Dio a modo mio. Un’inchiesta sulla religiosità giovanile

giovaniLa Civiltà Cattolica n.3985

9 luglio 2016

GianPaolo Salvini S.I.

Sulla religiosità giovanile sono stati già effettuati e pubblicati innumerevoli ricerche e studi, dei quali ha trattato più volte anche la nostra rivista. Ne presentiamo una nuova e recente in quanto condotta con metodologia diversa e utile per approfondire alcuni aspetti differenti di questa tematica (1).

Il mondo giovanile vive rapide e profonde trasformazioni e non si lascia adeguatamente esplorare con i consueti strumenti di indagine. La difficoltà aumenta se si vuole approfondire il rapporto dei giovani con la fede, entrando in una sfera molto personale e intima.

Questo nuovo lavoro si basa su 150 interviste a tutto campo sull’esperienza di fede dei giovani. Un terzo di esse, cioè 50, sono state riprese in un secondo tempo, per una nuova intervista destinata ad approfondire meglio il percorso di coloro che sembrano più vicini alla Chiesa. Il campione prescelto riguarda 150 giovani di tutta l’Italia, divisi tra grandi e piccoli centri, tutti compresi in due fasce di età ben precise: 76 (metà uomini e metà donne) tra i 19-21 anni, cioè nell’età in cui si è determinato per quasi tutti un certo distacco dalla pratica religiosa e dalla Chiesa, e circa altrettanti (74) compresi tra i 27-29 anni, cioè in un’età nella quale un certo percorso religioso si è generalmente definito o in forma di riavvicinamento o in forma di distacco dalla fede. Tutti gli intervistati erano stati scelti fra battezzati, in modo che fosse più omogeneo se non il percorso, almeno il punto di partenza religioso nelle rispettive famiglie di origine.

Il lavoro non offre statistiche, già presenti del resto in molte altre inchieste (2), anche perché, più che a dare una dimensione quantitativa, esso mira ad approfondire il percorso dei giovani, e le sue motivazioni, in materia di fede.

Le uniche statistiche che qui riprendiamo sono quelle fornite (e desunte da altri studi) da Paola Bignardi nelle sue conclusioni del volume. Secondo l’Istituto Toniolo, nel 2013 i giovani che si proclamano credenti nella religione cattolica sono il 55,9%, mentre si dichiara ateo il 15,2% dei giovani e agnostico il 7,8%. Il 10% afferma di credere in un’entità superiore, ma senza fare riferimento a una divinità specifica. Solo il 15,4% dei giovani dice di partecipare a un rito religioso ogni settimana.

Anche tra coloro che si dichiarano cattolici soltanto il 24,1% è un praticante settimanale. Inquietante è il fatto che, l’anno successivo, la percentuale di coloro che si dichiarano cattolici, è diminuita di 3,4 punti percentuali, scendendo al 52,5%. Anche altri dati confermano questo continuo calo dei giovani che vanno a Messa la domenica. L’atteggiamento nei confronti della Chiesa rimane critico. Il voto medio dato alla Chiesa su una scala da 1 a 10 è di 4,0 (4,2 per gli uomini, 3,8 per le donne) (p. 173).

Poiché il commento dei risultati delle interviste è stato affidato a vari specialisti che hanno redatto diversi saggi, ciò ha comportato inevitabilmente ripetizioni e discontinuità. Anche per questo ci limitiamo a indicare alcuni degli aspetti a nostro avviso più interessanti.

I percorsi dei giovani

Colpisce anzitutto il fatto che i giovani in maggioranza vivono la loro fede in modo molto problematico, più con riserve e distacco che con interesse e adesione. Valutano la loro storia religiosa con molto disincanto e sono assai critici nel relazionarsi con la Chiesa come istituzione. Le interviste, prolungate e attente, impediscono delle conclusioni affrettate. «Non è un caso che, nel travagliato rapporto con la Chiesa come istituzione, emerga con forza la figura di Papa Francesco, a cui i giovani guardano come modello di riferimento per una fede autentica, semplice ed essenziale e come figura in grado di promuovere un cambiamento radicale nel linguaggio e nella vita della Chiesa» (Presentazione, p. IX). Verrebbe da dire che i giovani hanno con la fede un rapporto che la fa considerare un aspetto marginale o comunque non in grado di incidere sulle loro scelte e sugli orientamenti della loro vita.

Ma questo non significa che i giovani non abbiano più fede. «È una generazione alle prese con una nuova forma di ateismo, non più ideologico, ma esistenziale» (p. XI), eppure la fede appare come una dimensione tutt’altro che estranea. I giovani non si ritrovano più con la fede dell’infanzia, che però non è cresciuta con loro. Occorre capire come mai la crescita non sia stata accompagnata da quella della fede con altrettanto impegno, in modo proporzionato alle varie età. E mancata l’arte dell’accompagnamento. Ciò di cui, nel loro racconto, i giovani lamentano la carenza è la vicinanza di testimoni, cioè di persone di qualità che li avessero accompagnati nel cammino e nella crescita. Sono le persone incontrate che fanno la differenza, purché abbiano rappresentato modelli cui ispirarsi.

Oltre che figure di riferimento credibili, sembra mancare ai giovani la dimensione comunitaria della fede. In parte questo accade perché ci si adegua a un sentire ampiamente veicolato dalla pubblicistica e dalla cultura mediale in cui essi sono immersi. L’impressione che si ricava è che essi non percepiscano più la Chiesa come un ambiente accogliente e interessante. «Non sono i giovani che si sono allontanati dalla Chiesa, ma è la Chiesa che non ha del tutto mantenuto fede alle promesse, non riuscendo di fatto a rimanere al passo con i cambiamenti e con le nuove sfide che rapidamente si sono susseguite» (p. XV).

I giovani riflettono indubbiamente la cultura individualistica del nostro tempo, e questo vale anche per la fede, che diventa un fatto soggettivo e in parte evanescente. Ma proprio per questo si evidenzia la domanda di ancoraggi forti e di riferimenti significativi che rendano più solida l’esperienza religiosa. Probabilmente è necessario ricreare un reticolato di comunità nelle quali ciascuno si ponga al servizio degli altri, ritrovando nelle comunità parrocchiali, «in quanto luogo primario della convergenza eucaristica», la realtà della sintesi.

Una prima osservazione è che molti giovani sembrano essere dei «cattolici anonimi», che nutrono cioè una fede che vuole restare entro la tradizione cristiana solo per quel tanto che serve, ma senza assumere obblighi o impegni. Però, in momenti di crisi, essi riattivano un contatto con la tradizione cristiana, rimasta finora latente. Ma ciò avviene secondo modalità decise dall’individuo. I contenuti, come pure le pratiche, i valori e le regole, vengono decisi dal singolo, che attinge alla tradizione prendendo ciò che gli è utile, lasciando ciò che sente lontano o estraneo. «Ognuno si costruisce in questo modo la propria fede e il proprio cattolicesimo, dentro una tradizione di fede ufficiale che gli serve come contenitore, ma con la quale non si identifica» (Bressan, p. 4). Questa è una caratteristica che appare molto diffusa nelle interviste.

La fede non segue più un processo lineare secondo l’età e lo sviluppo della persona, ma assume il modello di una curva a «U», che conosce un momento di forte socializzazione nell’infanzia, per vivere poi momenti di latenza alternati a momenti di ritorno, fino ad esiti possibili di maturazione. Ma il modello lineare, oggi in crisi, è proprio quello su cui la Chiesa ha investito molte energie e ha sviluppato i suoi percorsi pedagogici.

A un momento di forte esperienza religiosa pare segua sempre — secondo i giovani intervistati — un momento di distacco critico e di rimessa in discussione. Questo fa parte di un cammino di affezione alla propria identità, che chiede di decostruire e ricostruire tutto ciò che ha appreso dalla tradizione. Lo esprime bene una ragazza, che dichiara: «Io mi sento di vivere la mia fede come piace a me, nel senso che io sono assolutamente certa che non sia necessario andare in chiesa tutte le domeniche per credere, è necessario il pensiero di un minuto e mezzo nella giornata, mi basta il pensiero. Mi capita di andare in chiesa a delle ore in cui non c’è nessuno» (p. 6).

Cultura digitale e fede nomade

Gli insegnamenti della fede legati per lo più al catechismo dell’i­niziazione appaiono astratti e poco capaci di comunicare un significato. Più affascinanti e attuali si rivelano alcuni influssi di filosofie orientali, e determinante è l’influsso della cultura digitale. Secondo Luca Bressan: «In tutti i segni di frattura […] si può scorgere l’influsso che la cultura digitale sta esercitando sull’esperienza di fede, e di conseguenza sullo strutturarsi della figura ecclesiale contemporanea. Una fede che si fa sempre più individuale e solitaria, tipica del pellegrino; e che vive momenti comunitari spesso attraverso la forma dell’identità carismatica» (p. 7).

I giovani digitali sono nomadi, ma in modo nuovo: abitano più spazi sociali nel medesimo istante, e saltano dall’uno all’altro di essi a una velocità sorprendente. Possono contemporaneamente chattare, rispondere al cellulare, mandare un sms e seguire un programma televisivo. Ciò li rende prigionieri del presente, che assume il carattere della perennità, insieme a quello della provvisorietà e della mutevolezza. Questo contamina anche l’idea di fede dei giovani: essi si sono raccontati come persone in ricerca di più luoghi in cui vivere in contemporanea la propria esperienza ecclesiale. «Riescono a mantenere uno spettro così ampio di itineranza ecclesiale per nascondersi le fatiche a decidersi per una sola di queste esperienze, che motivi la loro vita» (p. 8).

Ma i giovani non hanno perso la capacità di lasciarsi attrarre e trasfigurare dalla fede cristiana. La fede è un dono — afferma una giovane — e «ti piaccia o no, una volta che ti rendi conto che la fede è entrata nella tua vita, non puoi decidere che da domani non avrai più fede» (p. 9).

Le fratture create non sono l’ultima parola. Lasciano spazi alla possibilità di declinare la fede e l’esperienza cristiana in nuove strade o percorsi, anche dentro la cultura che il mondo digitale sta trasformando. Un primo percorso è dato dal bisogno di senso e di una Storia (con la maiuscola) entro la quale riconoscersi. Un secondo percorso è dato dal bisogno di trasfigurazione del presente che i giovani esprimono in modo forte nelle interviste.

Le frontiere aperte dal digitale sono affascinanti, perché esso ha saputo creare uno spazio che consente di amplificare le dinamiche simboliche tipiche del processo di crescita legato all’adolescenza. Il cristianesimo ha tutte le carte in regola per abitare questo spazio e proporsi come strumento che apre all’alterità e alla trascendenza. Il terzo percorso è quello della sfida politica. «Senza storia, centrato sull’individuo, il mondo dei giovani è apolitico per definizione» (p. 11).

Nel mondo dei giovani di oggi problemi come la giustizia sociale, la lotta alla povertà, la salvaguardia del creato sono argomenti con pochi vocaboli e pochi attori per sostenerli. Ma l’esperienza cristiana, che responsabilizza le emozioni, consente che categorie come quelle della carità trasformino la percezione dell’altro e della sua presenza nella propria vita. Quest’ultima diventa un imperativo impellente, se non si vuole che la dimensione sociale si dissolva in una esplosione di tanti mondi isolati.

La fede e la ragione ci danno strumenti non soltanto per abitare la storia, ma anche per orientarla. La sfida quindi non è tanto come confrontarsi con tale trasformazione, quanto come abitarla, in modo che i giovani di oggi possano individuare i luoghi e le operazioni che portano a costruire la propria identità cristiana.

I millennials, cioè i giovani nati tra gli anni Ottanta e i primi anni del Duemila in Occidente, sono passati dal modello culturale nel quale sono stati socializzati a un modello emergente, de-istituzionalizzato, che si sta ora diffondendo.

Nella nostra cultura, il corso di vita di una persona è articolato convenzionalmente in età, cioè in fasi temporali di diversa ampiezza, contrassegnate da esperienze culturali e sociali più o meno strutturate e da riti di passaggio: ad esempio, cicli scolastici, ingresso nel mondo del lavoro, matrimonio ecc. A ciascuno di essi in genere corrispondono anche diverse esperienze di fede, o determinate pratiche cristiane.

Tra vita e fede esiste un rapporto molto stretto, ed esse si influenzano a vicenda. La traiettoria inizia in modo formale e diretta dall’esterno, ma deve giungere poi a essere informale e autodiretta. Si inizia dal battesimo, che tutti gli intervistati hanno ricevuto (era uno dei criteri di scelta dei giovani da intervistare) nel primo anno di vita, per iniziativa dei genitori, e che nessuno ha messo in discussione. Nelle prime fasi, determinanti sono state in genere le mamme e le nonne, ricordate con affetto.

Ma non si può dire lo stesso dell’iniziazione istituzionale, vissuta come imposta dall’alto, e quindi povera di senso. La reiterata percezione dell’imposizione, unita alla scarsa comprensione del linguaggio, determina un forte «calo di potenza» nei percorsi di fede dei giovani. Nella maggioranza dei casi, terminata la scuola secondaria di primo grado e ricevuta «a fatica» la cresima, il percorso di fede dei giovani subisce un arresto: fine della catechesi, della frequentazione dell’oratorio e ricerca di nuovi gruppi informali, «non protetti». Si tratta però di un allontanamento fisiologico.

Tra i quattordici e i diciotto anni si acquisiscono maggiori gradi di libertà in famiglia e si frequentano assiduamente gli amici. «In questa fase la fede non è centrale, non è una preoccupazione quotidiana, ma rimane latente, sottopelle. Non c’è un rifiuto esplicito, ma solo un generale disinteresse» (Pasqualini, p. 19). Per alcuni giovani questo distacco è meno evidente, perché il rapporto con la fede viene mantenuto con l’oratorio, gli scout, i vari movimenti, l’Azione Cattolica ecc. Ma essi sono chiaramente una minoranza.

La giovinezza è per tutti l’età dell’apertura al mondo, del pro­tagonismo, dell’impegno per la conquista dell’autonomia in senso pieno. Sono gli anni in cui si fanno nuove esperienze importanti, tra le quali l’eventuale incontro del partner, che prima affianca e poi sostituisce la compagnia degli amici e diventa totalizzante. Diminuiscono le pressioni familiari sulle scelte dei figli, tra cui quella di andare a Messa la domenica (motivo di liti in famiglia negli anni precedenti). La fede rimane sullo sfondo, «ma c’è, di questo ne siamo e ne sono sicuri i nostri intervistati. Per cui, in linea generale, durante la giovinezza il percorso di fede da etero-diretto diventa auto-diretto, da formale diventa informale, da imposto diventa consapevole e personale» (ivi).

Secondo Cristina Pasqualini, i percorsi di fede, in particolare per quanto riguarda il «distacco» dei giovani, sono variegati e si potrebbero ridurre a cinque tipi principali: 1) il primo è quello fisiologico, che non comporta vere rotture e deriva da fattori molto diversi. I giovani che sperimentano uno o più distacchi fisiologici sono la maggioranza e si autodefiniscono «cattolici in ricerca», in quanto ricercano, o hanno ricercato in passato, un riavvicinamento alla fede. «L’impegno e la pratica, così come la relazione con Dio e con la Chiesa, sono definiti da loro stessi “precari”, “a fisarmonica”» (p. 21).

2) Il secondo distacco è quello «traumatico», che produce una rottura definitiva o comunque difficilmente recuperabile dai giovani. All’origine stanno eventi precisi: la morte, ritenuta ingiusta, di una persona cara, esperienze negative vissute in oratorio o con il prete di riferimento e così via. I giovani si definiscono «atei/non credenti». Il rapporto con Dio e con la Chiesa è inesistente.

3) Il terzo distacco è di natura intellettuale, ma fra gli intervistati non è molto diffuso. Si tratta di giovani curiosi, pieni di domande e con poche risposte, che interpellano fonti e religioni diverse. Essi si definiscono «critici in ricerca/agnostici», ma non escludono un possibile futuro riavvicinamento.

4) Il quarto distacco è quello «non restitutivo», ed è poco diffuso. E causato in genere dalla famiglia di origine, che ha impartito un’educazione cristiana molto blanda, per cui i figli fin da piccoli hanno potuto scegliere, ad esempio, se andare o meno al catechismo, se frequentare o meno la chiesa. «Il problema vero è l’eccessiva libertà concessa ai figli in età prematura» (p. 23). Ci sono storie nelle quali si è rotto il patto generazionale. Si definiscono «atei/non credenti» e sono lontani e disinteressati a tutto ciò che riguarda la fede. Difficilmente ritrovano un cammino di fede.

5) Infine ci sono quelli che non hanno avuto veri e propri distacchi. Sono giovani cresciuti dentro circuiti «fedeli alla causa», iniziati al cristianesimo dai genitori e che hanno saputo coltivare autonomamente la propria fede, rimanendo sempre ancorati ad essa. Sono però delle mosche bianche. Ostinati nella loro fede, ma non aiutati dagli amici, se non addirittura presi di mira dai compagni che frequentano. Sono «cattolici convinti», ma rappresentano delle eccezioni.

I riavvicinamenti, che rafforzano questa adesione intensa alla fede, possono essere occasionati dalle cause più diverse: le letture fatte, l’incontro con una figura carismatica, spesso un prete, un partner molto praticante, l’esperienza del collegio ecc. Soprattutto contano le figure di riferimento che si incontrano.

La fede e la vita

Dalle interviste appare chiaro che non viviamo più in un’Italia cattolica, nonostante il consenso ampio verso la Chiesa da parte dei giovani, grazie anche alla presenza di Papa Francesco. Il processo di secolarizzazione, per ora inarrestabile, mette in crisi i modelli pastorali che eravamo abituati a presentare. La fede non sembra più svolgere un ruolo decisivo nella propria esistenza, né viene percepita come un dato strutturale ben radicato nella cultura del nostro Paese. Si deve perciò constatare l’inefficacia sia della formazione catechistica abitualmente impartita nelle parrocchie, sia dell’educazione ricevuta in casa, quando i genitori sono credenti.

Si percepiscono, dietro le risposte dei giovani, concetti non solo riduttivi, ma distorti della fede. Non pochi confondono la fede con l’etica che il cristianesimo propone. Molti perciò notano, anche in base all’esperienza di molte loro conoscenze: «Non c’è bisogno di essere credenti per comportarsi bene». Altri fanno coincidere la fede con i sentimenti e le emozioni. Una volta si era più riservati; oggi si è più propensi a esibire la propria emotività, come fosse essa ad esprimere la qualità della vita. La scoperta della dimensione emotiva e affettiva dei sentimenti non è negativa, perché colora la vita e contribuisce ad attenuare l’eccessiva razionalizzazione della fede diffusa in passato. Ma ci si deve giustamente allarmare se ci si interessa più delle emozioni che della fedeltà durevole, oggi molto rara.

Importante è recuperare le dimensioni della fede, finora spesso oscurate dall’eccessiva accentuazione della fede come assenso intellettuale. Ma la fede è anzitutto il «frutto di una relazione» e scaturisce da «un incontro personale con Cristo, che investe tutte le dimensioni del nostro vivere: l’intelligenza e il cuore, l’amore e i sentimenti, la volontà e la libertà, la corporeità e le emozioni» (Montanari, p. 47). Anche Papa Francesco ripete spesso che la fede «non è l’incontro con un’idea, ma con una Persona, con Gesù Cristo». L’attenuarsi del senso comunitario fa sì che il rapporto con Dio venga vissuto molto individualisticamente, «anche nella mia stanza o per strada», secondo la cultura oggi prevalente, una mentalità accompagnata dall’ampia sfiducia nelle istituzioni.

L’atto di fede è un gesto squisitamente personale, ma difficilmente esso raggiunge una sua pienezza se non avviene nella comunità, e in ultima analisi nel corpo ecclesiale. Oggi questo è molto meno avvertito, ma se mai, come abbiamo detto, si tratta di inventare nuove aggregazioni, meno anonime e impersonali. Non vivendo più in un ambiente ampiamente religioso, Romano Guardini già nel 1950 ammoniva che «quando la pienezza religiosa si riduce, la fede diviene più parca, ma anche più pura e più grave» (citato a p. 50).

Osservazioni conclusive

Appare evidente che il rapporto dei giovani con il mondo religioso, e in particolare con quello cattolico istituzionale, è problematico e non scontato. In qualche modo, i giovani di oggi si trovano a metà strada tra un passato che non c’è più e un futuro che non c’è ancora. Essi vivono il travaglio di chi vede venire meno un modello percepito come inadeguato e perciò respinto, e vorrebbe trovare un modo nuovo di vivere il rapporto con Dio, che comporti la ricerca di un’autenticità di vita, la strada della felicità e della speranza.

Si tratta di un percorso difficile e pieno di rischi, anche perché spesso vissuto in solitudine o in compagnia di adulti che vorrebbero continuare a essere i maestri per un tempo che non esiste più. In ogni caso, il legame con la comunità è troppo debole perché possa inserirli in modo vivo nella tradizione. «Nascono da qui smarrimenti, distanze e persino sensi di colpa: quelli di chi, convinto che la fede coincida con il modello da cui ha preso le distanze, finisce per scambiare il proprio travaglio e la propria ricerca con l’incredulità» (p. 174).

Tra gli intervistati, sono molto pochi quelli che hanno un ricordo gioioso della loro iniziazione cristiana. A questo settore conviene dedicare maggiori attenzioni e dare prova in esso di ampia creatività.

Benché tutti gli intervistati siano stati scelti, ci pare, fra chi è o è stato cristiano, sono pochi quelli che alla domanda: «Che cosa significa per te essere cristiano?», citino Gesù Cristo o il Vangelo.

La quasi totalità dei giovani manifesta un atteggiamento positivo nei confronti dell’esperienza di fede. Anche chi dichiara di non credere afferma che credere dà speranza, consolazione, aiuto, amore. Dallo studio appare un mondo giovanile che nasconde tesori di interiorità e un’inedita attesa di Dio. Ma, per educare questo mondo, occorre passare da un modello che intende proporre una serie di impegni a uno impostato sul dialogo, che è scambio, personalizzazione dell’annuncio e accompagnamento. In alcuni movimenti sembra che ciò sia avvenuto, ma essi appaiono «giardini» isolati dal mondo centrale della Chiesa: il volume non ne fa cenno.

Il futuro della fede dei giovani dipende dal passato e dal presente, cioè dal modo con cui gli adulti vivono la loro esperienza di fede e da come le comunità interpretano il loro compito di evangelizzazione. Giovanni XXIII, all’inizio del Concilio, dichiarava che «lo scopo del Concilio non è la discussione di questo o quel tema della dottrina […], ma è necessario che questa dottrina venga presentata in modo tale che risponda alle esigenze del nostro tempo» (3). Quella qui indicata è l’unica strada che consenta di intercettare i percorsi di fede dei giovani, tortuosi e non lineari, ma aperti a una ricerca di autenticità, che possono diventare laboratorio di ricerca per tutta la Chiesa e per l’evangelizzazione.

I giovani non conoscono più l’alternativa Cristo sì, Chiesa no, che era di moda alcuni decenni fa. Non sono più in fase di opposizione, ma di distacco dalla Chiesa. Vanno ricreate le relazioni all’interno della comunità cristiana, pensando, come suggerisce Paola Bignardi, a un’educazione cristiana che avvenga in età e in luoghi diversi dagli attuali e che sappia partire dall’ascolto delle domande dei giovani.

Note

1) Cfr Dio a modo mio. Giovani e fede in Italia, a cura di R. Bichi – P. Bignar-di, Milano, Vita e Pensiero, 2016, 190. A questo volume si riferiscono le pagine citate nel testo, precedute spesso dal nome dell’autore del saggio citato

2) Cfr, ad esempio, i Rapporti sui giovani curati dall’Istituto Giuseppe Toniolo di Studi Superiori, che dal 2013 pubblica annualmente i risultati delle sue rilevazioni, e quello dell’Istituto Iard di Milano sul tema I giovani di fronte ai futuro e alla vita, con e senza fede.

3) Giovanni XXIII, s., Discorso di apertura del Concilio Gaudet Mater Ecclesia, n. 4.