Il Gup Forleo sbaglia ma la giustizia ha armi spuntate. Serve una Direzione nazionale

magistraturaIl Foglio 28 gennaio 2005

L’ analisi del sottosegretario all’Interno mantovano. Gli errori del giudice milanese. L’inadeguatezza di parte della magistratura giudicante. Il bisogno di specializzazione

1. La polemica sulla sentenza del gup di Milano rischia di restare sterile se continua a riprodurre déjà-vu. Nel déjà-vu rientrano: l’ipotesi del procedimento disciplinare, avanzata anche in questa circostanza, quasi che lo spauracchio di censure o di sanzioni sia in grado di risolvere un problema che è anzitutto culturale, di conoscenza e di formazione dei giudici; il riflesso condizionato dell’ANM, per la quale neanche le assurdità scritte dalla dott.ssa Forleo incrinano il cliché della difesa acritica dell’autonomia e della indipendenza della magistratura (espressione che ormai viene ripetuta come una giaculatoria); il rimpallo di accuse e di repliche fra esponenti politici, in un contesto da stadio, con il tifo pro o contro il giudice di turno, fino alle manifestazioni organizzate a ridosso dei palazzi di giustizia.

Ma al déjà-vu appartiene anche il merito della vicenda, perché riecheggiano decisioni adottate nel recente passato da altri organi giudicanti sul medesimo versante. E’ difficile, per esempio, dimenticare quanto scritto dal gip di Napoli dott. Antico, l’8 gennaio 2004, quando, in indagini riguardanti affiliati al Gruppo salafita per la predicazione e il combattimento, motivava il rigetto di misure cautelari, e la conseguente esclusione di responsabilità, negando al GSPC il carattere di associazione terroristica perché tale qualifica, riferita a quel gruppo, non costituiva “fatto notorio” (mi sono soffermato su questa ordinanza, se è lecita l’autocitazione, in un articolo comparso su Il Foglio il 1° luglio 2004).

E’ altrettanto difficile trascurare la decisione del TAR del Lazio di sospensione del decreto del ministro dell’Interno di espulsione di Fall Mamour, l’ex imam della moschea di Carmagnola, con la motivazione che la distribuzione di propaganda di Al Queda, trattandosi di materiale di interesse storico e sociologico, non costituisce attività contraria alla sicurezza dello Stato. Il provvedimento della dott.ssa Forleo è, sulla stessa linea, ancora più tecnicamente sconcertante.

2. Sono tre, a mio avviso, i punti cardine che qualificano (negativamente) la decisione:

1) l’affermazione, contenuta nella motivazione, della inutilizzabilità processuale delle cosiddette “fonti aperte”, cioè, come si legge nella sentenza, delle “informazioni giornalistiche o assunte per via telematica”: è la riproposizione della esclusione di dati significativi ai fini del giudizio in quanto non costituiscono “fatto notorio”;

2) l’errato ricorso, da parte del giudice milanese, a fonti di diritto internazionale per distinguere il terrorismo dalla guerriglia: secondo la dott.ssa Forleo, le sanzioni riguardanti il terrorismo non si applicherebbero perché, in base all’art. 18/2 della Convenzione globale ONU sul terrorismo, “progettata (sic) nel 1999”, “le stesse non riguardano le forze armate e i gruppi armati o movimenti diversi dalle forze armate di uno Stato nella misura in cui si attengano alle norme del diritto internazionale umanitario”; si tratterebbe, in altri termini, di “guerriglia” e non di “terrorismo”;

3) l’assoluta ignoranza (nel senso tecnico, e non spregiativo, di non conoscenza) della galassia e della struttura del terrorismo islamico.

Sul primo aspetto (l’inutilizzabilità della “fonti aperte”), è singolare e contraddittorio che dapprima si rifiuti la contaminazione con qualsiasi informazione che non sia – deve ritenersi – contenuta in sentenze passate in giudicato, e poi, nel testo del provvedimento, il gup di Milano affermi, certo non attingendo dal massimario della Cassazione, che Ansar al Islam è stata “bombardata e distrutta nel corso di tale conflitto” (il riferimento è alla guerra in Iraq), che Zarqawi guida “al-Tawhid”, e che è “notorio (si usa esattamente quest’aggettivo) che nel conflitto bellico in questione (…) strumenti di altissima potenzialità offensiva sono stati innescati da tutte le forze in campo”. Ma le “fonti aperte” valgono, non valgono, o funzionano a intermittenza?

Sul secondo aspetto (le convenzioni e i trattati internazionali), giova ripetere quanto è noto a tutti, fuorché alla dott.ssa Forleo: a) la Convenzione globale ONU sul terrorismo, della quale ella cita l’articolo 18 comma 2, semplicemente non esiste; il negoziato su una bozza sottoposta alla discussione dei paesi membri si è arenato per l’esistenza di contrasti, al momento insuperabili, relativi alla definizione di terrorismo fra gran parte degli Stati islamici da un lato e taluni Stati occidentali dall’altro.

Esiste invece una decisione quadro del Consiglio dell’Unione europea, del 13 giugno 2002, sulla lotta contro il terrorismo, che definisce quest’ultimo in relazione ad attentati alla vita o all’integrità delle persone, a sequestri di persona, a distruzioni di edifici o di mezzi di trasporto, se finalizzati a intimidire la popolazione o a destabilizzare le strutture politiche di un paese o di una organizzazione internazionale (una descrizione che ben corrisponde a quanto terroristi reclutati in Italia vanno a fare in Iraq, e in particolare alle condotte descritte in modo puntuale nella sentenza del gup di Milano); b) il 24 febbraio 2003 l’ONU, in base alla propria risoluzione la n. 1267/99, ha inserito Ansar al Islam fra i gruppi terroristici in collegamento con al Queda; c) la medesima organizzazione è stata inclusa fra quelle colpite da misure restrittive in quanto associata a Osama bin Laden e alla rete di al Queda, con il Regolamento n. 667/2004 della Commissione europea del 7 aprile 2004. Al di là di ogni disquisizione sull’utilizzabilità delle “fonti aperte” è certo che quelle appena menzionate costituiscono fonti di diritto internazionale e comunitario, di cui il giudice ha il dovere di tenere conto.

Sulla conoscenza del terrorismo islamico, l’impressione che si ricava leggendo la sentenza è che si applichino categorie che forse erano valide in passato per l’esperienza eversiva nazionale a un fenomeno che è radicalmente diverso: la distinzione, da “anni di piombo”, fra ala movimentista e ala militare, e quindi fra terrorismo e guerriglia, naufraga di fronte alla struttura di network dell’ultrafondamentalismo che pratica il terrore e che, come nel caso di Hamas, si serve di shaid certamente non inseriti in ruoli chiave dell’organizzazione, formati e indottrinati al fine esclusivo del martirio.

3. Lungi dal voler scrivere una nota a margine di sentenza, ribadisco invece un problema enorme: l’inadeguatezza di parte (la cui consistenza è da verificare) della magistratura giudicante italiana a fornire risposte pertinenti all’aggressione del terrorismo islamico, che siano ovviamente conformi alle norme di diritto interno, comunitario e internazionale. Sottolineo “magistratura giudicante” e non “magistratura requirente” perché sul piano delle indagini si sono raggiunti risultati interessanti, che hanno rivelato notevole professionalità da parte dei pubblici ministeri che se ne sono occupati.

Che questioni di tale delicatezza e complessità sollevino controversie è fisiologico. Che vengano rapidamente archiviate con un timbro già adoperato con disprezzo in altre occasioni, e senza costrutto, è fuori di ogni logica. Prendiamo atto che dall’area della magistratura associata e politicamente impegnata non arrivano contributi propositivi e che, pur da parte di chi ammette a denti stretti (ma sono neanche tutti) che sentenze come quella del gup milanese hanno dell’assurdo, si fa rinvio ai rimedi dell’appello e della Cassazione: e se un soggetto del quale è giudizialmente riconosciuto il reclutamento nelle fila di organizzazioni terroristiche come Ansal al Islam, dopo essere stato rimesso in libertà si fa esplodere, dentro o fuori dell’Iraq, in un autobus o in una scuola, possiamo consolarci ricordando che in Italia i tre gradi di giudizio permettono di correggere in corso di procedimento gli eventuali errori del primo giudice?

Il paradosso del sistema giudiziario italiano non è che ci siano giudici non preparati, giuridicamente e culturalmente, a comprendere e a valutare le responsabilità di soggetti accusati di attività terroristica. Il paradosso è che non vi sia nessun meccanismo interno all’ordine giudiziario che impedisca a questi giudici di occuparsi di terrorismo islamico. Se un magistrato intende ricoprire le funzioni di pubblico ministero in un posto lasciato libero in una procura distrettuale antimafia partecipa a un procedimento complesso di selezione. Identico meccanismo riguarda l’assegnazione di funzioni in altri settori, dalla magistratura del lavoro alle sezioni agrarie.

Tutto ciò avviene nell’ambito della magistratura ordinaria, e non di giudici speciali: vi è una differenza profonda fra i “giudici speciali”, che richiamano i “tribunali speciali”, ma anche le deroghe alle garanzie e le “leggi speciali”, e i “giudici specializzati”: costoro esistono già adesso, sono giudici ordinari che hanno acquisito competenze in campi mirati e lavorano applicando i codici e le garanzie senza eccezioni.

4. Ripeto ovvietà perché ogni qual volta si sottolinea l’esigenza della specializzazione nel contrasto al terrorismo capita di imbattersi nel riflesso condizionato di chi esclama “Guantanamo”! Ora, posto che la riflessione in Italia e in Europa su ciò che accade in quell’angolo dei Caraibi non è stata né ampia né approfondita, ci sarà pure una strada differente fra Guantanamo (che comunque appartiene a un contesto culturale e giuridico profondamente diverso dal nostro) e la triste e superficiale sommarietà di decisioni come quelle del gip di Napoli, del Tar del Lazio e del gup di Milano.

Queste decisioni confermano, ammesso che ve ne fosse la necessità, che è il momento di scelte non tanto coraggiose quanto di buon senso: per la parte, limitata ma non irrilevante, che la giustizia penale ha nella repressione dell’attività terroristica, è ineludibile il nodo della specializzazione. Questa specializzazione è già avvenuta nei fatti in tanti uffici di procura, favorita dal carattere tendenzialmente gerarchico degli stessi; è del tutto carente nella magistratura giudicante.

Non vuol dire, lo ribadisco fino alla nausea, deroghe ai codici e alle garanzie; vuol dire istituire, come avviene per materie meno delicate (ma non meno impegnative) come l’agricoltura o le controversie di lavoro, sezioni ad hoc nelle procure e nei tribunali. L’approfondimento degli aspetti organizzativi è in grado di chiarire quale può essere, ai fini di una azione penale efficace, l’area della competenza territoriale del p.m. e del giudice antiterrorismo: se, per esempio, va preso in considerazione, per la migliore funzionalità, il territorio del distretto di corte di appello ovvero quello del circondario del tribunale.

Ma, se si vuole realmente e nei fatti evitare che si ripetano decisioni come quella del gup di Milano, è indispensabile istituire una Procura nazionale antiterrorismo – quale ufficio giudiziario ad hoc o, con minori costi, estendendo le competenze della Procura nazionale antimafia -, che coordini l’attività di analoghe procure distrettuali, e sezioni giudicanti antiterrorismo. Sezioni che, senza perdersi nel problema di che cosa sia “fatto notorio” o “fonte aperta”, conoscano le convenzioni internazionali (quelle vere, e non quelle “in progetto”) e ne tengano conto, facciano riferimento agli atti normativi delle istituzioni comunitarie, siano in grado di apprezzare le “black list” dell’UE o dell’ONU, siano attrezzati a comprendere, per acquisita esperienza giudiziaria, le caratteristiche e le modalità operative del terrorismo islamico.

Questa ipotesi è così poco scandalosa che da circa 13 anni si seguono i medesimi criteri nel contrasto alla criminalità organizzata quanto alla magistratura requirente, ed esistono in parallelo anche i gip con competenza distrettuale. L’aspetto organizzativo e processuale è in questo momento più importante di quello sostanziale; pur se un intervento normativo che affronti quegli aspetti non esclude una attenzione alla efficacia e alla precisione delle norme di diritto sostanziale, e in particolare di quelle che incriminano il terrorismo internazionale. Quello che è certo è che ogni ritardo rischia di provocare danni irreparabili.

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