Gli abusi musicali e la prudentia Ecclesiae

balli_MessaIl Timone n. 154 giugno 2016

Dal Concilio Vaticano II ad oggi non si contano gli episodi di mancanza di rispetto delle norme che regolamentano il servizio musicale. Non è la prima volta che la Chiesa interviene su questi abusi

di Giannicola D’Amico

Nell’esaminare la musica liturgica nel cinquantennio del post-Concilio Vaticano II, non si contano le voci che sottolineano quanta confusione regni in materia e quanta sia l’assoluta mancanza di provvedimenti che mettano efficacemente ordine in un campo abbandonato ad una sorta di anomia. A ben guardare, però, la storia della Chiesa, non è la prima volta che l’autorità prende provvedimenti con molto ritardo.

Si è accennato alla decadenza basso-medievale del canto liturgico con le sviste dei Cistercensi o le prodezze dei Francescani, ma il problema fondamentale di quell’epoca fu la montante polifonia che prese a padroneggiare il servizio musicale, soprattutto nelle chiese secolari, e che giunse ad invadere anche la cappella papale la quale, a quel tempo, era in Avignone. La temperie di secolare confusione fu sintetizzata dalla Costituzione Apostolica Docta Sanctorum Patrum di papa Giovanni XXII, promulgata nel 1324 e poi inserita del Corpus Juris canonici tra le Extrauagantes.

La Docta Sanctorum, primo documento normativo pontificio ad interessarsi in via generale del canto liturgico, venne alla luce abbastanza tardi rispetto alla diffusa crisi del canto ecclesiastico, che era ampiamente evidente già prima della cattività avignonese, ma esemplificava in modo estremamente vigoroso e significativo uno stato di cose non conforme alle intenzioni della Chiesa. All’inizio del Trecento il papa fotografava due secoli di abusi, condannandoli vigorosamente, e deprecava principalmente le tecniche musicali polifoniche che tendevano a distruggere il canto gregoriano, nella parte melodica ed in quella ritmica ed esecutiva, richiamando certi principi di spiritualità, posti alla base dell’esecuzione del canto sacro, e dichiarava apertamente l’opzione ecclesiastica per un canto liturgico con finalità edificanti e di elevazione spirituale per il clero e per il popolo.

Lo strale era appuntato soprattutto contro i musicisti dell’Ars nova, per l’incipiente mania mensuralizzante e ritmicamente accelerante e, soprattutto, per la spettacolarità esecutiva, inconciliabile con il culto cristiano ed incompatibile con il canto liturgico ormai ottenebrato nei suoi basilari elementi teorici ed esecutivi. Tuttavia il papa non biasimava totalmente la polifonia, ma ne indicava i modi di retto uso liturgico (forme consonanti compatibili con il canto sacro e dotate di semplicità atta a favorire la devozione e non l’ubriacatura musicale fine a sé stessa) ai quali dovevano conformarsi cantori e musicisti, in un’ottica di chiara preminenza e tutela del gregoriano, additato a modello per la composizione sacra. La approvazione della polifonia semplice (melodia gregoriana accompagnata da una seconda voce normalmente omoritmica) testimonia che questa forma, conosciuta dalla schola papale già da parecchio e dal XIII sec. diffusa in ogni parte d’Europa, era ormai metabolizzata quale naturale evoluzione della pratica di canto liturgico.

La Costituzione veniva promulgata, però, in un momento storico in cui la musica profana (cioè che per natura è fuori del tempio = prò fanum) si era già appropriata delle strutture che il repertorio le metteva a disposizione, penetrando nel santuario e sfidandone ormai apertamente i secolari apparati.

In definitiva, era questa sfrontatezza che aveva indispettito profondamente il pontefice il quale, probabilmente, fece suo un diffuso e risalente sentimento che albergava da lungo tempo negli ambienti ecclesiastici, ove ci si rendeva conto che il testo liturgico veniva sempre meno percepito nella sua materialità (e per questo depotenziato del suo potere di dialogo salvifico) e che nella generalità le composizioni scritte con le nuove tecniche si denotava una progressiva mutazione nella stessa concezione giuridico-dottrinale del culto.

Johannes De Muris, teorico musicale e matematico coevo di Giovanni XXII, nello Speculum musicae bollò a fuoco le esagerazioni contrappuntistiche, tacciandole di demenza: ciò a riprova che gli inizi della polifonia si svolgevano in forme incompatibili con l’essenza della liturgia. Tali esternazioni coglievano quasi sempre il fatto tecnico ed esecutivo, ma sottintendevano anche una progressiva crisi della comunione “musica-liturgia” che viene innescata fra il XIII e il XIV sec, proprio con il progressivo appannarsi del gregoriano ed il concorrente sviluppo di una sovrapposizione tra il fatto artistico ed il dato cultuale, ovvero tra la liturgia e la sua forma sonora che progressivamente tenderà ad una autonomia senza regole.

Il cumulo di abusi tecnici cui Giovanni XXII tentò di mettere freno proveniva tuttavia da una società e da una comunità artistica profondamente cristiane: oggi, viceversa, qualsiasi influsso secolarizzante sulla liturgia proviene da un mondo intimamente scristianizzato, anche nei Paesi di antica evangelizzazione, ed è molto più invasivo e pervasivo rispetto al passato, sicché il dover metter mano a questa cinquantennale confusione sarebbe ormai indefettibile dovere di carità per la Chiesa da parte dei suoi Pastori