruzione del linguaggio a partire dallo sradicamento del sessismo, ossia il “dare un nuovo significato all’ordine simbolico”.

Grazie alla decostruzione si sta effettuando un’operazione molto importante che passa generalmente inavvertita: la costruzione di nuovi significati. Mediante nuovi significanti – o utilizzando antichi significanti “purificati” per sradicare il loro precedente significato dal nostro ordine simbolico, e dunque dalla nostra cultura o modello di società – si sostituisce, ad esempio, il concetto di paternità o maternità con quello di genitorialità, modificando il concetto di filiazione, che può essere così attribuito a una coppia costituita da persone dello stesso sesso. Per evitare quindi di parlare di paternità e maternità, cosa impossibile nel caso del matrimonio tra lesbiche e omosessuali, si usa il termine genitorialità.

All’interno di questa filosofia la realtà, o per lo meno il pensiero, è creato dal linguaggio: risulta emblematica da questo punto di vista l’analisi di Maria Elena Simón Rodriguez in Mujeres y poder (Donne e potere), nella quale si spiega come nella stessa Genesi Dio manifesti il proprio potere creatore nominando coloro che vengono creati: «potere che Dio trasmise ad Adamo e del quale privò Eva. A noi donne di tutte le culture è sinora mancato questo potere, privandoci della facoltà di nominarci e nominare persino le nostre creature, poiché alla nascita viene loro dato il nome del padre».

Rinominare il mondo è pertanto il primo compito della decostruzione femminista, che si concentra su parole quali: patriarcado (patriarcato), patrìarcal (patriarcale), perversidad polimorfa (perversità polimorfa), heterosexualidad obligatoria (eterosessualità obbligatoria). È allo stesso tempo necessario creare parole nuove come: homofobia (omofobia), soridad (torellanza), ecc. Questo lavoro di decostruzione non si esaurisce in un cambiamento semantico, ma, come postula la filosofia cui facciamo riferimento, stabilisce l’istituzionalizzazione sociale del nuovo significante con un nuovo significato, che si ripercuote – questione di somma rilevanza – in campo giuridico.

La nuova cultura basata su questa filosofìa è una cultura totalitaria, perché, a partire dallo strutturalismo, individuo e realtà si dissolvono nella totalità della struttura, scompaiono nella totalità del sistema simbolico costituito in primo luogo dal linguaggio. Come sostiene Lévi-Strauss: «Ogni cultura può essere considerata come un insieme di sistemi simbolici, in cui al primo posto si collocano il linguaggio, le regole matrimoniali, i rapporti economici, l’arte, la scienza, la religione».

Non esiste dunque alcuna realtà al di fuori del linguaggio, il quale non esprime la realtà, ma la crea. Come si vede, non si tratta di una questione meramente letteraria: o esiste una realtà che il linguaggio si limita a designare o è il linguaggio a creare la realtà, che muta al mutare della parola. È questa la continua tentazione del potere rivoluzionario. Per questo sono sempre prima le parole a cambiare; semplicemente perché aveva ragione Humpty Dumpty quando spiegava ad Alice che la questione non consiste nel poter fare in modo che le parole significhino cose diverse: «La questione è chi è che comanda. Ecco tutto».

l caso dei sessismo linguistico

In Spagna l’Instituto de la Mujer si è impegnato in prima linea nel compito rivoluzionario di porre fine al “sessismo linguistico”, con l’idea di compiere una revisione del linguaggio. È stata così costituita una Commissione sulla lingua, integrata a un gruppo di specialiste nei vari settori del sapere, che impedisca «il misconoscimento della condizione sessuale dell’umanità e dell’esistenza delle donne in quanto soggetti liberi e autonomi con una propria voce».

Secondo Maria Angeles Calerò Fernàndez, portavoce del femminismo radicale all’interno del Partito Socialista, la società spagnola ha una lunga tradizione patriarcale che presenta addirittura componenti misogine. Motivo per cui nasce la necessità di rivedere il diverso modo di parlare di uomini e donne, per recuperare il ruolo proprio della donna nell’espressione linguistica.

«Ciò che in origine designava il sesso (come realtà naturale) finisce per indicare uno status (cioè una realtà culturale). La donna, a causa dell’interpretazione e della funzione che la comunità attribuisce al genere, risulta relegata in secondo piano, come nascosta dalla lingua»: è da questo punto di vista che le femministe accusano il linguaggio di sessismo, perché il castigliano causerebbe un conflitto attribuendo un valore generico al solo genere maschile che acquisisce valore universale.

È dunque necessario stabilire una chiara distinzione nella designazione linguistica di entrambi i generi, separando il riferimento a ciascuno e designando con distinti generi grammaticali persone, istituzioni e cose. L’applicazione di questo singolare punto di vista si è acutizzata a partire dal 2003. Questa maniera di esprimersi è diventata addirittura il paradigma del “politicamente corretto”, tanto che alla radio o in televisione ci si imbatte spesso nella fastidiosa cantilena: «le cittadine e i cittadini», ecc.

Per realizzare questo erudito modo di esprimersi non sessista, l’Instituto de la Mujer ha elaborato alcuni manuali che formano la collana En femenino y en masculino. Vi si consiglia l’uso di nomi generici o astratti, come il termine “essere umano” al posto di “uomo” o “tutela” anziché “tutore”. Si possono adottare altre tecniche, come la sostituzione dell’espressione «nella preistoria l’uomo viveva nelle caverne» con «nella preistoria si viveva nelle caverne». In ogni caso, per non sbagliare bisogna sempre ripetere le forme al femminile e al maschile, perché così le donne non sono dimenticate né discriminate.

In tal senso ricordiamo anche l’ossessiva attenzione rivolta ai titoli accademici, che ha portato al decreto del 22 marzo 1995 con cui il Ministero dell’Educazione e della Scienza ha adeguato la denominazione dei titoli accademici ufficiali (distinguendo maschile e femminile). Per quanto riguarda le formule ufficiali è stato pubblicato un manuale per l’uso corretto non sessista, En dos palabra (In due parole).

La strategia rimarrebbe tuttavia incompleta se la lotta contro il sessismo linguistico non avesse portato a una legge. L’articolo 14 comma 11 della legge organica 3/2007 sull’effettiva uguaglianza di uomini e donne stabilisce i criteri che devono presiedere l’attuazione dei poteri pubblici: «L’adozione di un linguaggio non sessista nell’ambito amministrativo e la promozione dello stesso nella totalità dei rapporti sociali, culturali e artistici».

Le parole e le cose come devono essere

Credo che tutto ciò derivi dal fatto che viviamo in un mondo che si è dimenticato del realismo, di quella caratterizzazione della natura umana che Aristotele definisce come un essere che parla e che grazie alla lingua descrive la realtà e pertanto la verità. Tutto il pensiero progressista (per definirlo in un modo per loro accettabile) realizza una radicale scissione tra natura e cultura; le relazioni paterno-filiali, ad esempio, non sono naturali, ma un prodotto della cultura o, detto altrimenti, una creazione artificiale degli esseri umani; anche il sesso è un prodotto culturale e non esiste una differenza sessuale di natura.

Tutto ciò nasce da una visione “moderna” della natura e della realtà, diversa dalla visione realista propria del mondo classico (ed effettivamente dalla metafisica che Derrida tende a distruggere).

Si tratta di una visione statica delle cose e dei fatti, che prescinde da una visione intelligibile e dinamica, cioè quella che permette di contemplare le cose non solo come sono, ma anche come devono essere e come devono comportarsi. È ben diverso per esempio guardare una coppia così come appare in un momento dato, che casualmente coincide con il momento previo alla separazione, dal guardare alla coppia così come deve essere: il luogo dell’amore, la relazione tra un uomo e una donna fatti per amarsi.

Nella prima visione, l’unica cosa che conta è quel che si è dato, l’effetto, il fatto, ciò che è stato realizzato, come se tutto accadesse per una forza meccanica esterna che determina un risultato. Una visione alla Machiavelli, le cui analisi politiche sul comportamento del principe considerano solamente l’efficacia, il risultato dei fatti, a prescindere dal giudizio etico che merita il mezzo impiegato per ottenerlo. Per questo «il principe era saggio e prudente perché era temuto dai sudditi e dai nemici, data la sua astuzia e la sua crudeltà».

Ma c’è un altro modo di vedere le cose e cioè considerare che esse hanno una natura propria, che coincide con ciò in vista di cui sono state pensate, ciò per cui servono. Come diceva Aristotele: ciò che la cosa è. Perché si possono vedere le cose in modo dinamico, pensando che l’essere racchiude in sé per natura propria il dover essere, cioè il fine per cui è stato creato: ogni cosa tende al suo fine per una propria dinamica interna. Così la ghianda sarà quercia e l’embrione essere umano.

La perfezione di ogni cosa consiste nello sviluppare la propria potenzialità interna. Se l’uomo è sociale per natura, questo significa che la vita in società realizza la sua natura. Natura e cultura non possono essere, pertanto, contrapposte, giacché proprio la cultura produce il compimento della natura umana. Come pensavano gli antichi greci, se la natura di ogni cosa consegue alla sua generazione, allora la natura dell’uomo non accade se non dentro e attraverso la città, la politica e la cultura.

In fondo, l’esclusione della natura ha un’intenzione politica, ideologica, come mostra chiaramente la scrittrice dell’ideologia di genere più importante in Spagna, premio nazionale di saggistica 2006, Celia Amorós. Spiegando il significato dello slogan femminista sessantottino «ciò che è personale è politico», slogan che mira a snaturare il privato con il proposito di eliminare il concetto di natura umana, la Amorós afferma: «Se ciò che è personale è politico, l’ambito del privato non può autoregolarsi verso un compimento proprio fatto di ragione, sentimenti ed emozioni personali. Si tratta di sciogliere questo nesso, evidenziando che in esso si agiscono relazioni di potere e di violenza. Per questo esso deve essere sottoposto al dibattito pubblico e, quando si rivelasse necessario, all’intervento dei poteri pubblici».

Parole che ben esprimono la concezione statalista e totalitaria a fondamento dell’ideologia: quando l’uomo si sottomette al Grande Fratello idolatrando lo Stato e rifiutando la natura umana, il risultato è un antiumanesimo che porta sia rovina economica sia infelicità. E tuttavia l’ideologia di genere mal s’intona con la filosofia di Derrida.

In una sua analisi relativa a femminismo e decostruzione, Richard Rorty spiega che le femministe utilizzano volentieri questo impianto filosofico perché «il maschilismo sembra così profondamente incorporato in tutto quel che si fa e si dice nella società contemporanea, che si ha l’impressione che potrebbe scuoterlo soltanto un enorme cambiamento culturale.

Molte femministe ritengono che solo affrontando questa grave piaga intellettuale (qualcosa di paragonabile al logocentrismo) si potrà arrivare a interpretarla come intrinsecamente maschile, facendo emergere che il maschilismo esiste a causa di questa piaga: così maschilismo e falso dualismo spariranno insieme».

Ma in realtà il femminismo dell’uguaglianza, a partire dal quale nasce l’ideologia di genere, non è compatibile con Derrida e la postmodernità, perché la decostruzione implica l’idea del recupero dell'”occulto” dalla falsità e dalla contaminazione del linguaggio logocentrico (proprio della metafisica), considerando l'”altro” come “differenza” e dando dunque valore alla differenza.

Si addice maggiormente a questa accezione fìlosofica il femminismo della differenza, rappresentato in primis dalla Libreria delle Donne di Milano. Non dimentichiamo che l’ideologia di genere nasce dalla filosofia di Simone de Beauvoir, la cui opera Il secondo sesso basa l’inferiorità e la subordinazione storica della donna sulla sua passività e immanenza, derivata dalla condizione corporea che la maternità implica.

La filosofìa che ispira l’ideologia di genere mira all’attacco della maternità e di qualunque differenza tra i sessi, confondendo alla fine uguaglianza e identità. Una delle posizioni più interessanti è quella della femminista della differenza italiana Luisa Muraro con la sua concezione del mondo femminile in quello che chiama L’ordine simbolico della madre.

Per spiegare in cosa consista, l’autrice parte dalla differenza tra metafora e simbolo: le parole “pane” e “droga” sono usate comunemente nel linguaggio in maniera metaforica, ma l’effetto è diverso se sono impiegate da una persona qualsiasi oppure da un affamato o da un drogato. La madre è in tal senso simbolo della donna, da cui deriva un ordine simbolico: «Io affermo che saper amare la madre “fa” ordine simbolico».

Negare che esista un ordine naturale, una natura umana, suscettibile di essere conosciuta dalla ragione della donna e dell’uomo, ma che sta al di fuori, oltre il linguaggio, significa negare la realtà. Come la famosa frase del romanzo di Eco Il nome della rosa, che riflette perfettamente il nominalismo: «Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemos». Io preferisco continuare a pensare come Giulietta sul balcone dei Capuleti: «Ciò che noi chiamiamo con il nome di rosa, anche se lo chiamassimo con un altro nome, avrebbe pur sempre lo stesso dolce profumo».

(Traduzione di Lucia Oteri)

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(*) Jesùs Trillo-Figueroa Martinez-Conde è nato a Cartagena nel 1955. Attualmente esercita la professione di avvocato a Madrid e fa parte dell’ordine degli Avvocati di Stato. E’ autore di numerosi articoli, saggi e libri che si occupano non solo di questioni giuridiche, ma anche di arte, cultura, linguaggio e pensiero politico, tra cui: Kandisky, el origen de la abstraccìon (2005); El Fundamentalismo Islamico (1992); Una Revoluciòn Silenciosa: La Politica Sexual del Feminismo Socialista (2007); Una Tentacìon Totalitaria: La Educacìon para Ciudadanìa (2008)