Non è colpa della chimica

Seveso_diossinaIl Sole 24 Ore 3 luglio 2016

A quarant’anni da Seveso

di Gianni Fochi

Domenica 10 luglio si parlerà forse solo della finale d’Euro 2016. E verrà persa un’occasione di riflettere. Quarant’anni fa, sabato 10 luglio 1976, qualcosa ha cambiato il modo di pensare comune. Ore 12,37, Meda, una ventina di chilometri a nord del centro di Milano. Dall’impianto chimico dell’Icmesa vengono eruttate sul vicino territorio di Seveso tonnellate di sostanze nocive. Tra di esse c’è qualche chilo d’un composto che nessuno scorderà più: la diossina.

In realtà l’articolo determinativo è improprio, perché le diossine sono tante. Questa è una fra le più temibili, la 2,3,7,8-tetracloro-dibenzo-para-diossina. Che essa ci sia nella nube tossica l’azienda non lo dice. A svelare il segreto saranno le analisi chimiche, pronte però fra quattro giorni: un ritardo pesante per i provvedimenti sanitari da prendere. E qui s’apre una questione non liquidabile in breve: le conseguenze del disastro.

Di sofferenze e disagi gravi ce ne saranno certamente molti, a molte persone, per molto tempo. Uno degli effetti più immediati, il terrore, s’insinua subito fra gli abitanti della zona. È ancora vicino il tempo dei Caroselli in cui un sorridente Gino Bramieri invitava le massaie a non farsi mancare imbuti e bacinelle, pratici, infrangibili, economici, offerti dall’industria chimica: «Ma, signora, guardi ben/ che sia fatto di Moplèn!».

Fino al 10 luglio 1976, gl’italiani hanno ammirato la chimica nel solco d’un trionfalismo forse eccessivo, come in tutti i casi in cui si vuole pensare che il progresso tecnico possa risolvere ogni problema dell’umanità. Quel 10 luglio il trionfalismo cede bruscamente il passo a una diffidenza — quella sì! — sicuramente eccessiva: da genio della lampada, la chimica diviene nell’immaginazione popolare il genio del male.

Non sottovalutiamo i danni reali dell’incidente: nei quattro decenni trascorsi da allora a oggi l’industria ha sbagliato a evitare una discussione aperta, a non suscitarla anzi essa stessa. Potrà esserci ora finalmente, a quarant’anni di distanza, un dibattito pubblico alimentato anche dal tipo di competenze che l’industria possiede più di qualunque altro?

Nell’attesa, cerchiamo di sgombrare il campo da qualche equivoco molto radicato in tante teste. Oltre al terrore ci furono anche effetti pratici: l’evacuazione del territorio, che restò a lungo inagibile; le attività professionali e artigianali che vennero sospese e in vari casi non ripresero più; la cloràcne, cioè la pelle irritata da composti clorurati nocivi. Altri effetti sanitari? Non s’è mai smesso di discutere se nel tempo ci siano state malattie riconducibili alla contaminazione, e spesso si sente parlare di tumori causati dalla diossina.

Uno studio epidemiologico, coordinato nel 2009 da Angela Cecilia Pesatori dell’università statale di Milano, ha fornito dati interessanti, pur se da prender con le molle, per la scarsità dei casi esaminabili che riduce il valore statistico. Leucemie, altri tumori del sangue e cancro al seno riscontrati nella zona sono stati probabilmente un po’ più abbondanti rispetto al circondario, ma le incertezze numeriche (il famoso più o meno qualcosa), correttamente riportate dagli autori, fanno sì che la verità possa essere ancor più consistente, ma anche minore della media: come dire che nella zona contaminata quei tumori hanno colpito di più, ma forse anche di meno che altrove.

Del resto, il conto fatto sull’insieme di tutti i tipi di tumore maligno non ha indicato eccessi significativi. L’incidente provocò effettivamente dei morti, ma indirettamente, cioè non per colpa della chimica. Quattr’anni dopo, il chimico Paolo Paoletti, che all’Icmesa era stato direttore di produzione, venne assassinato da terroristi di Prima Linea. Nell’immediatezza del disastro, invece, il governo presieduto da Andreotti autorizzò una trentina d’aborti, nei casi in cui le gestanti del territorio inquinato temevano che i loro bimbi nascessero con malformazioni.

L’intervento ministeriale anticipò dunque d’un paio d’anni la legge che poi sarebbe arrivata. Ovviamente i feti abortiti vennero analizzati subito, ma solo molti anni dopo trapelò una notizia che gli organi d’informazione preferirono silenziare: i casi d’anomalie non erano affatto superiori all’ordinario. Altro equivoco da chiarire: l’Icmesa rappresentava bene il rischio connesso con l’industria chimica?

No, nel suo insieme questo settore non era e non è a quel modo. Invece il disastro di Seveso, per gl’informati, era in realtà un disastro annunciato: disastrosa era infatti la conduzione dello stabilimento e, a monte, quella del gruppo cui apparteneva: il colosso svizzero Givaudan-Hoffmann-La Roche.

Come nel 2004 ha scritto il tedesco Jörg Sambeth, direttore tecnico della Givaudan ai tempi dell’incidente, la dirigenza non aveva idea dei molti e gravi incidenti già capitati altrove in quel tipo di produzione, e una relazione tecnica assai critica sullo stabilimento di Meda era stata redatta nel 1970, ma fu ignorata. La fabbrica lavorava in perdita, e sarebbe stato logico chiuderla o venderla. Invece venne lasciata andare alla deriva.

E ancora: nel gruppo la catena di comando in pratica non esisteva, tutto era lasciato al ghiribizzo dei grandi capi. Poi tagli al personale e alla manutenzione. Tecnici e operai si sentivano demotivati: nulla di strano che l’incidente sia accaduto di sabato, quando sull’impianto, fermato alle cinque del mattino, restarono solo gli addetti alla manutenzione. Ci fosse stato qualcuno a leggere il termometro, che nelle ultime sei ore salì gradualmente ben oltre il dovuto, avrebbe potuto fermare la reazione anomala.

E invece successe quel che successe, travolgendo nel fango l’immagine della chimica intera. Eppure, grazie in particolare a quell’esperienza tremenda, le norme di legge e l’attenzione dell’industria hanno fatto passi da gigante verso la sicurezza. Ma quasi nessuno sa, per esempio, che si rischiano molti più infortuni e malattie professionali lavorando nel settore alimentare. La chimica non è il demonio.