I movimenti di matrice islamica in Italia

CESNUR Centro Studi sulle Nuove Religioni
Regione Siciliana Assessorato dei Beni Culturali ed Ambientali e della Pubblica Istruzione

L’ISLAM E I MOVIMENTI DI MATRICE ISLAMICA IN ITALIA

sufi

Un estratto da: Il pluralismo religioso in Italia e in Sicilia

Direttori della ricerca: Massimo Introvigne – Alberto Maira – PierLuigi Zoccatelli

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INDICE

  • L’Islam sunnita: un’introduzione
  • L’Unione delle Comunità ed Organizzazioni Islamiche in Italia (UCOII)
  • L’Associazione Culturale Islamica in Italia
  • L’Istituto Culturale Islamico di Viale Jenner a Milano
  • La Lega Musulmana Mondiale – Italia e il Centro Islamico Culturale d’Italia
  • La Comunità Religiosa Islamica Italiana (CO.RE.IS.)
  • L’Unione Islamica in Occidente (UIO) – World Islamic Call Society (WICS)
  • L’Associazione Musulmani Italiani e l’Assemblea Musulmana d’Italia
  • L’Unione Musulmani d’Italia (UMI) di Adel Smith
  • L’Associazione Islamica Culturale
  • Organizzazioni musulmane turche in Italia
  • I Tabligh
  • L’islam sciita e la sua presenza in Italia
  • Il sufismo e le presenze sufi in Italia
  • Un sufismo degli immigrati: i Muridi e i Layennes
  • Gli eredi di Hazrat Inayat Khan: l’Ordine Sufi Internazionale e il Movimento Internazionale Sufi
  • Gli Armadi
  • Una religione di origine islamica: i Bahá’í e i loro scismi
  • Un movimento di origine islamica: Subud

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L’ISLAM SUNNITA. UNA INTRODUZIONE

L’Arabia pre-islamica

Le origini dell’Islam affondano nell’Arabia pre-islamica, che corrispondeva a un grande e irregolare trapezio posto a Sud-Est dei possedimenti bizantini dell’Asia minore occupati oggi da Libano, Siria, Israele, Giordania: un vasto territorio proteso verso l’Oceano Indiano e costeggiato a Ovest dal Mar Rosso e a Est dal Golfo Persico. La regione si presenta florida solamente lungo le coste e come un grande tavolato desertico al centro.

Ricche civiltà quali quelle dei Nabatei, o i regni di Saba e di Palmira, con la conquista da parte dei Romani iniziano un inarrestabile processo di decadenza finendo per scomparire del tutto, frantumandosi in variegate comunità e tribù di “beduini”. Il termine deriva da badw (deserto) e indica appunto coloro che vivono nel deserto, praticando l’allevamento e il commercio carovaniero. Denominatore comune delle comunità arabe rimaneva la convinzione di discendere da Ismaele, figlio di Abramo e della schiava Agar.

Pur considerandosi come fratelli di razza, le tribù godevano di piena autonomia sociale, riconoscendo come proprio capo lo sceicco (shaykh), autorità politica, giuridica e religiosa, eletto dagli anziani e scelto fra i membri delle famiglie più influenti. Il mondo arabo, poliedrico dal punto di vista politico, era tale anche per l’aspetto religioso.

Nel comune quadro politeistico, al Sud si adoravano divinità che costituivano la personificazione dei pianeti, mentre al Nord vi era una moltitudine di divinità poiché quasi ogni tribù ne aveva una propria. Inoltre si venerava un numero infinito di spiriti che abitavano il mondo vegetale e minerale. Tutti erano sottomessi a una divinità comune, uno spirito supremo chiamato Allâh (il Dio).

Fondamentale era il culto agli spiriti delle pietre sacre, che erano sempre portate con sé dalla tribù durante i suoi spostamenti, e che erano di difesa contro pericoli di ogni genere. Quando la tribù si fermava era deposta la pietra sacra (betilio) in un luogo centrale: vi era costruito intorno un piccolo santuario che diveniva in breve luogo di culto e meta di piccole processioni.

Il più sacro fra tutti questi betili era la “Pietra Nera” della Mecca, un piccolo meteorite collocato in un angolo della Ka’ba, piccolo tempio pre-islamico considerato la casa di tutte le divinità del pantheon arabo (i musulmani ritengono oggi che la Ka’ba sia stata costruita da Abramo e dai suoi figli e, dopo l’avvento dell’Islam, la “Pietra Nera” è divenuta un semplice oggetto tradizionale di devozione).

La Ka’ba e la Pietra Nera erano meta di pellegrinaggi per tutti gli arabi che, di anno in anno, si ritrovavano in date prestabilite e per tre giorni praticavano i loro riti, per poi dedicarsi liberamente a fruttuosi scambi commerciali. La consuetudine, radicatasi col tempo, aveva permesso alla Mecca, posta lungo la Via dell’incenso, di diventare la città araba più importante, con una classe dominante che era ormai sedentaria e si era arricchita con i commerci e con il controllo che esercitava sul santuario.

Questo sistema, quasi oligarchico, era nelle mani della tribù dei Quraysh che, nel VI secolo, interessata all’accrescersi del suo potere, andava intensificando i trattati con altre tribù e delimitando un territorio sempre più vasto intorno alla Mecca per vincolarlo alle proprie attività commerciali. Contemporaneamente cercava di accrescere la propria supremazia propugnando il culto di certe divinità che avevano sede nella sua città, quale quello per le tre dee Manât (la signora del destino), al-Lat (la dea della fecondità), e al-‘Uzza (la potente).

Accanto a questo mondo religioso multiforme vanno ancora considerati gli influssi esercitati dalle fiorenti comunità ebraiche e cristiane che vivevano in Siria, Giordania, Israele e che soggiornavano spesso nei centri arabi per motivi commerciali. Pur non avendo documentazioni certe sulla conoscenza del credo monoteista ebraico e cristiano da parte degli arabi, è indubbio che molte tribù avevano sentito raccontare brani biblici ed evangelici da mercanti e pastori e ne avevano subito influenze.

Muhammad

Proprio alla Mecca, nel VI secolo e nel clan dei Quraysh, nasce Muhammad (Abû Ibrâhîm Muhammad ibn ‘Abd Allâh ibn ‘Abd al-Muttalib ibn Hâshim, c. 570-632). Le notizie circa la sua vita sono piuttosto scarse: l’unica fonte attendibile è il Corano stesso, cui seguono alcune biografie redatte più di un secolo dopo la sua morte.

L’anno stesso della nascita di Muhammad è incerto: secondo alcuni nasce nel 570, l'”anno dell’elefante”, per altri verso il 571, altri ancora indicano genericamente il decennio 570-580. Muhammad nasce alla Mecca, una delle tre città principali dell’Higiaz (le altre due erano Yatrib – poi chiamata Medina – e At-Ta’if) nel clan quraishita dei Banu-Hâshim, tradizionalmente dediti al commercio di cammelli. Il padre muore poco prima della sua nascita, e anche la madre lascia il figlio orfano in tenera età, a soli sei anni. Muhammad è quindi affidato a parenti, in particolare al nonno paterno ‘Abd al-Muttalib, che educa il giovane nipote al commercio.

Morto anche il nonno, il giovane Muhammad passa sotto la tutela dello zio Abû Tâlib (†619), con il quale compie numerosi viaggi nella penisola arabica e verso Oriente; si spinge fino in Siria e forse in Palestina. A causa di un improvviso rovescio finanziario la famiglia si riduce dall’agiatezza in povertà e Muhammad entra al servizio di una ricca vedova, Khadîjah (†619), che aveva preso il posto del defunto marito nella conduzione dell’attività commerciale della famiglia e che presto diventa sua moglie nonostante il grande divario di età (lui circa venticinque anni, lei circa quaranta).

Da lei avrà quattro figlie e tre figli. Durante le sue attività commerciali Muhammad entra in contatto con comunità cristiane del deserto e con vari nuclei giudaizzanti. Fra i trenta e i quarant’anni matura una profonda crisi religiosa e si interroga a fondo su Dio e sulla sua natura.

Era solito ritirarsi per alcuni giorni di meditazione in grotte sui monti intorno alla Mecca. Proprio durante uno di questi ritiri riceve la rivelazione celeste sulla vera natura della divinità e dei suoi rapporti con il mondo creato. Infatti il giorno 27 del mese di ramadân dell’anno 610 durante un breve ritiro sul monte Hira’, di notte, gli appare l’arcangelo Gabriele e gli rivela con irresistibile chiarezza l’unità-unicità di Dio.

La prima parola della nuova rivelazione è “Leggi” e questa parola, in arabo iqra’, è fondamentale perché la sua radice è la stessa di Qur’ân (Corano), che significa appunto lettura, recitazione, o predicazione. Le rivelazioni divine continueranno nei ventidue anni seguenti prima a Mecca, poi a Medina, quasi fino alla morte di Muhammad, nel 632.

I primi seguaci di Muhammad sono piccoli artigiani e commercianti, umili pastori e schiavi, in aperta polemica con la situazione di ingiustizia e corruzione dilagante nel mondo arabo. La classe benestante e conservatrice quraishita oppone una rigorosa resistenza alle innovazioni coraniche, perseguendo il nuovo profeta con vessazioni, messe in ridicolo, boicottaggi, arrivando fino a un tentativo di assassinio.

Infatti, morto lo zio Abû Tâlib, era diventato capo del clan (dei Banu-Hâshim) Abû Lahab, altro zio paterno del Profeta ma suo acerrimo nemico. Questi ottiene dai maggiorenti della città il suo allontanamento dal clan. In un primo tempo Muhammad cerca nuovi consensi nella vicina città di At-Ta’if, dove non ha successo.

È quindi costretto ad abbandonare la Mecca (su invito di alcuni mercanti che gli chiedono di fare da paciere fra le tribù le cui liti minavano i fiorenti commerci) per rifugiarsi, nel 622, a Yatrib. Dopo avere ottenuto l’adesione alla nuova fede e l’ubbidienza dei cittadini, il Profeta accetta di trasferirsi a Yatrib e la città prende il nome di Medina, ovvero al-Madina, cioè “città del Profeta”.

Il 622 è un anno chiave nel mondo musulmano; nel suo corso avviene il trasferimento di Muhammad da Mecca a Medina (“Egira”) e sarà considerato l’anno zero della nascente religione. A Medina il Profeta definisce la struttura della futura società musulmana. È di questo periodo la Costituzione di Medina giunta a noi con modifiche successive, ma integra nel suo nucleo centrale, ovvero l’unità fra Stato e religione.

Per il mondo musulmano – ieri come oggi – l’Islam è regola fondamentale sia per il rapporto religioso sia per il contesto politico. Nella Costituzione si ratifica l’iniziale patto di alleanza stabilito fra le popolazioni locali e la comunità dei credenti (umma). Le prime, denominate ansâr o meglio “aiutanti”, si impegnano al mantenimento verso i seguaci di Muhammad chiamati al-muhâjirûn, ovvero “coloro che sono emigrati”.

In questo patto Muhammad è riconosciuto come nabî, cioè come profeta che ha ricevuto una rivelazione scritta e come capo politico. Sempre nello stesso testo di alleanza gli altri abitanti (ebrei e cristiani) presenti nella città sono chiamati dhimmî, ovvero “protetti”, e quindi considerati in una posizione non di parità bensì di sottomissione verso le tribù arabe.

Dopo vari scontri con gruppi meccani, decisi a eliminare Muhammad e i suoi seguaci, nel gennaio del 630 il Profeta può rientrare vittorioso alla Mecca dove, avanzando maestoso verso la Ka’ba, proclama l’inizio della nuova era di Dio (in arabo Allâh). Tornato a Medina intraprende l’ultimo viaggio verso la Mecca nel 632. Compiuti i riti previsti, il Profeta ritorna a Medina in condizioni di salute abbastanza precarie. Qui l’8 di giugno del 632, muore assistito dalla moglie prediletta ‘A’ishâ (614?-678), e senza avere designato chiaramente un successore.

I primi califfi e le divisioni interne

La questione della successione causa i primi grandi problemi dell’ancora giovane comunità islamica. Vi sono fazioni con interessi diversi: in primo luogo la classe dirigente della Mecca, che rivendica la priorità nella scelta del capo politico e religioso della nuova realtà nazionale; dall’altra i compagni del Profeta della prima ora i quali, avendo subito offese e persecuzioni, mal sopportano i convertiti degli ultimi anni e rivendicano per sé il diritto di nominare il legittimo successore.

Vi sono inoltre divisioni tribali da sedare, e ancora i familiari del Profeta che vogliono scegliere al loro interno il legittimo successore. La prima scelta cade infine su Abû Bakr “il Veridico” (570-634), che governa dal 632 al 634. Suocero del Profeta in quanto padre dell’amata ‘A’ishâ, inizia nel 633 l’espansione militare verso la Persia. Abû Bakr rappresenta un compromesso momentaneo, e gli sciiti inizieranno da lui le loro polemiche poiché lo accuseranno di avere rifiutato a Fâtimah (605?-633), la figlia prediletta del Profeta, l’eredità paterna dell’oasi di Fadak, e di avere quindi dato inizio alle discriminazioni verso la legittima discendenza di Muhammad.

Lo stesso Abû Bakr – nel 634 – designa a succedergli ‘Omar (591-644), che governa dal 634 al 644. ‘Omar si era convertito dopo l’Egira ed era stato consigliere politico di Muhammad e abile diplomatico. Era anche lui suocero di Muhammad in quanto questi ne aveva sposato la figlia Hafsa. ‘Omar si sforza di costruire un califfato unitario e centralizzato dotando la comunità di istituzioni in campo politico e religioso, e formulando regole nell’ambito dei costumi.

Conquista la Siria, entrando in Damasco, e occupa nel 638 Gerusalemme. Fonda Bassora, smembrando l’impero persiano dei Sassanidi e occupandone la capitale Ctesifonte. Conquista l’Egitto e la Nubia. Pugnalato nella moschea di Medina nel 644, gli succede ‘Othman (†656), che governa dal 644 al 656. Uomo di notevoli ricchezze, aveva sposato due figlie di Muhammad. Opera una radicale modernizzazione delle forze arabe munendole di una efficiente flotta che presto diventa un pericolo per i paesi cristiani nel Mediterraneo, tanto che nel 649 assalta e conquista l’isola di Cipro.

Espande le conquiste fino al Caucaso e all’India e organizza una divisione amministrativa di quello che ormai era diventato un immenso impero. Cura la prima edizione integrale del Corano che diverrà il testo ufficiale della Rivelazione di Allâh. Accusato di nepotismo, anche lui muore di morte violenta, pugnalato dal figlio di Abû Bakr.

Dopo ‘Othman è proclamato successore del Profeta ‘Alî (†661), cugino e genero di Muhammad in quanto ne aveva sposato la figlia prediletta Fâtimah. ‘Alî è sostenuto da una coalizione piuttosto eterogenea nella quale emerge la corrente legittimista favorevole alla linea ereditaria. Il potere di ‘Alî è contrastato e sotto il suo governo si vanno a formare varie coalizioni che sostengono successioni alternative, soprattutto a opera dei potenti della Mecca sostenitori della famiglia degli Omayyadi, gli ultimi a riconoscere il Profeta ma i primi in questo momento dal punto di vista militare ed economico.

I contrasti diventano sempre più acuti fino a giungere a uno scontro armato che trova il suo apice nel 661 durante la battaglia di Siffin, nella quale vediamo contrapporsi i sostenitori di ‘Alî e quelli della dinastia omayyade guidati da Mu’âwiya (605-680), governatore della Siria. Quest’ultimo, dopo avere sconfitto ‘Alî, prende il potere nel 661, pone fine al califfato elettivo e dà inizio alla propria dinastia. La capitale è spostata dalla Mecca alla più centrale Damasco. Nel 674 pone il primo assedio a Costantinopoli. Sotto i suoi successori l’impero raggiunge dimensioni enormi.

Nel 700 i musulmani arrivano allo stretto di Gibilterra, nel 711 sbarcano in Spagna, mentre nel 712 conquistano Bukhara, nell’Uzbekistan, e nel 713 Samarcanda. Nel 714 valicano i Pirenei. Se nel 732 sono fermati a Poitiers da Carlo Martello (688-741), e terminano così la loro espansione occidentale, in Asia minore la loro pressione continua sui confini dell’impero bizantino con i numerosi assedi posti a Costantinopoli fino alla sua caduta definitiva nel 1453.

Da quella data il potere di Muhammad II (1432-1481) sarà libero di espandersi anche nei Balcani e nell’Europa orientale. Nel frattempo, nel 750, la dinastia omayyade era venuta meno a causa dei molti dissidi interni e, dopo un colpo di stato, aveva ceduto il posto alla dinastia abbaside che rivendicava la discendenza da Abbas (†653), zio del Profeta. Con loro l’impero arabo sposta la capitale a Baghdad e raggiunge il massimo del suo splendore.

Nel 1258 Baghdad è conquistata dai mongoli. I principi abbasidi si trasferiscono in Egitto dove, dal 1260, mantengono il titolo di califfi – cui però non corrisponde un effettivo potere politico – fino al 1516, data in cui l’Egitto è conquistato a sua volta dagli ottomani mongoli. Questi ultimi rivendicheranno più tardi il califfato per i sultani del loro impero, ma questa rivendicazione non sarà esente da problemi.

La battaglia di Siffin, o meglio arbitrato di Siffin in quanto ‘Alî aveva convocato gli esponenti dei vari gruppi a un incontro diplomatico, rappresenta il momento centrale e culminante del dissidio all’interno della prima comunità islamica. Proprio di fronte a questo arbitrato si addiviene a una suddivisione in varie correnti all’interno del mondo islamico.

Da questo momento in poi, pur mantenendo praticamente omogeneo il credo e la pratica religiosa, il mondo islamico rimane diviso fra tre campi, soprattutto per motivi politici: il sunnismo, che ancora oggi rappresenta il filone dominante e raggruppa circa l’ottantacinque per cento dei musulmani; lo sciismo, che sostiene che il capo della umma debba essere un discendente di Muhammad, e va diversificandosi in una miriade di sottogruppi; e il kharijismo, ridotto oggi a poco più di un milione di appartenenti.

Introduzione alla dottrina islamica

Venendo a elementi di carattere dottrinale, secondo il “principe dei teologi”, al-Ghazâlî (1058-1111), le fonti delle scienze religiose sono tre:

  1. il Corano o meglio Al-Qur’ânu-l-karîm (il Generoso Corano), la raccolta delle rivelazioni fatte dall’arcangelo Gabriele a Muhammad;
  1. gli ahâdîth (sing. hadîth): il racconto dei fatti e dei detti del Profeta, lasciati a commento del Corano;
  1. il consenso dei teologi o, per la legge, dei giurisperiti, intesi come rappresentanti della comunità islamica.

Il concetto di ispirazione divina del Corano è decisamente diverso da quello usualmente considerato nella tradizione cristiana per la Bibbia. Nel Corano ogni singola parola è di Dio e sacra in quanto è l’esatta trascrizione del Libro sacro che è in Cielo presso Dio. L’ortodossia islamica ammette l’eternità del Corano in quanto parola di Dio, ovvero uno dei suoi attributi, tutti eterni come Dio stesso.

Anche se non è un’affermazione dogmatica, questa convinzione ha determinato una certa diffidenza verso le traduzioni del Corano in lingue diverse dall’arabo. I musulmani anzi parlano di traduzioni “del significato” del Corano, ma non del Corano stesso, parola di Dio. Per quanto concerne il mondo mediterraneo, solo nel 1976 il numero 12 della Risoluzione finale del Seminario per il dialogo islamo-cristiano di Tripoli ha incoraggiato la diffusione delle traduzioni del testo sacro nelle varie lingue nazionali.

Subito dopo la scomparsa dei primi quattro califfi accettati da tutta la comunità islamica, i cosiddetti “califfi ben guidati” (râshidûn), e con la conseguente rottura dell’unità della umma in sunniti e sciiti, è iniziata anche la riflessione sulla legittima interpretazione del Corano.

Questo lavoro esegetico non è tanto rivolto agli aspetti teologici o mistici quanto piuttosto alla sharî’a, ovvero alla legge presente nel testo sacro e che deve essere applicata da tutti i fedeli. Per elaborare le norme specifiche si è quindi sviluppato il diritto o fiqh. La sharî’a rappresenta così il diritto positivo, mentre il fiqh costituisce l’insieme delle scienze giuridiche.

Ben presto si sono formate, al riguardo, scuole di pensiero diverse, di cui quattro sono le più significative: la hanafita, che prende il nome dal suo fondatore Abû Hanîfa (699-767) e tende a fornire interpretazioni meno rigorose rispetto ad altre scuole; la malikita, da Mâlik ibn Anas (711?-796) conosciuto come l’Imâm di Medina, ispirata al criterio dell'”interesse generale” e particolarmente ostile al sufismo; la shafi’ita, fondata da Abdullâh ash-Shâfi’î (767-820), il maggior sistematizzatore del diritto islamico, che si preoccupa di definire con precisione i criteri del ragionamento per analogia onde evitare abusi interpretativi; e la hanbalita, fondata da ibn Hanbal (780-855), che nega il ragionamento analogico e propone un rigoroso sistema teocratico piuttosto intollerante verso le altre religioni e verso i dissidenti dell’Islam: è oggi la scuola giuridica dell’Arabia Saudita.

Parallelamente al dibattito giuridico si vanno ampliando le interpretazioni teologiche, soprattutto a proposito dei nomi di Dio. Nel mondo sunnita si riconoscono principalmente quattro scuole:la mu’tazilita, sorta nell’VIII secolo, che rappresenta l’ala più razionalista della teologia islamica e per certi versi quella più affine alle speculazioni di impostazione greca; la ash’arita, iniziata nel X secolo per opera di al- Ash’arî (873-935), che professa una via mediana fra il razionalismo e il letteralismo; la maturidita, fondata da al-Mâturîdî (840-944), che rivaluta l’uso della ragione ma inserisce aspetti nuovi; e la hanbalita (parallela alla scuola giuridica dello stesso nome), che si sviluppa in ambiente abbaside nella seconda metà del IX secolo: rappresenta una corrente radicalmente anti-razionalista che ha trovato un forte sostegno nella dinastia degli al-Saud, che ne ha fatto la scuola teologica dell’Arabia Saudita.

Vi sono alcuni elementi fondamentali che ogni musulmano ortodosso è tenuto a credere. Innanzitutto, Dio esiste e la prova della sua esistenza è la causalità efficiente a partire dal mondo contingente. La causa del mondo è Dio: è causa eterna, insostanziale, incorporea, che non sta in nessun luogo. Il concetto base del Corano è l’unità-unicità di Dio: Dio è uno in sé ed è unico, ovvero non ha associati.

Questo elemento è più volte ribadito all’interno del Corano ed è sentito come molto forte in opposizione al cristianesimo, accusato di attribuire “associati” a Dio, ovvero Cristo e lo Spirito Santo. Questa unità-unicità è rigorosamente sancita dal Profeta nella formula Lâ ilâha illa ‘Llâh (“non vi è divinità se non Dio”), che rappresenta la prima parte della professione formale di fede o shahada. Gesù è visto come un grande profeta, l’ultimo dei profeti prima di Muhammad, ma non è Dio.

È un uomo come gli altri, cui Allâh ha affidato una Rivelazione che poi i suoi seguaci hanno in parte frainteso e falsificato, in primo luogo divinizzando la sua persona. Maria è una donna privilegiata, una santa, che ha concepito in modo verginale Gesù, per volere di Allâh, ma che non può certamente essere associata a Dio come Sua sposa né esserne la madre essendo Dio assolutamente ingenerato.

La questione degli attributi divini ha suscitato innumerevoli discussioni all’interno dell’Islam fin dai primi tempi. Per alcuni (mu’taziliti), molto attenti a difendere il monoteismo più radicale, gli attributi sono esclusivamente dei modi dell’essenza divina e quindi si identificano con essa. Per altri invece gli attributi non si possono identificare con l’essenza divina, sono qualcosa di diverso, di ulteriore, ma non sono staccati dall’essenza bensì vi sussistono.

Gli attributi secondo gli islamici più ortodossi sono quindi eterni come Dio. Oltre a sette attributi divini (potenza, scienza, vita, volontà, vista, udito e parola), nel Corano sono citati numerosi nomi di Dio, codificati convenzionalmente in novantanove e variamente usati anche in molte pratiche religiose. Prima fra tutte è il tasbîh, la glorificazione di Dio, operata soprattutto con l’ausilio di una specie di rosario, il subha, usato dai fedeli per ripetere i nomi più belli di Dio.

Il fedele musulmano deve pure credere nella resurrezione, in cui Dio “ridarà vita alle ossa polverizzate”. Tutti gli uomini risorti si raduneranno davanti ad Allâh per ascoltare la definitiva sentenza circa la loro salvezza o la loro dannazione.

Questo giudizio universale non deve essere confuso con il giudizio che il defunto riceve immediatamente dopo la sua morte. Quando una persona muore ed è deposta nel sepolcro secondo la ritualità islamica, un folklore religioso diffuso afferma che riceve la visita di due angeli – Munkar e Nakîr – che devono verificare la sua fede e il suo corretto comportamento in vita. In primo luogo il defunto deve rispondere recitando con esattezza e sincerità di cuore la shahâda, ovvero la professione di fede.

Quindi i due angeli procederanno a pesare su una bilancia le colpe e le buone azioni del defunto e a seconda che il loro giudizio sia stato negativo o positivo il suo soggiorno nella tomba fino al giorno della resurrezione e del giudizio universale sarà sgradevole o gradevole. Dopo il giudizio universale, fra i dannati gli infedeli rimarranno nell’Inferno in eterno, mentre i musulmani – secondo una dottrina accettata da una minoranza di teologi – vi resteranno per un tempo più o meno lungo, per saldare il debito di colpa, e quindi entreranno in Paradiso.

Oltre agli angeli, l’Islam ammette l’esistenza di Iblîs, il demonio, un angelo che, dopo avere disubbidito a Dio ed essersi rifiutato di prostrarsi davanti al primo uomo Adamo, fu cacciato dal Paradiso e maledetto in eterno. A livello popolare è molto sentita anche la credenza negli jinn, esseri incorporei invisibili nati dal fuoco che si occupano ampiamente delle vicende umane e sono essi stessi delle entità a metà strada fra gli angeli e gli uomini.

I doveri fondamentali del culto

I doveri fondamentali del culto islamico si possono riassumere nei cosiddetti cinque pilastri della fede, ovvero le cinque pratiche che il pio musulmano deve compiere: la professione di fede, la preghiera, l’elemosina, il pellegrinaggio e il digiuno.

  1. La shahâda, o testimonianza di fede, è la testimonianza resa con la parola a Dio unico e a Muhammad come suo inviato: “Testimonio che non vi è dio se non Iddio e testimonio che Muhammad è l’inviato di Dio”. Tale formula permea tutta la vita musulmana ed è pronunciata dal neofita al momento di accettare la religione dell’Islam davanti a testimoni che ne redigono l’atto che poi è firmato. È recitata costantemente nella preghiera quotidiana e nei momenti chiave della vita, soprattutto in punto di morte, nelle calamità, prima di un affare importante.
  1. La preghiera, o salât – il secondo pilastro dell’Islam -, consiste nella preghiera rituale che si distingue dalle preghiere personali (du’â’) facoltative. È richiesta ufficialmente dal Corano stesso e deve essere compiuta a ore determinate con gesti e formule prestabilite, e versi del Corano scelti liberamente dal fedele. Le cinque preghiere giornaliere da compiere e i tempi in cui vanno compiute sono rigorosamente stabiliti dalla legge. Poiché “tutta la Terra è una moschea” si può pregare all’ora giusta in qualsiasi luogo ci si trovi purché questo sia puro. Per simboleggiare il distacco dalla Terra e dalle sozzure del mondo il pio musulmano normalmente utilizza un tappeto che spesso è bordato di frasi coraniche: simboleggia “il sacro suolo della Mecca” e la separazione dal mondo. Per prepararsi alla preghiera è molto importante quindi la preparazione o purificazione (tahâra), o meglio ancora “stato di purità legale”, che si può trovare attraverso il wudû’ o “abluzione” di alcune parti del corpo se l’impurità è “minore” (ovvero determinata da necessità fisiologiche, contatto con persone o cose considerate impure, una colpa leggera, un sonno profondo, un eccesso d’ira, e così via); o con la “lavanda generale del corpo” o ghusl se si era in stato di impurità maggiore (dopo il parto, relazioni sessuali, adulterio, calunnia e altre colpe gravi). Nel cortile delle moschee è facile trovare le mi’da’ah o anche midah: impianti con quantità d’acqua sufficiente per le abluzioni, terminate le quali, il fedele si deve collocare in modo che il suo volto guardi verso la Mecca. Questa direzione è detta qibla e, negli edifici destinati alla salât, è per lo più segnata mediante una nicchia posta nella parete accanto alla quale si trova il pulpito (il cosiddetto mihrâb) su cui l’imâm si pone per pronunciare il sermone del venerdì. Solo al venerdì, per la preghiera del mezzogiorno, è obbligatorio ritrovarsi nella moschea. La preghiera è preceduta dal richiamo dall’alto del minareto da parte del mu’azzin (adhân). Assistere allo speciale servizio divino che di venerdì tiene le veci della preghiera giornaliera del mezzogiorno è, secondo la legge, un dovere religioso di tutti i musulmani maschi e maggiorenni che si considerano residenti in una data località. L’imâm, in questo contesto, è colui che guida la preghiera del venerdì all’interno della moschea e pronuncia il sermone. Nell’Islam sunnita è semplicemente un fedele che, dotato di particolare conoscenza del Corano e di buone capacità oratorie, aiuta i suoi fratelli nella fede a lodare Dio, a ricordare i doveri del fedele musulmano e a impegnarsi in un sincero cammino di miglioramento della propria vita. Può essere qualsiasi fedele purché dotato delle necessarie conoscenze. Nell’Islam non esiste infatti nessuna forma di sacerdozio, tanto meno ministeriale. Oltre alla preghiera legale, personale o comunitaria, l’Islam prevede una serie numerosa di preghiere individuali che possono essere per i defunti, per la pioggia, per chiedere, per supplicare, per lodare, per ringraziare Dio. Questi tipi di preghiera sono espressi con il cuore dal musulmano fedele, con formule personali e non necessitano di espressioni rituali prescritte.
  1. La zakât è l’elemosina o decima, e precisamente non quella volontaria, detta sadaqah, ma quella imposta dalla legge e alla quale i poveri hanno diritto. Oggi però, venuta meno quasi ovunque la legislazione sull’elemosina legale, zakât e sadaqah tendono qualche volta a identificarsi.
  1. Il digiuno, o sawm, è il quarto pilastro dell’Islam. Il digiuno legale dura un intero mese, il mese di ramadân, è prescritto dal sorgere del sole al tramonto e annunciato dal mu’azzin. Digiunare per il musulmano significa astenersi completamente non solo da cibo e bevande di ogni sorta ma anche dall’unione coniugale con la propria moglie. Ramadân è un mese lunare e ogni anno si sposta quindi in avanti di undici-dodici giorni. Corrisponde, al mese della rivelazione del Corano, avvenuta nella notte fra il 26 e il 27 del mese di ramadân del 610.
  1. Quanto al pellegrinaggio alla Mecca, o hâjj, deve essere compiuto almeno una volta durante la vita da ogni musulmano che ne abbia la possibilità. Il pellegrinaggio rituale alla Mecca deve essere fatto in uno speciale momento dell’anno (nel mese Dhû-‘l-Hijja) e deve seguire una ritualità stabilita dagli antichi testi tradizionali; si distingue dal piccolo pellegrinaggio o visita alla città santa che può essere fatta in qualsiasi momento dell’anno.

Un ulteriore importante dovere per i musulmani è rappresentato dalla jihâd nel suo significato di “guerra”. Il Corano vieta la guerra anche per risolvere dispute internazionali e non menziona mai l’espressione “guerra santa”, ma autorizza i musulmani a entrare in guerra contro coloro che li combattano in virtù della loro religione.

Mentre i precedenti cinque pilastri della fede sono, secondo il diritto musulmano, fard ‘ayn, ovvero obblighi del singolo, la jihad è fard kifâya ovvero è un dovere obbligatorio solo collettivamente. È sufficiente che un gruppo, anche se esiguo, lo ottemperi perché tutti siano esonerati. Secondo alcune interpretazioni è sufficiente che uno Stato organizzi bene il proprio esercito come difesa del territorio islamico perché sia assolto il dovere della jihad. È molto netta, fin dalle origini, la distinzione fra il territorio musulmano (dâr al-Islam) e quello degli infedeli (dâr al-harb, territorio di guerra) che deve essere conquistato alla vera fede.

Oggi non si pensa più alla conquista militare come tramite di conversioni, ma si continua a insegnare che in caso di attacco da parte degli infedeli il dovere comunitario diventa dovere di ogni singolo fedele per la difesa del sacro suolo dell’Islam.

Peraltro, nonostante i riferimenti bellici che sono stati attribuiti al termine jihad, questa parola significa letteralmente “sforzarsi sulla via di Dio” e quindi si deve distinguere fra una guerra interiore, personale, di conversione, e una guerra esterna, cruenta. Le scuole di impostazione più spirituale, e soprattutto il mondo del sufismo, hanno sempre messo in secondo piano la jihad materiale, preferendo porre l’accento sulla “guerra interiore” che ogni fedele deve combattere per convertirsi e avvicinarsi al volere di Dio.

Nell’Islam vi sono altre regole, o prescrizioni, fra l’altro per i momenti cruciali della vita dell’uomo: nascita, matrimonio, morte. Nella società tribale pre-islamica l’uomo poteva avere un numero illimitato di mogli. Poteva ripudiarle senza motivo, né testimoni, né risarcimento, né mantenimento dei figli. Il Corano ammette la poligamia, ma limita a quattro il numero massimo delle mogli. Il matrimonio è un rito compiuto in forma semplice, giuridicamente un contratto fra lo sposo e il walî o rappresentante legale della sposa, della quale però è in genere (ma non ovunque) obbligatorio il consenso.

Oggi è richiesta anche la presenza fisica della donna e l’esplicitazione da parte sua del consenso all’unione matrimoniale. Inoltre la donna può fare includere nel contratto matrimoniale una clausola che escluda la poligamia o che le garantisca il ripudio in caso di nuovo matrimonio non desiderato da parte del marito.

Oggi è molto discussa la poligamia e in molti contesti culturali sta scomparendo o addirittura – come in Tunisia – è vietata. Chi tende a contestare la liceità delle quattro mogli fa riferimento al versetto coranico in cui Muhammad obbliga il marito a trattare nello stesso modo tutte le donne che entreranno sotto il suo tetto (il che, si sostiene, è oggi praticamente impossibile).

Alcuni poi insistono sul fatto che l’uguale trattamento si riferisce all’affetto e alle attenzioni, mentre altri allargano il concetto anche ai beni materiali quali le camere dell’appartamento, i vestiti, i gioielli, e così via. La legge ammette il matrimonio di un uomo musulmano con donne delle “genti del Libro” (ebree o cristiane), ma non viceversa. Il ripudio della moglie da parte del marito è piuttosto facile. Anche la moglie può chiedere la separazione ma necessita di un giudice, o qâdî, e le è permesso solo in casi gravi quali maltrattamenti, malattia del marito, abbandono, e ora anche poligamia indesiderata.

In caso di morte del credente la legge prevede le seguenti quattro operazioni: 1) l’abluzione completa dal cadavere; 2) l’avvolgimento del cadavere in sudari; 3) la preghiera dei morti; 4) il seppellimento vero e proprio. È inoltre usanza celebrare un banchetto funebre il settimo e il quarantesimo giorno dopo la morte, ma non nel giorno del seppellimento.

Vi sono inoltre alcune regole di comportamento riconosciute da tutto il mondo islamico. In teoria divieti categorici riguardano l’usura e il prestito a interesse su cui oggi vi è un attento dibattito, vista l’importanza acquisita in tutto il mondo dalle operazioni bancarie. Le bevande alcoliche sono anch’esse vietate, anche se alcuni interpreti (considerati dai più lassisti) ritengono che il loro uso sia lecito e sia invece solo categoricamente vietato l’ubriacarsi.

Per quanto concerne i cibi, il testo sacro è molto esplicito ed esclude la possibilità di consumare la carne di maiale, degli animali morti di morte naturale, il sangue e le carni macellate in modo improprio. È previsto infatti un attento rituale per l’uccisione degli animali, molto simile a quello usato presso gli ebrei, che consiste in un taglio deciso alla base del collo dopo avere rivolto il capo della bestia verso la Mecca e avere pronunciato l’invocazione bi’smi Llâhi (“in nome di Dio”). Il taglio netto all’altezza della giugulare ha lo scopo di far defluire la maggior quantità possibile di sangue dal corpo dell’animale affinché non vi sia coagulazione interna.

Inoltre nei primi secoli furono vietate severamente anche le pitture e le sculture che riproducessero Dio, gli angeli e anche gli uomini per evitare che vi fosse un ripiego idolatrico e la rinascita di forme politeistiche di devozione popolare. Per questo la civiltà islamica vide fiorire l’arte degli arabeschi, ovvero l’uso della scrittura per adornare strutture architettoniche e libri. Da tempo ormai i divieti in proposito si sono molto attenuati e, sebbene rimanga la proibizione verso la raffigurazione della divinità, sono permesse sia la pittura sia la scultura della figura umana, anche se negli ambienti più conservatori permane una certa diffidenza.

L’Islam sunnita in Sicilia

La presenza islamica sunnita in Sicilia dall’VIII al XI secolo è parte integrante della storia dell’Isola. Ha lasciato tracce un po’ dovunque: nell’architettura, nel cibo, nel linguaggio, nella toponomastica e nei nomi più tardi diventati cognomi. Gli specialisti pensano che i cognomi che terminano in “-alà” come Fragalà o Zappalà siano in gran parte derivazioni da antichi nomi arabi con un riferimento ad Allâh.

Quanto alla toponomastica, senza entrare nelle controversie che talora dividono gli studiosi, Marsala è probabilmente il porto (marsa) di Allâh (secondo altri di ‘Alî) mentre i nomi che iniziano per “Cal-“, da Caltanissetta fino a Caltagirone, Calatafimi e così via derivano da qal’a, “castello” o “fortezza” in arabo, così come molte città, montagne e paesi contengono nel nome l’arabo jabal (“monte”: Mongibello, l’antico nome dell’Etna; Ghibellina; Gibilmanna). E così via.

La prima presenza islamica in Sicilia avviene sotto forma di scorrerie e brevi occupazioni, purtroppo non di rado accompagnate da massacri: così a Pantelleria nel 700 e a Siracusa nel 750. L’idea di una conquista dell’isola sorge però tra i musulmani solo con lo sbarco a Mazara, occupata dopo una dura resistenza nel 827, seguito dalle prese di Palerno (831), Messina (842), Ragusa (849), Enna (859), Siracusa (878).

L’ultima città siciliana a cadere è Taormina nel 902. Inizia qui la storia della Sicilia araba: una storia culturalmente e anche militarmente gloriosa, se si pensa che truppe siciliane condotte da un generale siciliano, Jawhar as-Siqilli (cioè Jawhar il Siciliano) saranno decisive per la conquista dell’Egitto e proprio Jawhar fonderà nel 969 la città del Cairo. Si tratta tuttavia di una storia che non va idealizzata: i musulmani non conducono una politica di islamizzazione forzata della Sicilia (anche perché il loro dominio dura troppo poco), pur se si registrano numerose conversioni, ma le relazioni con i cristiani non vanno considerate neppure come sempre e soltanto idilliache.

La Sicilia patirà inoltre le conseguenze delle lotte intestine fra i vari “signori della guerra” musulmani, sostanzialmente incontrollabili da qualunque autorità centrale. E saranno proprio queste lotte che faciliteranno nel 1061 lo sbarco dei Normanni, che in trent’anni – fino alla caduta di Noto del 1091 – riconquisteranno la Sicilia all’Europa cristiana. Dei due secoli di dominio musulmano resta una ricca eredità culturale.

Ma lo stesso imperatore Federico II (1194-1250) – i cui rapporti con l’Islam sono spesso descritti in modo un po’ agiografico – , se mostrerà una grande curiosità intellettuale per il lascito culturale musulmano, reprimerà anche nel sangue le ultime rivolte della minoranza islamica, che i re normanni avevano fatto oggetto di una relativa tolleranza. Il grande imperatore in parte deporterà a Lucera, in Puglia, quanto rimaneva del mezzo milione di musulmani presenti in Sicilia a metà dell’XI secolo, e in parte li indurrà a emigrare nei paesi arabi, mentre di molti favorirà la conversione al cristianesimo.

Peraltro, marinai musulmani continueranno a frequentare le coste della Sicilia, e un punto di incontro e di collaborazione sostanzialmente pacifica sarà per molti secoli l’isola di Lampedusa. Dopo i grandi scontri fra la cristianità occidentale e l’Islam per il controllo del Mediterraneo a partire dal XVI secolo, questi rapporti pacifici sostanzialmente cessano. Il successivo grande incontro fra la Sicilia e l’Islam avverrà con l’emigrazione di siciliani in terra islamica, che inizia nel 1835 con la partenza di nuclei di trapanasi verso l’Algeria: ci sarà una presenza nella Libia, colonia italiana, ma il grosso si dirigerà verso la Tunisia, dove dei centomila italiani presenti prima della Seconda guerra mondiale si stima che la metà fosse siciliana. Infine, negli anni 1970 inizierà un’emigrazione in senso contrario, dai paesi del Nordafrica (e non solo) verso la Sicilia.

La storia dell’Islam siciliano è in parte diversa da quella dell’Islam nel resto d’Italia, e per questo la anticipiamo in questo paragrafo. La differenza è dovuta alla massiccia presenza di tunisini, in parte stagionali e in parte stanziali, venuti all’origine soprattutto a Mazara del Vallo, dove oggi rappresentano almeno un quinto della popolazione.

Le stime più recenti parlano di un numero di musulmani in Sicilia che va dai 36.000 ai 40.000 (i regolari considerati dalla Caritas musulmani nel 2005 erano 36.596), con una prevalenza di tunisini (12.000 circa), che costituiscono il maggior gruppo di immigrati nella regione. Si tratta di un dato anomalo rispetto all’Italia in genere dove non solo romeni e albanesi sono ben più numerosi dei tunisini, ma fra gli stessi nordafricani i marocchini sfiorano le 250.000 unità contro i 65.000 tunisini. La provincia di Ragusa è, in termini percentuali sull’insieme della popolazione, la prima provincia d’insediamento di immigrati tunisini in Italia, e Mazara del Vallo il primo comune.

Questo dato non è privo di conseguenze religiose specifiche. In effetti il governo tunisino si è sforzato di controllare la gestione della vita religiosa degli immigrati in Sicilia attraverso accordi con le autorità italiane e la presa in carico diretta delle moschee: la piccola moschea di Mazara, aperta nel 1996, e la moschea di Palermo, ex chiesa cattolica di san Paolino dei Giardinieri, ceduta al culto islamico con il consenso del cardinale Salvatore Pappalardo e oggetto di un accordo italo-tunisino del 1990.

La moschea di Palermo è formalmente gestita da un’associazione interetnica, ma di fatto l’influenza dell’attuale governo tunisino è decisiva, così come avviene per la moschea di Mazara. Ora, il governo al potere in Tunisia, guidato dal generale Zine El Abidine Ben Ali, erede politico del presidente Habib Bourghiba (1903-2000), è un governo laico se non laicista, un esempio tipico di quel nazionalismo nordafricano, spesso incarnato da militari, che cerca di coniugare un’idea di laicità di ispirazione francese con caute professioni di rispetto della cultura islamica, cui si accompagna – per usare un eufemismo – una diffidenza verso qualunque forma di Islam che cerchi di fare della fede musulmana la sua ispirazione politica.

Di qui anche, da parte del governo di Tunisi, una gestione dell’Islam tunisino in Sicilia che ad alcuni sociologi è apparsa “minimalista” e ispirata soprattutto a criteri di sorveglianza contro qualunque infiltrazione dell’Islam politico: con il duplice risultato di un’influenza dell’Islam tunisino-siciliano sull’Islam italiano in genere assai minore di quella che i numeri sembrerebbero consentire, e di una scarsa attrazione delle moschee “ufficiali” proprio sulla parte dell’immigrazione tunisina più religiosa e più sensibile alle nuove tendenze di tipo conservatore e (neo-)fondamentalista, che non le frequenta considerandole infeudate a un governo che non apprezza. L’Islam corrispondente alle tendenze maggioritarie tra gli immigrati tunisini si raduna così piuttosto in sale di culto indipendenti: da Modica a Vittoria, da Scicli a Comiso.

La stessa sorte – per analoghe ragioni – ha avuto la “Moschea del Califfo Omar” fatta costruire a Catania nel 1980 – si tratta dunque della più antica moschea italiana – dall’avvocato Michele Papa con il supporto del governo libico, scarsamente frequentata dagli immigrati che preferiscono radunarsi in luoghi di culto più modesti ma che considerano più “loro”. Oggi la moschea di Catania è più che altro oggetto di visite turistiche di non musulmani, anche se ha ospitato un piccolo gruppo di sciiti, mentre l’Islam sunnita, ben presente nella città etnea, si raduna altrove.

Tuttavia, la priorità dell’immigrazione tunisina nell’Islam siciliano è oggi ben lontana dal costituire un monopolio. Tra l’altro, un buon numero di tunisini è stagionale e altri aspirano a ritornare in Tunisia: l’83,5% degli immigrati tunisini è costituito da maschi.

Le famiglie non mancano, ma sono in minoranza. Questo spiega perché, secondo dati del 2005, nonostante il primato tunisino fra gli adulti, nel sistema scolastico siciliano fra gli allievi musulmani i giovani tunisini non siano in maggioranza. Solo nelle province di Ragusa e Trapani il numero maggiore di alunni musulmani è tunisino: anzi, nella provincia di Trapani gli studenti tunisini rappresentano il 70,7% degli alunni non italiani.

Nelle province di Caltanissetta, Siracusa, Agrigento ed Enna la maggioranza degli allievi islamici delle scuole è marocchina; a Messina, albanese (nonostante l’Islam albanese sia spesso assai laicizzato e “nominale”); mentre a Palermo la maggioranza relativa di alunni non italiani (non solo musulmani) proviene dal Bangladesh e a Catania dalle Mauritius.

Per questi ultimi dati si deve tenere conto che i musulmani sono maggioranza nel Bangladesh (83% contro un 17% di induisti) e che questa maggioranza si accentua nell’immigrazione in Italia; mentre nelle Mauritius la maggioranza è induista e questo dato sembra confermarsi anche nell’immigrazione italiana, pur essendo presente una consistente minoranza islamica, così che è possibile che la maggioranza degli studenti musulmani in provincia di Palermo si suddivida in realtà equamente fra marocchini e tunisini. Con questi dati, e proiettandosi sulle future generazioni, l’Islam siciliano perde gradualmente la sua specificità tunisina e si proietta verso forme più simili a quelle dell’Islam italiano in genere, cui dunque possiamo ora ritornare.

L’Islam sunnita in Italia

A prescindere da presenze antiche e medievali, che hanno lasciato importanti tracce monumentali non solo in Sicilia, l’Islam sunnita moderno in Italia è stato una realtà modesta fino alla fine degli anni 1960. In questo decennio comincia a organizzarsi una presenza di qualche centinaio di studenti (soprattutto siriani, giordani e palestinesi) che si aggiungono ai pochi uomini d’affari e al personale delle ambasciate.

Alla fine degli anni 1960 si ha anche la prima presenza musulmana sunnita organizzata in Italia con la formazione della realtà studentesca che porta nel 1971 alla costituzione dell’USMI (Unione degli Studenti Musulmani d’Italia), che si sviluppa nelle città universitarie a partire da Perugia e nel decennio 1970-1980 apre una dozzina di luoghi di preghiera.

Nel frattempo a Roma si organizza il Centro Islamico Culturale d’Italia, il cui consiglio di amministrazione è composto prevalentemente da ambasciatori di paesi sunniti presso l’Italia o presso la Santa Sede; i progetti per una grande moschea a Roma sono avviati nel 1974 ma l’inaugurazione ufficiale seguirà solo nel 1995.

Esiste così, fin dagli anni 1970, una distinzione – notata da diversi studiosi, anche se messa in discussione da altri – fra due forme di organizzazione dell’Islam sunnita italiano: l'”Islam delle moschee” e l'”Islam degli Stati”, distinzione che diventa più importante – come si vedrà nei paragrafi dedicati alle singole organizzazioni – con l’esplosione dell’immigrazione islamica degli anni 1980 e 1990, che porta i musulmani sunniti sul territorio italiano a un numero stimato dalla Caritas a 919.000 e da noi – per le ragioni indicate nell’Introduzione a questo lavoro – a 850.000, anche se da una parte l’immigrazione clandestina è, evidentemente, difficile da quantificare, dall’altra la stima parte dai dati degli immigrati regolari all’1.1.2005, suscettibili di modifiche nel 2006.

Quanto ai convertiti, si avanza spesso la cifra di diecimila, forse approssimata per eccesso: si deve inoltre tenere conto del fatto che molti si convertono formalmente al solo scopo di potere sposare una donna musulmana cittadina di un paese a maggioranza islamica (che, diversamente, spesso non otterrebbe i necessari documenti dalla sua ambasciata), ma non perseverano nella religione dopo il matrimonio.

Il problema della rappresentanza dei musulmani sunniti in Italia si intreccia con quello del “fondamentalismo”, nome che (sulla scia di espressioni straniere) gli studiosi attribuiscono a un vasto movimento di risveglio che nel corso del XX secolo intende reagire alla occidentalizzazione delle società islamiche, proponendone al contrario una nuova islamizzazione.

Nella corrente fondamentalista è possibile però distinguere – sulla scia di Renzo Guolo – una tendenza “radicale”, che si propone la conquista del potere politico e quindi la islamizzazione “dall’alto”, e una “neo-tradizionalista”, che intende piuttosto costituire nella società (in genere attorno alle moschee) spazi integralmente islamizzati, capaci di promuovere una islamizzazione della società “dal basso”.

La maggiore organizzazione fondamentalista è quella dei Fratelli Musulmani, fondata in Egitto nel 1928 da Hasan al-Banna (1906-1949), che si è gradualmente diffusa in tutto il mondo sunnita. Nel corso della dirigenza di Sayyid Qutb (1906-1966) tra i Fratelli Musulmani sono emerse tendenze radicali, che sono state però respinte dalla maggioranza del movimento dopo la morte di Qutb, giustiziato in Egitto nel 1966.

Dopo Qutb, i Fratelli Musulmani emergono come un movimento “neo-tradizionalista”, che in genere dichiara di rifiutare l’uso della violenza, da cui si separano movimenti radicali come al-Jama’a al-Islamiyya e al-Jihad. Nei paesi di emigrazione i Fratelli Musulmani sostituiscono all’ideale di una islamizzazione della società, che perseguono nei paesi a maggioranza islamica, quello della creazione di spazi islamizzati nella società, all’interno dei quali ai musulmani (sunniti) siano riconosciuti “diritti collettivi” e uno statuto comunitario specifico (con riferimento in particolare al diritto di famiglia).

A livello internazionale i Fratelli Musulmani hanno avuto rapporti non facili con gli Stati, ma dopo la rivoluzione iraniana e il conseguente pericolo di un risveglio sciita molti osservatori hanno notato una “alleanza” non dichiarata fra i Fratelli e l’Arabia Saudita volta a contrastare la penetrazione sciita nel mondo sunnita (e che comprenderebbe l’accordo dei Fratelli a svolgere una limitata attività in Arabia Saudita e nei paesi da questa più direttamente influenzati). Ma nella prima Guerra del Golfo i Fratelli Musulmani e l’Arabia Saudita si sono collocati su posizioni opposte, e dopo l’11 settembre 2001 i rapporti si sono molto raffreddati.

Le stesse difficoltà sono emerse in Italia nei rapporti tra l’UCOII, l’organizzazione emersa dall’USMI che è più direttamente influenzata dai Fratelli Musulmani, e la Lega Musulmana Mondiale dove è forte l’influenza saudita. Nel 1982, per assicurare un certo carattere unitario all’organizzazione, era stato fondato un Consiglio Internazionale dei Fratelli Musulmani.

Quest’organismo nel novembre 2004 – presente e consenziente il leader più autorevole dei Fratelli, l’egiziano Muhammad Mahdi ‘Akif (autorizzato per l’occasione dal regime egiziano, che pure lo aveva privato del passaporto, a recarsi all’estero) – è stato formalmente sciolto in una riunione tenuta nel Qatar. Naturalmente la fine del Consiglio Internazionale – di cui i Fratelli hanno del resto fatto a meno fra il 1928 e il 1982 – non significa la fine dell’organizzazione.

Nessuno pensa evidentemente di scioglierne le branche nazionali. Quanto al coordinamento mondiale, lo scioglimento del Consiglio Internazionale segue la fondazione di un Consiglio Mondiale degli ‘Ulama Musulmani, molti dei quali membri dei Fratelli Musulmani o a loro vicini, presieduto dal tele-predicatore Yusuf al-Qaradawi e la cui sede è stata fissata nella tranquilla Dublino.

Al-Qaradawi appartiene alla corrente cosiddetta “neo-fondamentalista”, legata anche al carismatico predicatore residente in Svizzera Tariq Ramadan, che si presenta come più “moderata” rispetto alle tradizionali posizioni dei Fratelli, ma mantiene sia un legame di fondo con le categorie neo-tradizionaliste sia posizioni assai critiche verso l’Occidente, talora mediate da un discorso movimentista e anti-globalista derivato dai no global europei.

Tanto dai Fratelli Musulmani quanto dalle organizzazioni legate all’Arabia Saudita si sono sempre differenziati in Occidente sia gruppi di musulmani sunniti filo-occidentali (rappresentati in Italia dalla CO.RE.IS. e, su scala assai minuscola, dall’AMI), sia paesi come il Marocco e l’Egitto che diffidano sia dei Fratelli Musulmani sia dei sauditi e che vorrebbero perseguire la logica di un “Islam degli Stati” che segue i propri cittadini all’estero anziché delegare la rappresentanza dell’Islam a organizzazioni “di base” sorte nei vari paesi occidentali e normalmente orientate in senso fondamentalista.

Fra le espressioni italiane dell'”Islam degli Stati” si devono citare – oltre al sostegno della Libia all’Unione Islamica in Occidente – la già citata moschea di Palermo, su cui ha decisiva influenza il governo tunisino; l’Istituto Culturale Islamico (I.C.I.), sostenuto dall’Egitto; e la Missione Culturale dell’Ambasciata del Marocco, che sostiene diverse moschee “spontanee” che non aderiscono ad associazioni o federazioni.

L’Intesa con lo Stato italiano costituisce da anni un’aspirazione dei musulmani sunniti che vivono in Italia. Per lo Stato, uno dei problemi è stata l’identificazione di realtà islamiche effettivamente rappresentative; i contrasti fra l'”Islam delle moschee” e l'”Islam degli Stati” non hanno reso più facile la questione. Allo scopo dichiarato di risolvere questi problemi, il 15 aprile 2000 era stata formalizzata la costituzione dell’associazione Consiglio Islamico d’Italia, con lo scopo precipuo di dar vita a un organismo unitario di rappresentanza dell’Islam al fine di stipulare un’Intesa con lo Stato italiano e – una volta che tale Intesa fosse stata raggiunta – di curarne la esecuzione e le eventuali modifiche.

Soci fondatori del Consiglio erano l’UCOII (che rappresenta l'”Islam delle moschee”), la sezione italiana della Lega Musulmana Mondiale (o “Lega del Mondo islamico”) e – dopo vari contrasti con la sua componente marocchina, non favorevole all’accordo – il Centro Islamico Culturale d’Italia, che rappresenta l'”Islam degli Stati”. L’accordo fra l’UCOII e la Lega Musulmana Mondiale era stato letto da vari osservatori come trasposizione sul piano italiano dell’alleanza tra i Fratelli Musulmani e l’Arabia Saudita.

Presidente dell’organismo era l’ambasciatore Mario Scialoja, della Lega Musulmana Mondiale; vice-presidente Dachan Mohamed Nour, dell’UCOII, cittadino italiano e già esponente di rilievo dei Fratelli Musulmani siriani.

Il consiglio direttivo era composto da quattordici membri, sette in rappresentanza dell’UCOII, tre in rappresentanza del Centro Islamico Culturale d’Italia, tre in rappresentanza della Lega Musulmana Mondiale – Italia, e un membro in rappresentanza di comune accordo fra il Centro e la Lega. L’accordo creava un nuovo soggetto per la rappresentanza del mondo islamico (sunnita) italiano ed era stato interpretato come la saldatura – nonostante il dissenso marocchino – fra l'”Islam delle moschee” e quella parte dell'”Islam degli Stati” che è egemonizzata o almeno orientata dall’Arabia Saudita.

Senonché anche sul Consiglio Islamico d’Italia si è abbattuto l’11 settembre 2001, e le difficoltà fra i Fratelli Musulmani e l’Arabia Saudita hanno travolto anche questo tentativo di rappresentanza unitaria italiana, che allo stato sembra sopravvivere solo sulla carta. Peraltro – senza che si tratti di un organismo di rappresentanza, e anzi sottolineandone la funzione meramente consultiva – il 30 novembre 2005 il Ministro dell’Interno ha annunciato la nomina di sedici componenti di una “Consulta per l’Islam italiano”, composta da esponenti della religione o della cultura islamica, metà dei quali cittadini italiani, che provengono sia dal mondo della cultura e delle associazioni del cosiddetto “Islam laico”, sia dai dirigenti di alcune associazioni religiose.

Per l’Islam sunnita si tratta di UCOII, Lega Musulmana Mondiale, CO.RE.IS. e UIO, cui si aggiunge una presenza non sunnita rappresentata dalla presidentessa della Comunità Ismailita Italiana.

Accanto alle organizzazioni che aspirano a rappresentare, come si vede con alterne vicende, i musulmani sunniti italiani – appunto anche in vista di un’Intesa con lo Stato – vi sono in Italia altre presenze rilevanti: movimenti missionari (il più importante dei quali è quello dei Tabligh), confraternite (di cui si tratterà in tema di sufismo) e organizzazioni di tipo nazionale o socio-religioso.

B.: La bibliografia generale, anche solo in lingua italiana, è molto vasta. Fra i molti titoli, cfr. Mohammed Arkoun – Maurice Borrmans, Islam: religione e società, ERI, Torino 1980; Federico Peirone, Islam, Quiriniana, Brescia 1981; Alessandro Bausani, L’Islam, Garzanti, Milano 1987; Paolo Branca, Introduzione all’Islam, San Paolo, Cinisello Balsamo 1995; Silvia Scaranari Introvigne, L’Islam, Elle Di Ci, Leumann (Torino) 1998; Khaled Fuad Allam – Claudio Lo Jacono – Alberto Ventura, Islâm, a cura di Giovanni Filoramo, Laterza, Bari 1999; Augusto Tino Negri, I cristiani e l’islàm in Italia. Conoscere, capire, accogliere i musulmani, Elle Di Ci, Leumann (Torino) 2000; Centro Federico Peirone, L’Islam. Storia, dottrina, rapporti con il cristianesimo, Elledici, Leumann (Torino) 2004. Sul diritto: Giuseppe Caputo, Introduzione al Diritto Islamico, Giappichelli, Torino 1990. Sulle divisioni: Henri Laoust, Gli scismi nell’Islam, trad. it., ECIG, Genova 1990. Sull’Islam sunnita in Italia cfr. Stefano Allievi – Felice Dassetto, Il ritorno dell’Islam. I musulmani in Italia, Edizioni Lavoro, Roma 1993; Chantal Saint-Blancat (a cura di), L’Islam in Italia. Una presenza plurale, Edizioni Lavoro, Roma 1999; Silvio Ferrari (a cura di), Musulmani in Italia. La condizione giuridica delle comunità islamiche, Il Mulino, Bologna 2000. Su alcuni problemi politici sollevati dalla presenza di immigrati musulmani, cfr., in chiave critica, Giovanni Cantoni, Aspetti in ombra della legge sociale dell’islam. Per una critica della vulgata “islamicamente corretta”, Centro Studi “A. Cammarata”, San Cataldo (Caltanissetta) 2000. Sui convertiti italiani: S. Allievi, I nuovi musulmani. I convertiti all’Islam, Edizioni Lavoro, Roma 1999. Sul fondamentalismo: Massimo Introvigne, Fondamentalismi. I diversi volti dell’intransigenza religiosa, Piemme, Casale Monferrato (Alessandria) 2004.

L’UNIONE DELLE COMUNITA’ ED ORGANIZZAZIONI ISLAMICHE IN ITALIA (UCOII)

Unione delle Comunità ed Organizzazioni Islamiche in Italia (UCOII) – ONLUS

Via Quattro Fontane, 109 – 00184 Roma

Tel. (presidenza): 0731-814779; Fax (presidenza): 0731-817658: (segreteria nazionale): 0183-764735

E-mail: ucoii@uno.it

URL: www.islam-ucoii.it/

L’UCOII nasce sulla scia dell’USMI quando l’Islam sunnita “delle moschee” in Italia, a causa del boom dell’immigrazione, non si presta più a essere rappresentato da un organismo dichiaratamente studentesco. Per iniziativa di membri del Centro culturale islamico di Milano e Lombardia (nato a sua volta nel solco dell’USMI e attivo anche su scala nazionale, con la pubblicazione de Il messaggero dell’Islam e con una sua richiesta di Intesa allo Stato italiano), l’UCOII è costituita ad Ancona nel 1990.

Dopo avere “ereditato” le strutture dell’USMI, emerge come la realtà musulmana italiana più diffusa e radicata sul territorio, con una forte influenza dei Fratelli Musulmani, e si candida subito a essere interlocutore dello Stato italiano in vista dell’Intesa. Nel 1993 l’UCOII inizia la pubblicazione de Il musulmano, che cessa però per difficoltà economiche nel 1994. L’UCOII ha patrocinato la traduzione in italiano del Corano (quattro edizioni, oltre cinquantamila copie) e di altra letteratura religiosa islamica.

All’UCOII fanno capo una trentina di centri islamici, che svolgono attività di ordine sociale, assistenziale, di informazione e mediazione istituzionale, cui fanno capo a loro volta un’ottantina di moschee dove si svolgono pratiche rituali e una più ridotta attività di carattere culturale; vi sono inoltre quasi trecento luoghi di preghiera che non hanno ancora lo status di moschea e talora sono ubicati in appartamenti privati. Attraverso congressi, campeggi, attività culturali, rapporti con le autorità politiche, l’UCOII persegue il suo scopo della costruzione di un Islam italiano.

Il modello dell’UCOII prevede la creazione di spazi islamizzati “puri” e la negoziazione di uno statuto collettivo che diffida dell’integrazione individuale che porterebbe invece alla occidentalizzazione del singolo immigrato. Felice Dassetto parla di “integrazione esternalizzata”: si persegue l’integrazione economica e sociale, ma non quella culturale, difendendo invece l’esistenza di spazi caratterizzati da una certa separatezza e dalla consapevolezza della propria diversità rispetto al costume occidentale.

Fra le moschee che fanno capo all’UCOII, alcuni studiosi hanno notato che “numerose sono quelle i cui dirigenti in qualche modo si ispirano all’ideologia dei Fratelli Musulmani” (così Andrea Pacini, “I musulmani in Italia. Dinamiche organizzative e processi di interazione con la società e le istituzioni italiane”, in S. Ferrari [a cura di], Musulmani in Italia. La condizione giuridica delle comunità islamiche, il Mulino, Bologna 2000, pp. 21-52 [p.44]).

Autonoma rispetto all’UCOII, i cui centri normalmente ne diffondono le pubblicazioni, è la casa editrice Al-Hikma, fondata dal segretario dell’Unione, Hamza Roberto Piccardo, cui si ricollega anche il portale islamico italiano islam-online.it. Collegate all’UCOII sono invece l’associazione educativa e culturale ACEII (Associazione Cultura e Educazione Islamica in Italia), dal 2005 denominata “Alleanza dei Musulmani in Italia”, l’ADMI (Associazione Donne Musulmane in Italia), i GMI (Giovani Musulmani d’Italia) e l’ente di gestione dei beni islamici al Waqf al Islami in Italia. Tutta una serie di istituzioni locali – come il già citato Centro Islamico di Milano e Lombardia di Segrate, animato dal convertito italiano ‘Abdur-Rahman Rosario Pasquini, che gestisce le Edizioni del Càlamo e continua pubblicare la menzionata rivista Il Messaggero dell’Islam – sono articolazioni dell’UCOII sul territorio e non sono dunque oggetto di trattazione separata in questa sede.

In Sicilia aderiscono all’UCOII due centri a Catania (Comunità Islamica e Associazione Islamica), tre a Palermo (tutti denominati Associazione Islamica e identificati dalle vie dove hanno sede, rispettivamente Via C. Guastella, Via Ricasoli e Vico Guascone), uno a Messina (anch’esso denominato Associazione Islamica) e uno per comune – sempre con il nome Associazione Islamica – a Vittoria (Ragusa) e Donna Lucata (Ragusa), questi ultimi espressione in particolare di quell’Islam tunisino che non si riconosce nelle “moschee di Stato” controllate direttamente o indirettamente dal governo di Tunisi, nei cui confronti la dirigenza dell’UCOII mantiene una posizione critica.

Si può anche menzionare che alcuni dirigenti storici hanno lasciato l’UCOII per dissensi con la linea dell’attuale presidenza e operano come attivisti islamici indipendenti: così Federico Alì Schuetz, che per anni aveva animato a Milano il Fondaco dei Mori, oggi non più esistente.

B.: Il Corano, traduzione a cura di Hamza Roberto Piccardo, Newton Compton, Milano 1996. Si vedano inoltre: Abu Bakr Djeber Al Djazairi, La via del musulmano, trad. it., UCOII – USMI – Centro Islamico di Milano, Perugia 1990; Muhammad Sulaiman Al-Ashqar, Il cammino verso l’Islàm, trad. it., Al Hikma-UCOII, Imperia 1995; e Sadik Mohammed Sharaf, Il Ricordo e l’Invocazione di Allah, Al Hikma-UCOII, Imperia 1995.

 L’ASSOCIAZIONE CULTURALE ISLAMICA IN ITALIA

L’Associazione Culturale Islamica in Italia

Via dei Frassini, 4 – 00172 Roma

Tel.: 06-2300461

E-mail: acii@alhuda.it

URL: www.alhuda.it

Fondata nel 1994 presso la Moschea al-Huda di Roma, la seconda moschea di Roma a Centocelle, l’Associazione riunisce immigrati di diverse nazionalità, con una partecipazione media di circa settecento persone alla preghiera del venerdì.

Dichiara di non volere essere considerata una semplice articolazione locale dell’UCOII ma mantiene stretti rapporti sia con la stessa UCOII, sia con un buon numero di centri islamici, molti dei quali aderenti all’UCOII, in tutta Italia. Organizza corsi di lingua araba e cultura islamica, e iniziative di dialogo interreligioso in sedi scolastiche e istituzionali.

 L’ISTITUTO CULTURALE ISLAMICO DI VIALE JENNER A MILANO

L’Istituto Culturale Islamico

Viale Jenner, 50 – 20159 Milano

Tel.: 02-66802999 – 02-6071856; Fax: 02-66802777

Nato nel 1988 da un gruppo che si separa dal Centro Islamico di Milano e Lombardia, l’Istituto di Viale Jenner è inizialmente su posizioni più “moderate” rispetto al neo-tradizionalismo del Centro. Successivamente, però, il gruppo fondatore lascia l’Istituto ed è sostituito da una leadership fondamentalista di tipo radicale che sviluppa una decisa critica del neo-tradizionalismo dei Fratelli Musulmani, accusati di moderatismo, e dell’UCOII.

L’Istituto diventa così punto di riferimento italiano delle correnti fondamentaliste radicali che si dichiarano non interessate a un’Intesa con lo Stato. Una delle attività principali dell’Istituto – che ha qualche migliaio di frequentatori – è una scuola frequentata da oltre duecento bambini, che si rivolge a quei figli di immigrati che, intenzionati a tornare nei loro paesi dopo un soggiorno relativamente breve, non sono interessati a inserirsi nella scuola italiana. I certificati rilasciati dalla scuola dell’Istituto non sono, pertanto, riconosciuti in Italia, ma sono riconosciuti in alcuni paesi arabi.

Sospettato di contatti con organizzazioni terroristiche, l’Istituto – che nega ogni addebito – è stato oggetto a partire dal giugno 1995 di ripetute irruzioni e indagini di polizia che gli hanno procurato una pubblicità certamente non gradita. Vi fanno capo alcune altre moschee dell’area milanese.

B.: Il trimestrale Il Corriere dell’Islam ha visto pubblicato un unico numero, nel 1994; continua invece le pubblicazioni il bollettino in lingua araba Sawtu-l Haqq. Fra le pubblicazioni edite dall’Istituto: Jaafar Sheikh Idris, I Pilastri della Fede, traduzione a cura di Manuela Giolfo, 1993; Sheikh Muhammad Ibn Ismail, L’Hijab… Perché?, traduzione e commento a cura di Abdul Galil, 1994.

LA LEGA MUSULMANA MONDIALE – ITALIA

La Lega Musulmana Mondiale – Italia

Viale della Moschea, 85 – 00197 Roma

Tel.: 06-80666134; Fax: 06-8079515

E-mail: lmm.italia@flashnet.it

URL: www.lega-musulmana.it

La Lega Musulmana Mondiale (o Lega del mondo islamico, in inglese World Islamic League, in arabo Rabita) è stata fondata alla Mecca nel 1962. I suoi obiettivi sono quelli dell’informazione e della difesa apologetica dell’Islam, che persegue attraverso iniziative di carattere spirituale e di sostegno economico alle comunità sunnite meno abbienti, e attraverso la partecipazione come organizzazione non governativa riconosciuta alle attività delle principali organizzazioni internazionali (ONU, UNICEF, UNESCO, UNIDO).

Nel 1997, iniziando una presenza ufficiale in Italia (dove era già attiva da anni con progetti specifici), la Lega Musulmana Mondiale – Italia ha promosso un’associazione autonoma italiana. Presidente dell’associazione italiana è il segretario generale della Lega internazionale, Abdallah bin Salih al Obeid, ma gli altri membri sono italiani, compreso il vice-presidente Mario Scialoja, un convertito italiano già ambasciatore italiano nell’Arabia Saudita, il quale sostiene che l’identità islamica in Europa deve essere fondata sul rispetto assoluto della legge e della morale italiana, sulla tolleranza e fraternità nei confronti dei seguaci di altre religioni, sul puntuale rispetto dei doveri religiosi islamici e sulla neutralità politica (il testo di una sua conferenza in tal senso è stato tradotto in arabo e stampato in Arabia Saudita dalla Lega, divenendo pertanto una posizione ufficiale della Lega Musulmana Mondiale con sede alla Mecca).

La Lega afferma di non porsi in concorrenza con le associazioni islamiche già presenti in Italia, ma di porsi al servizio dell’unità dei musulmani italiani con l’obiettivo dichiarato di pervenire all’Intesa con lo Stato. Alla rete che la Lega ha organizzato ha aderito tra l’altro l’Associazione islamica Zaydn ibn Thabit di Napoli, rilevante su scala locale per la sua presenza nel centro storico di Napoli dove vivono moltissimi musulmani, anche se oggi sottolinea la sua natura autonoma. La Lega Musulmana Mondiale – Italia insiste sul fatto di non essere “un organo del governo saudita”.

Per molti osservatori esterni, essa rappresenta tuttavia – senza pregiudizio per il suo carattere effettivamente internazionale – il punto di vista del “puritanesimo” islamico saudita (spesso detto “wahhabita” con riferimento alla predicazione di Muhammad ibn Abd al-Wahhab, 1703-1792, che è alle origini dell’ideologia della monarchia saudita, anche se “wahhabita” è un’etichetta creata originariamente dagli oppositori di al-Wahhab e oggi usata nel mondo accademico con molte riserve) si inserisce nel complesso dibattito sulla rappresentanza dell’Islam italiano nei confronti dello Stato affiancandosi al Centro Islamico Culturale d’Italia.

B.: La rivista Islamica, edita dalla Lega italiana, è disponibile online all’indirizzo www.lega-musulmana.it/Rivista_Islamica/islamica.htm.

CENTRO ISLAMICO CULTURALE D’ITALIA

Centro Islamico Culturale d’Italia

Viale della Moschea, 85 – 00197 Roma

Tel.: 06-8082258; Fax: 06-8079515

La fondazione del Centro Islamico Culturale d’Italia risale al 1966, quando è istituita un’associazione a Roma, il Centro Culturale Islamico, con finalità di beneficenza, culturali e sociali nei confronti dei musulmani risiedenti nella capitale. L’aumento numerico della comunità musulmana fa avvertire l’esigenza di costruire una moschea a Roma. Nel 1973, su raccomandazione del Consiglio degli ambasciatori arabi e musulmani accreditati presso il governo italiano e la Santa Sede, il sovrano dell’Arabia Saudita si adopera per ottenere la cooperazione delle autorità italiane in tal senso.

È così costruito a Monte Antenne, su un terreno donato dal Comune di Roma, un complesso edilizio progettato in primo luogo dall’architetto Paolo Portoghesi. Il complesso – ufficialmente inaugurato nel 1995 – comprende, oltre alla moschea che con una capienza di oltre duemila persone è la più grande d’Europa, una sala di preghiera per uso giornaliero, una biblioteca contenente testi di cultura islamica, un museo storico, una scuola araba, una sala conferenze, gli uffici, e una parte adibita a residenza e alloggio per il personale.

Il costo, ufficialmente di sessanta miliardi di lire, è stato sostenuto in buona parte dall’Arabia Saudita, con generose contribuzioni anche del Marocco, dell’Iraq e della Libia, oltre che di privati. La bellezza architettonica della costruzione e gli ampi e ben curati giardini che la circondano ne hanno fatto una meta turistica di fama internazionale. Il Centro organizza conferenze e attività culturali, nonché viaggi per il pellegrinaggio alla Mecca. Durante il ramadân al Centro si incontrano i membri della comunità islamica che, dopo la preghiera, consumano insieme i pasti preparati nello stesso complesso.

Il Centro è l’unico organismo islamico italiano dotato di personalità giuridica, che ha ottenuto con D.P.R. 21 dicembre 1974, n. 212. Contestualmente, è stato approvato lo statuto dell’ente “Centro Islamico Culturale d’Italia”. Le finalità dell’ente, sancite dall’art. 2 dello statuto. sono quelle di promuovere una migliore conoscenza della fede islamica, sviluppare i rapporti tra musulmani e cristiani, assistere i membri nella realizzazione di opere sociali e filantropiche in favore della comunità musulmana in Italia, reperire i mezzi per l’assistenza della comunità stessa. Del suo consiglio di amministrazione fanno parte, a rotazione, quindici dei ventotto ambasciatori dei paesi arabi e musulmani accreditati presso l’Italia o la Santa Sede (tra i quali, ovviamente, c’è l’Arabia Saudita).

Il Centro quindi costituisce l’espressione in Italia dell'”Islam degli Stati”; di qui l’obiezione frequente secondo cui, in quanto promosso da ambasciate per loro natura extraterritoriali, non potrebbe rappresentare da solo l’Islam italiano. D’altro canto il Centro – proprio perché l’Arabia Saudita ha un ruolo determinante nella sua costituzione e gestione – rappresenta un Islam “purista” e tradizionale. La componente saudita, secondo diversi osservatori, avrebbe prevalso su quella guidata dal Marocco – da parte sua piuttosto reticente a stipulare accordi con organizzazioni ispirate da ambienti fondamentalisti neo-tradizionalisti – al momento dell’accordo con l’UCOII patrocinato dalla Lega Musulmana Mondiale che aveva portato alla formazione nel 1998 del Consiglio Islamico d’Italia.

B.: Conoscere l’Islam e i musulmani, Reale Ambasciata dell’Arabia Saudita, Roma 1999; Khaled El Hosseiny, “L’importanza del Centro Islamico Culturale di Roma”, in Assadakah. Mensile del Centro Italo-Arabo e Mediterraneo, anno V, n. 35, ottobre-novembre 1999, p. 11.

LA COMUNITA’ RELIGIOSA ISLAMICA ITALIANA (CO.RE.IS.)

Comunità Religiosa Islamica Italiana (CO.RE.IS.)

Via Giuseppe Meda, 9 – 20136 Milano

Tel.: 02-8393340; Fax: 02-8393350

E-mail: coreis@fastwebnet.it

URL: www.coreis.it

Nel 1993 nasce formalmente a Milano, intorno alla figura di ‘Abd al Wahid Pallavicini, l’Associazione Internazionale per l’Informazione sull’Islam (AIII), per opera di alcuni musulmani prevalentemente italiani di impronta intellettuale. L’AIII si propone come finalità la promozione di iniziative utili alla conoscenza – “senza pregiudizi culturali e condizionamenti politici” – dell’Islam in Italia e in Europa, e si distingue per un’intensa attività culturale. Successivamente, la convinzione della necessità di garantire una rappresentanza presso lo Stato e l’importanza attribuita alla salvaguardia delle esigenze religiose dei musulmani in Italia, hanno dato vita alla trasformazione dell’AIII in un ente religioso, dotatosi nel 1997 di un nuovo statuto e un nuovo nome: Comunità Religiosa Islamica Italiana (CO.RE.IS.).

Nel 1996 è presentata al Governo una proposta d’Intesa fra la comunità islamica in Italia e la Repubblica Italiana ed è firmato un accordo bilaterale con l’ISESCO (Organizzazione Islamica per l’Educazione, la Scienza e la Cultura; espressione dell’Organizzazione della Conferenza Islamica, di cui fanno parte 55 Stati). Dal febbraio 1998, la CO.RE.IS. entra a fare parte della Commissione Nazionale per l’Educazione Interculturale presso il Ministero della Pubblica Istruzione e costituisce un corpo di docenti musulmani italiani che organizza in tutta Italia corsi di aggiornamento per insegnanti.

Parallelamente è raggiunto un accordo di collaborazione con l’Università al-Azhar del Cairo, in Egitto. Nel 1999 la CO.RE.IS. entra a fare parte della giunta esecutiva del Comitato Patrimonio e Memoria nella cultura del Mediterraneo presso il Ministero per i Beni Culturali ed Ambientali e stipula un accordo con l’Università “Federico II” di Napoli. Nello stesso anno è invitata a fare parte della segreteria generale della World Islamic People’s Leadership e dell’assemblea della World Islamic Call Society.

La CO.RE.IS. si è diffusa sul territorio attraverso sedi di rappresentanza in varie regioni d’Italia, da cui dipendono anche moschee, come quella di Agrigento. È presente anche in Francia attraverso l’IHEI – Institut des Hautes Etudes Islamiques (Parigi-Embrun), presieduto da Hajji Yahya Pallavicini, che pubblica dei Cahiers quadrimestrali e partecipa alla “consultazione” nazionale sull’Islam in Francia promossa dal Ministero dell’Interno.

Grazie al contributo, fra gli altri, della Lega Musulmana Mondiale, negli spazi adiacenti alla sede milanese la CO.RE.IS. ha promosso l’apertura della moschea al-Wahid, dove si trova anche un Centro di Documentazione sull’Islam. In Sicilia operano due sedi regionali a Palermo e Agrigento che, nonostante il modesto numero di aderenti, sono particolarmente attive sul piano delle iniziative culturali e del dialogo con il mondo cristiano.

La Comunità Religiosa Islamica Italiana ha presentato istanza di riconoscimento come ente morale di culto al Ministero dell’Interno. La CO.RE.IS. fonda la propria rappresentatività (e la sua richiesta d’Intesa) sulla preparazione religiosa e intellettuale dei suoi membri e anche su una affidabilità sociale e politica che si esprime nella proposta di un Islam “pienamente compatibile con la società e con l’ordinamento giuridico italiano” e nel rifiuto di ogni forma di esclusivismo confessionale, egemonia ideologica di matrice fondamentalista o sudditanza nei confronti di correnti politiche o di Stati esteri.

B.: Dal settembre 1999 la CO.RE.IS. Italiana pubblica regolarmente l’inserto L’Islam in Europa all’interno della rivista mensile Assadakah, organo ufficiale della Lega degli Stati Arabi in Italia. Sui rapporti con lo Stato, si vedano: AA. VV., L’Islam e l’Italia, La Sintesi Editrice, Milano 1996; Intesa tra la Repubblica Italiana e la Comunità Islamica in Italia proposta dalla CO.RE.IS. Italiana, La Sintesi Editrice, Milano 1998. Sulla spiritualità: ‘Abd al Wahid Pallavicini, L’Islam interiore. La spiritualità universale nella religione islamica, Il Saggiatore, Milano 20012 (1a ed.: Mondadori, Milano 1991). Sui rapporti con le altre religioni: AA.VV., Verso la Terra Santa, La Sintesi Editrice, Milano 1996; e AA.VV., Gerusalemme. Pellegrini, santi e cavalieri nel monoteismo abramico, La Sintesi Editrice, Milano 1997.

L’UNIONE ISLAMICA IN OCCIDENTE (UIO) – WORD ISLAMIC CALL SOCIETY (WICS)

Unione Islamica in Occidente (UIO) – World Islamic Call Society (WICS)

Via del Giorgione, 18 – 00147 Roma

Tel.: 06-59606683

URL (internazionale): www.islamic-call.org/

L’Unione Islamica in Occidente è la prima organizzazione islamica a essersi costituita in Italia, nel 1947 (oltre a essere stata, fino al 1965, l’unica presente nel nostro paese). Il suo primo presidente – il dottor Mentor Cioku Gropa, cittadino italiano di origine albanese – è stato fra i primi musulmani a partecipare al coordinamento che ha condotto successivamente alla formazione dei soci fondatori del Centro Islamico Culturale d’Italia.

Con la sigla di Accademia della Cultura Islamica, l’UIO ha pubblicato fino a qualche anno fa la rivista Islam, storia e civiltà, e gestisce a Roma, dal 1982, l’unica scuola di arabo e civiltà islamica finora riconosciuta dal Ministero della Pubblica Istruzione. L’attuale presidente dell’UIO è il cittadino italiano di origine libica Mansur Tantoush, e il segretario generale è Khaled Biagioni. Dal 1972 l’UIO ha inoltre svolto una funzione di rappresentanza della World Islamic Call Society (WICS) in Italia.

La World Islamic Call Society, costituita a Tripoli (Libia) nel 1972, ha come oggetto la testimonianza della religione islamica fondata sulla trasmissione e l’approfondimento dei suoi principi dottrinali, cui si tende favorendo la preparazione di esperti, la pubblicazione di testi, l’organizzazione di incontri internazionali a carattere scientifico e giovanile in tutto il mondo.

Il suo XV incontro si è svolto, per la prima volta, in una città europea, a Roma, dove la società è stata ospitata nei locali del Centro Conferenze Internazionale “Trevi” dell’Istituto Superiore di Polizia l’8 e 9 maggio 2004, e il convegno si è aperto con un indirizzo di saluto del Ministro degli Interni italiano Giuseppe Pisanu, a testimonianza di un mutato clima internazionale nei rapporti dell’Occidente con la Libia, e di conseguenza con l’Islam libico.

Attualmente la World Islamic Call Society riunisce 250 organizzazioni islamiche che hanno sede in più di ottanta nazioni di tutti i continenti e svolge il ruolo di osservatore presso le Nazioni Unite. Il segretario generale della World Islamic Call Society è Muhammad Ahmad Sharif. L’azione di sostegno rivolta alle minoranze islamiche nei vari paesi, fra cui l’Italia, si fonda sui seguenti punti: ricerca di una compatibilità giuridica che garantisca l’equilibrio dell’espressione del culto islamico all’interno delle leggi dello Stato; sostegno alla funzione di rappresentanza e mediazione esercitata dai musulmani che siano cittadini di nascita del paese in questione e conoscano di conseguenza le norme e la cultura locale; non appartenenza a qualsiasi movimento ideologico che promuova la strumentalizzazione violenta della religione e l’egemonia politica.

ASSOCIAZIONE MUSULMANI ITALIANI E ASSEMBLEA MUSULMANI D’ITALIA

L’Associazione Musulmani Italiani

Casella postale 7167 – 00100 Roma

E-mail: info@amimuslims.org

URL: www.amimuslims.org/

L’Associazione Musulmani Italiani (AMI) è costituita a Napoli nel 1982 da Ali Mo’allim Hussen, cittadino italiano di origine somala e ufficiale della Guardia di Finanza (in pensione); nel 1985 trasferisce la sede a Roma. Ha come caratteristica quella di avere come fondatori cittadini italiani, in gran parte convertiti alla religione islamica di marca sunnita, sostenitori dichiarati della pacifica quanto armonica convivenza fra le tradizioni della cultura occidentale e quelle dell’Islam. Di qui la critica al mondo del fondamentalismo, e – in particolare – ad altre organizzazioni islamiche presenti anche in Italia.

L’AMI ha tra gli obiettivi principali il dialogo inter-religioso con ebrei, cattolici e protestanti, e in questo senso ha promosso un buon numero di iniziative. Indipendentemente dall’AMI operava a Roma intorno ad Abdul Hadi Massimo Palazzi un gruppo di analogo orientamento filo-occidentale e anti-fondamentalista (tanto che Palazzi anima anche una associazione per l’amicizia islamo-israeliana). Nel 1991 questo gruppo aveva fondato l’Istituto Culturale della Comunità Islamica Italiana. Nel 1993 le due organizzazioni si fondono sulla base dello statuto originario dell’AMI, di cui l’Istituto diventa la branca culturale; Hussen diventa presidente onorario dell’Istituto e Palazzi segretario generale dell’AMI, di cui Hussen rimane presidente.

Nell’agosto 2003 Hussen si dimette dalla presidenza dell’AMI per ragioni di salute; al suo posto è eletto Omar Danilo Speranza, il quale adotta una linea diversa, meno interessata alla politica e cauta nei confronti del precedente orientamento filo-americano e filo-israeliano di Palazzi, che si allontana dall’associazione e fonda l’Associazione Musulmana Italiana (oggi Assemblea Musulmana d’Italia), cui rimane collegato l’Istituto Culturale della Comunità Islamica Italiana, che dunque oggi non è più legato all’AMI.

Quest’ultima ha accusato Palazzi di violare i suoi diritti di marchio, ottenendo dal Tribunale di Roma in data 15 novembre 2004 un provvedimento d’urgenza che inibisce a Palazzi di utilizzare le denominazioni “Associazione Musulmana Italiana” e AMI, e promuovendo quindi il relativo giudizio di merito.

L’AMI mantiene un’attività nella pratica del culto e le funzioni a esso connesse (celebrazioni di matrimoni e funerali, conversioni all’Islam, e così via), così come nella diffusione della cultura islamica attraverso collaborazioni con i media. Il consiglio direttivo dell’AMI è eletto ogni quattro anni dall’assemblea generale dei soci.

L’AMI ha presentato fin dal 1993 una proposta di Intesa al governo italiano, che mette in guardia contro le derive fondamentaliste che giudica inevitabili nelle organizzazioni in stretto rapporto con i Fratelli Musulmani o comunque alleate con questi. Anche l’AMI si propone al governo italiano, rispetto all’UCOII o al Consiglio Islamico d’Italia, come organismo non più rappresentativo (il che sarebbe naturalmente insostenibile sul piano numerico, trattandosi di una realtà del tutto minuscola), ma più affidabile sul piano politico della compatibilità con i valori di una “società aperta”.

B.: Il sito dell’AMI contiene diverse pubblicazioni informative distribuite dall’Associazione.

ASSEMBLEA MUSULMANA D’ITALIA

Assemblea Musulmana d’Italia – Istituto Culturale della Comunità Islamica Italiana –

Via Boezio, 90/13 – 00193 Roma

Tel.: 333-7220123

E-mail: islam.inst@flashnet.it

URL: www.amislam.com/italian.htm

L’Assemblea Musulmana d’Italia è stata costituita da Abdul Hadi Massimo Palazzi e dagli ex-membri dell’AMI in dissenso con la presidenza di Omar Danilo Speranza e desiderosi di continuare nella precedente linea filo-americana e filo-israeliana il 16 febbraio 2004, e ha assunto l’attuale nome con sigla A.M.d’I. (non AMI) con l’assemblea straordinaria del 6 dicembre 2004, successiva al provvedimento d’urgenza del Tribunale di Roma del 15 novembre 2004 che ha riconosciuto all’AMI presieduta da Speranza il diritto alla sigla AMI e ha inibito a Palazzi l’uso della denominazione “Associazione Musulmana Italiana” in quanto confondibile con il nome “Associazione Musulmani Italiani” che appartiene alla stessa AMI. A Palazzi e alla nuova Assemblea è invece rimasta la sigla dell’Istituto Culturale della Comunità Islamica Italiana.

Le attività svolte continuano quelle della “vecchia” AMI precedente all’agosto 2003, e Palazzi continua a rappresentare un Islam schierato apertamente a fianco degli Stati Uniti e di Israele, partecipando a numerose manifestazioni culturali, religiose e politiche in cui espone questa posizione, indubbiamente originale nel mondo islamico ma che sembra non avere raccolto molti seguaci fra i musulmani italiani.

UNIONE MUSULMANI D’ITALIA (UMI) di Adel Smith

Unione Musulmani d’Italia (UMI)

c/o Edizioni Alethes – Via Lago di Garda, 46 – 00030 Carchitti (Roma)

Tel. e Fax: 06-9586760

E-mail: unionemusulmani.it@inwind.it

Adel Smith, un convertito all’Islam, cittadino italiano di padre scozzese, dirige a Ofena (L’Aquila) un’associazione islamica, che è insieme partito politico, denominata Unione dei Musulmani d’Italia. Smith è regolarmente attaccato, su Internet e altrove, come esponente di una di quelle associazioni microscopiche che riescono a ingannare giornalisti confusi dai nomi apparentemente “ufficiali” delle loro organizzazioni.

Secondo il giornalista Magdi Allam l’Unione dei Musulmani d’Italia, che vanta cinquemila membri, ne ha più probabilmente due – Smith e il suo fidato collaboratore Abdul Haqq Massimo Zucchi – più “una decina di simpatizzanti albanesi” (Magdi Allam, Bin Laden in Italia. Viaggio nell’islam radicale, Mondadori, Milano 2002, p. 124).

Quanto ai cinquemila membri vantati da Smith, avrebbero sottoscritto “deleghe” riferite esclusivamente a una petizione per la “copertura” di un affresco in San Petronio a Bologna ispirato alla Divina Commedia e che rappresenta il profeta Muhammad all’Inferno, da non confondersi con adesioni formali all’UMI. Anche alcuni imâm che si erano mostrati inizialmente interessati all’iniziativa di Smith di un “partito islamico”, come l’imâm Bouriqi Bouchta di Torino, avrebbero in seguito preso le distanze.

Comunque sia, il concetto di “membro” di un’organizzazione religiosa (o, in questo caso, politico-religiosa) non è certo oggetto di definizioni unanimi, e anche per l’UMI la stima varierà a seconda che si considerino solo i veri e propri iscritti o anche una cerchia di simpatizzanti. Smith si è infatti reso molto noto nel mondo mediatico italiano, già per la sua partecipazione il 5 novembre 2001 alla trasmissione televisiva Porta a porta, dove definì tra l’altro il crocifisso cattolico “un cadavere in miniatura”, quindi per iniziative legali contro l’esposizione del crocifisso in luoghi pubblici italiani, e per la pubblicazione di opere piuttosto virulente dove attacca in particolare il cattolicesimo e la giornalista Oriana Fallaci.

Smith e la sua organizzazione continuano così ad avere un’esposizione mediatica in Italia senz’altro maggiore sia di quanto sarebbe giustificato dalle loro dimensioni quantitative, sia di quella di cui godono organizzazioni islamiche certamente più rappresentative.

B.: Tra i numerosi titoli di Smith, tipici del suo stile sono Adel Smith, L’Islam castiga Oriana Fallaci. Lettera a una vecchia mai cresciuta, Alethes, Carchitti (Roma) 2002; Idem, Guai a voi, scribi e farisei. Il dovere di odiare lo Stato di Israele, Alethes, Carchitti (Roma) 2004.

ASSOCIAZIONE ISLAMICA CULTURALE

Associazione Islamica Culturale

Via Giuseppe Peano, 6 – 00146 Roma

L’Associazione Islamica Culturale si è formalmente costituita come ente autonomo con atto pubblico del 1998. Sorta informalmente all’inizio degli anni 1990 per opera di un piccolo gruppo di immigrati provenienti dall’Egitto, l’associazione dispone nel quartiere Ostiense di un locale su due piani che riesce a ospitare – il venerdì – i circa quattrocento frequentatori (perlopiù egiziani) che affluiscono da tutta la zona Sud di Roma.

Oltre che luogo di preghiera, l’Associazione Islamica Culturale – il cui responsabile è Tarek Hassan, dal 1975 cittadino italiano – si pone come punto di riferimento della comunità per l’insegnamento della religione islamica e della lingua araba ai bambini. Nella vicina Via Orso Maria Corbino, in un negozio gestito da uno degli associati, si vende carne halal.

ORGANIZZAZIONI MUSULMANE TURCHE IN ITALIA

Il movimento neo-Nur di Fethullah Gülen

Non si può omettere di citare l’influenza in Italia di una delle branche del movimento riformista turco Nur (“Luce”) fondato da Said Nursi (morto nel 1960 mentre quanto alla data di nascita i documenti ufficiali riportano senza indicazione del mese e del giorno l’anno 1293 del Calendario di Rumi, allora in uso nell’Impero Ottomano, che corrisponde a una parte degli anni 1876 e 1877, ancorché una tradizione di famiglia sostenga invece che sarebbe nato nel 1873 e registrato all’anagrafe ottomana solo tre o quattro anni più tardi), che non si considera parte del sufismo (da cui pure, secondo alcune ricostruzioni – contestate da altri – dei primi anni della sua vita, proveniva il fondatore, membro della Naqshbandiyya) e non ha la struttura di una confraternita.

In epoca kemalista il movimento Nur, che agisce nella sfera della cultura privata attraverso circoli di lettura delle Epistole della Luce, il best seller del fondatore, costituisce un potente elemento di resistenza ai processi secolarizzatori promossi dal regime. Dopo la morte di Nursi il movimento si frammenta in otto principali branche, la più grande e internazionale delle quali è diretta da Fethullah Gülen, da anni in esilio negli Stati Uniti, da cui non è rientrato neanche dopo che nel 2002 la Turchia è retta da un governo di ispirazione islamica guidato da Recep Tayyip Erdoĝan (che proviene a sua volta da una branca della confraternita sufi Naqshbandiyya detta Gümüşhanevi, a suo tempo raccolta intorno al carismatico shaykh Mehmed Zahid Kotku (1897-1980).

Il riformismo del movimento di Fethullah Gülen e quello di Erdoĝan in effetti non coincidono, solo una parte dei membri del gruppo di Gülen in Turchia vota per il partito di Erdoĝan, e non mancano le divergenze, anche se entrambi promuovono un accostamento centrista e conservatore all’islam che si presenta come alternativo al fondamentalismo.

A proposito di quello che molti (ma non i loro membri, che tengono al nome “Movimento Nur”) chiamano “Movimento Fethullah Gülen”, alcuni osservatori accademici parlano di uno stile di pensiero “neo-Nur”, che unisce alle idee di Said Nursi un nazionalismo turco o grande-turco, il che ne spiega il successo nelle popolazioni che si considerano etnicamente affini ai turchi nell’Asia Centrale post-sovietica.

Comunque sia, attraverso le oltre trecento scuole istituite in Europa e Asia, il “Movimento Nur” di Fethullah Gülen si è affermato come una delle principali presenze mondiali di un islam centrista. Le statistiche precise rimangono controverse – e c’è anche chi parla di un network più che di un movimento – ma i seguaci sono certamente nell’ordine dei milioni.

In Italia la presenza di veri e propri “membri” (ma l’espressione per le ragioni accennate va usata con prudenza) è limitata a qualche decina di esponenti in ciascuna delle tre principali comunità turche in Italia – Modena, Milano e Como -, ma di ben altra importanza sono le iniziative culturali. Il movimento di Fethullah Gülen dedica particolare attenzione al dialogo inter-religioso, e in questo senso vanno segnalati un incontro fra lo stesso Gülen e Giovanni Paolo II (1920-2005) nel 1998 nonché un congresso organizzato a Roma nel maggio 2003.

B.: M. Hakan Yavuz – John L. Esposito (a cura di), Turkish Islam and the Secular State. The Global Impact of Fethullah Gülen’s Nur Movement, Syracuse University Press, Syracuse (New York) 2003.

Islam Kültür Merkesi (Süleymancı)

 Islam Kültür Merkesi

Via Fara, 30 – 20124 Milano

Nel complesso “mercato religioso” della Turchia contemporanea, un islam puritano e “tradizionalista” (un concetto diverso da “fondamentalista” e che dice riferimento a un rigorismo non prevalentemente politico ma piuttosto orientato alla sfera della morale, in particolare sessuale) è rappresentato principalmente da quattro milioni di Süleymancı, membri di una “comunità” (cemaat) fondata da Süleyman Hilmi Tunahan (1888-1959). Una cemaat non è tecnicamente una confraternita sufi: benché Tunahan provenisse personalmente da una branca della Naqshbandiyya, criticava come irrimediabilmente decaduto il sistema delle confraternite, e si è potuto parlare a proposito dei Süleymancı di “sufismo senza confraternalismo”.

Periodicamente perseguitati da governi turchi ostili, i Süleymancı emigrano in gran numero in Germania, dove hanno oggi il centro principale a Colonia, che controlla oltre duecento comunità con circa venticinquemila membri. In Europa l’azione dei Süleymancı è volta soprattutto a consolidare l’influenza dell’Islam all’interno delle famiglie e nella vita personale, con una forte carica polemica nei confronti dell’immoralità sessuale dell’Occidente.

Al centro di Colonia fa capo anche la presenza in Italia dei Süleymancı, che si esprime a Milano nell’Islam Kültür Merkesi, frequentato da immigrati turchi del capoluogo lombardo e dell’hinterland. Il centro di Milano aderisce alla Unione dei Centri Culturali Islamici, che ha pure sede a Colonia e che coordina le attività dei Süleymancı a livello europeo.

B.: Sulla presenza in Germania, cfr. Gritt Klinkhammer, Moderne Formen islamischer Lebensführung. Eine qualitativ-empirische Untersuchung zur Religiosität sunnitisch geprägter Türkinnen der zweiten Generation in Deutschland, Diagonal-Verlag, Marburg 2000.

Islam Cemaati Vakfi – Milli Görüs

Indirizzo in corso di verifica

Della cerchia di Istanbul dello shaykh sufi Mehmed Zahid Kotku (1897-1980) hanno fatto parte tre futuri primi ministri: Turgut Özal (1927-1993), Necmettin Erbakan e l’attuale premier Recep Tayyip Erdoĝan.

Benché la Turchia kemalista sia una democrazia anomala, in cui il Consiglio per la Sicurezza Nazionale composto dagli alti vertici militari, custode del laicismo, ha il potere costituzionalmente riconosciuto di interferire pesantemente sul governo civile, negli anni della Guerra fredda si verifica un allentamento delle politiche anti-religiose. Non senza qualche suggerimento statunitense, i generali si convincono che la religione è un antidoto necessario al comunismo che s’infiltra pericolosamente nel paese.

Di fronte all’incapacità di governi civili laicisti ma ampiamente corrotti di fronteggiare il terrorismo di matrice comunista e separatista curda, il colpo di Stato del 1980 apre la strada a un governo “suggerito” dai generali ma guidato da una personalità religiosa di ambiente sufi, Turgut Özal, che gode di ampio consenso. Tra l’altro, l’appello alla comune fede musulmana sunnita sembra l’unica via verso una soluzione del problema curdo.

La prematura scomparsa di Özal apre la strada a un nuovo periodo di instabilità, in cui emerge il partito Refah (“Benessere”) di un altro discepolo dello shaykh Kotku, Erbakan. Quest’ultimo, fin dal 1971, aveva fondato a Braunschweig, in Germania, il movimento Milli Görüs (“Via nazional-religiosa”), destinata a diventare la più grande organizzazione religiosa dell’emigrazione turca in Europa. Oggi conta in Europa 250.000 membri e oltre cinquecento moschee. L’orientamento originario è di tipo fondamentalista neo-tradizionalista, con affinità ai Fratelli Musulmani, ma anche con un richiamo al nazionalismo turco che rende il Milli Görüs diverso da qualunque movimento arabo.

Per la prima volta a un partito religioso è consentito, nel 1995, di vincere le elezioni in Turchia, ed Erbakan diventa primo ministro. Ma Erbakan, a differenza del prudente Özal, sfida i militari sul terreno del giudizio storico sul kemalismo e lascia intendere pericolose svolte in politica estera, allontanandosi dai tradizionali alleati Stati Uniti e Israele e avvicinandosi apertamente ai Fratelli Musulmani egiziani. I militari – in cui prevale un’ala chiusa in un kemalismo militante – reagiscono con il colpo di Stato “soffice” del 28 febbraio 1997, in cui lo stesso Erbakan è convinto a promulgare nuove leggi anti-religiose che porteranno alla messa al bando del suo partito Refah.

La campagna anti-religiosa che ne segue non suscita consensi nella popolazione, né i governi “laici” danno particolare buona prova sul terreno economico. Il successore immediato del Refah, il partito Fazilet (“Virtù”), è a sua volta tempestivamente messo al bando, ma nel movimento islamico si manifesta una divisione fra i “vecchi” – legati a Erbakan e ai suoi tentativi di contatto con il fondamentalismo arabo e iraniano – e i “giovani”, raccolti intorno al carismatico sindaco di Istanbul, Erdoĝan (anch’egli, peraltro, messo al bando dal potere giudiziario controllato dai militari, in quanto accusato di voler sovvertire il laicismo).

La separazione fra Erbakan e Erdoĝan (una sorta di “svolta di Fiuggi” per il mondo che aveva fatto parte del partito Refah) dà visibilità politica alla differenza, divenuta sempre più netta, fra movimenti che occupano la nicchia fondamentalista (legati a Erbakan e ai “vecchi” del partito) e movimenti che occupano la nicchia conservatrice e centrista, egemonizzati da Erdoĝan, la cui iniziativa politica di “democrazia conservatrice” è spesso paragonata a una versione islamica delle Democrazie Cristiane europee degli anni 1950.

Alle elezioni del 2002, benché né Erbakan né Erdoĝan possano ufficialmente candidarsi, l’islam politico riesce a presentare due partiti, l’erbakaniano Saadet (“Felicità”) e l’erdoganiano Adalet ve Kalkınma (AKP, “Giustizia e Sviluppo”), che presenta un programma in cui la sharī’a è indicata come orizzonte ideale piuttosto che come insieme di precetti fissi e immutabili, e in cui la politica estera è saldamente ancorata all’alleanza statunitense e alla richiesta di ingresso nell’Unione Europea.

Gli elettori danno la maggioranza relativa (34,2%) dei voti e quella assoluta dei seggi all’AKP, mentre il partito Saadet si ferma al 2,46% e non raggiunge neppure il quorum, e il Partito Repubblicano kemalista registra con il 19,39% un’evidente sconfitta. L’AKP vittorioso mette in atto una serie di modifiche legislative che permettono al suo leader Erdoĝan di ritornare alla vita politica e diventare primo ministro nel febbraio 2003.

Il Milli Görüs ha patito le conseguenze della spaccatura fra i conservatori di Erdoĝan e i fondamentalisti neo-tradizionalisti di Erbakan, pur riuscendo a rimanere un’organizzazione unitaria. Ma, al contrario di quanto avviene in patria, dove gli elettori hanno ridotto il partito di Erbakan ai minimi termini, le posizioni fondamentaliste dell’ex-primo ministro appaiono a molti osservatori ancora molto influenti e, in diverse zone della Germania, maggioritarie fra i turchi della diaspora che aderiscono al Milli Görüs.

All’associazione Milli Görüs sono affiliati diversi centri lombardi composti da immigrati turchi, fra cui l’Islam Cemaati Vakfi di Milano.

B.: Sulla presenza in Germania, cfr. Gritt Klinkhammer, Moderne Formen islamischer Lebensführung. Eine qualitativ-empirische Untersuchung zur Religiosität sunnitisch geprägter Türkinnen der zweiten Generation in Deutschland, Diagonal-Verlag, Amburgo 2000.

Ordine dei Jerrahi-Halveti

Sede legale: Viale Piceno, 23/A – Sala di riunione: Viale Piceno, 18 – 20129 Milano

Tel. e fax: 02-719439 / 02-733882

E-mail: posta@sufijerrahi.it

URL: www.sufijerrahi.it

L’ordine dei Jerrahi-Halveti (in arabo: al-Jarrahiyya al-Khalwatiyya) è stato fondato a Istanbul da Nûr al-Dîn Jerrahi (†1733). Si tratta di una delle molte ramificazioni della Khalwatiyya, che comincia a diffondersi nella regione di Amsya e da qui si sposta a Istanbul, dove la casa madre è fondata sotto il regno di Bayazit II (1481-1512).

In Italia la confraternita nasce per opera di Gabriele Mandel, che ne ha attualmente il titolo di vicario generale per il nostro paese. Psicologo, archeologo e artista, Mandel riunisce a Milano uomini e donne che hanno incontrato l’Islam attraverso il sufismo ed è autore o curatore di ben 182 volumi. Mandel è attivo nel dialogo inter-religioso e rappresenta spesso l’islam – di cui offre una versione lontana dai fondamentalismi e tipicamente sufi – in incontri che si svolgono in ambiente cattolico.

B.: Fra le opere di Gabriele Mandel, si vedano: Il Sufismo vertice della piramide esoterica, SugarCo, Milano 1977; Saggezza islamica, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1992; I novantanove nomi di Dio nel Corano, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1995; Storia del sufismo, Rusconi, Milano 1995; La Magia dell’Islam, Simonelli, Milano 1996; Il Corano senza segreti, Rusconi, Milano 19982; e La saggezza dei sufi. Rûmî e gli altri mistici dell’Islam, Rusconi, Milano 1999.

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I TABLIGH

Jama’a at-Tabligh (I Tabligh italiani non hanno sedi proprie ma sono in contatto con l’organizzazione Tabligh in Francia:)

Association “Foi et Pratique”

Mosquée Omar 79, rue Jean Pierre Timbaud – 75011 Parigi (Francia)

Tel.: 01-43575810

Fax: 01-43570929

Jama’a at-Tabligh wa da’wa (“associazione del messaggio” o “gruppo di predicazione”) è un movimento missionario avviato in India negli anni 1880 da Muhammad Ismail (1835?-1898) e fondato negli anni 1925-1927 dal figlio Muhammad Ilyas Kandhalawi (1885-1944). Di fronte alla colonizzazione britannica e alle conversioni di musulmani del subcontinente indiano al cristianesimo dovute all’attività di missionari gesuiti e protestanti, il movimento Tabligh si proclama apolitico, non violento e va alla ricerca di musulmani tiepidi al fine di risvegliarne la fede (solo più tardi si occuperà anche – senza che questo diventi mai lo scopo primario – di convertire non musulmani). Le origini sufi del movimento Tabligh sono oggetto di discussione fra gli studiosi, ma sembrano innegabili. Ilyas, in particolare, apparteneva – sia pure adottando un atteggiamento critico su alcune pratiche – alla branca Sabiriyah della confraternita Chistiyya.

Fino agli anni 1940 i Tabligh operano principalmente nei paesi a maggioranza islamica; dagli anni 1950 seguono la diaspora islamica in Inghilterra, negli Stati Uniti, in Canada, fino a estendere la loro attività a tutti i paesi dove vi siano musulmani. L’insistenza sul primato della pietà e della preghiera, e sul carattere apolitico del movimento, mette spesso in contrasto i Tabligh con le correnti fondamentaliste sia radicali sia neo-tradizionaliste (benché in alcuni paesi occidentali – per certi versi paradossalmente – siano nello stesso tempo sospettati dalle autorità di nascondere fra le loro fila militanti radicali). I “sei punti” predicati dai Tabligh consistono nella preghiera, lo studio, il ricordo continuo di Dio, la generosità, la predicazione e la missione. In Occidente i militanti Tabligh adottano un codice di auto-presentazione rigoroso (barba per gli uomini, velo per le donne) che li caratterizza immediatamente di fronte ai musulmani più tiepidi e occidentalizzati.

Molti giovani musulmani in Occidente partecipano al movimento Tabligh per un periodo di tempo delimitato, nel corso del quale spesso compiono un viaggio in India o in Pakistan, dove sono i centri principali del gruppo. Terminato questo periodo – magari adottando una barba più corta – non si dedicano più attivamente alla missione e alla predicazione, ma conservano comunque un atteggiamento devoto. In diversi paesi occidentali i Tabligh svolgono un ruolo indubbiamente positivo nelle “periferie dell’Islam”, dove il ritorno alla religione è fermento di ordine, di regolarità, di lotta alla criminalità e alla diffusione della droga.

Questo ruolo rende i Tabligh interlocutori credibili di diversi Stati dell’Europa continentale, e favorisce la loro integrazione in una emigrazione islamica di origine prevalentemente nordafricana non sempre in sintonia con le caratteristiche di origine, tipicamente indo-pakistane, del movimento. Il centro forse più importante di presenza dei Tabligh in Italia è stata a lungo la sala di preghiera di Villabate (Palermo), che anche grazie all’opera del movimento è emersa come una delle più attive e vivaci della regione.

B.: Sul movimento l’opera accademica fondamentale è quella di Muhammad Khalid Masud, Travellers in Faith. Studies of the Tablighi Jama’at as a Transnational Islamic Movement for Faith Renewal, Brill, Leida 2000. Su Ilyas e le sue relazioni con il sufismo: M. Anwarul Haq, The Faith Movement of Mawlānā Muhammad Ilyās, George Allen & Unwin, Londra 1972. Sulla diffusione nell’Europa latina: Moussa Khedimellah, “Le Mouvement Tabligh en Lorraine”, in AA.VV., Une anthropologie religieuse en Lorraine, Éditions Serpenoise, Metz 2000, pp. 149-162.

 L’ISLAM IN SICILIA E LA SUA PRESENZA IN ITALIA

Coordinamento in Italia:

Ambasciata della Repubblica Islamica dell’Iran presso la Santa Sede

Via Bruxelles 56 – 00198 Roma

Tel.: 06-8552494

Fax: 06-8547910

Il termine sciismo deriva da shi’a, “seguace”, e si riferisce alla più importante minoranza all’interno dell’Islam. Secondo la dottrina sciita il profeta Muhammad dopo ventitré anni di predicazione designa per ordine divino quale proprio successore e “guida (imâm) infallibile” della comunità il genero e cugino ‘Alî, i cui seguaci saranno definiti “shi’a di ‘Alî”.

Gli sciiti fondano questo principio di fede su alcuni hadîth e sulla convinzione che dopo la morte del Profeta l’Islam e la comunità islamica necessitino di una guida certa. Secondo la dottrina sciita tale guida appartiene alla Famiglia del Profeta (Ahlu’l-Bayt) e gli imâm della famiglia, prescelti da Dio, sono stati pubblicamente designati dal Profeta per rivelazione divina. Gli sciiti (o almeno alcuni di essi) citano in particolare i seguenti hadith quali testimonianze della designazione di ‘Alî alla successione da parte di Muhammad:

hadith “yawm al-dâr”, pronunciato alla Mecca nei primi tempi della predicazione rivolta da Muhammad alla cerchia dei familiari e conoscenti;

hadith “râyat”, a memoria del vessillo (râyat) portato da ‘Alî nella battaglia vittoriosa di Khaybar, una fortezza nei pressi della città di Medina;

hadith “manzalat”, dove si paragona il rapporto tra il Profeta e ‘Alî a quello fra il profeta Mosé e suo fratello Aronne;

hadith “ghadir”, pronunciato da Muhammad davanti alla folla dei musulmani dopo il “pellegrinaggio dell’addio” del nono anno dell’Egira lunare nei pressi dello stagno (ghadir) di Khumm, fuori della Mecca;

hadith “thaqalayn”, pronunciato dal Profeta negli ultimi giorni di vita.

Gli sciiti credono inoltre che fra le righe dei versetti coranici siano implicitamente rilevabili indicazioni relative alla questione della continuità della guida della comunità islamica da parte della famiglia del Profeta, nelle figure in primo luogo di ‘Alî e quindi dei suoi figli. Tali indicazioni sono state successivamente estrapolate da esegeti e commentatori coranici. La famiglia del Profeta comprende l’imâm ‘Alî, la moglie di quest’ultimo Fâtimah (figlia, come si è accennato, di Muhammad) e i loro figli Hasan (624-670) e Husayn (già citato).

Secondo gli sciiti ‘Alî, prescelto da Dio quale successore di Muhammad e primo imâm della comunità, possedeva al massimo grado l’autorità scientifica e la dignità spirituale e morale necessarie alla divulgazione degli insegnamenti islamici e alla guida dell’Islam del suo tempo. Dopo ‘Alî, undici dei suoi discendenti sono designati come “imâm infallibili”, secondo l’ordine che segue: Hasan, Husayn, ‘Alî Zayn al-‘Âbidîn (figlio di Husayn: †715), Muhammad al-Bâqir (figlio di ‘Alî Zayn al-‘Âbidîn: 688-732), Ja’far al-Sâdiq (figlio di Muhammad al-Bâqir: 700-765), Musâ al-Kâzim (figlio di Ja’far al-Sâdiq: 745-799), ‘Alî al-Ridâ (figlio di Musâ al-Kâzim: c. 765-818), Muhammad al-Jawâd (figlio di ‘Alî al-Ridâ: 808-835), ‘Alî al-Hâdi (figlio di Muhammad al-Jawâd: 827-868), al-Hasan al-‘Askari (figlio di ‘Alî al-Hâdi: 844-874) e Muhammad al-Mahdi al-Muntazar (nato nell’868, secondo gli sciiti in “occultazione” – ghayba – dall’anno 874).

Tutta la comunità islamica chiede ad ‘Alî di assumere il ruolo e il titolo di quarto califfo, ma ben presto sorgono contrasti con la tribù degli Omayyadi, al potere nell’attuale Siria. Origina qui la separazione fra sciiti e sunniti, che conduce a numerose guerre. I due imâm sciiti Hasan e Husayn sono entrambi uccisi dagli Omayyadi. In particolare l’uccisione di Husayn, avvenuta in una battaglia contro l’esercito del figlio di Mu’âwiya, Yazid (642-683), a Karbalâ, nell’attuale Iraq, determina la rabbia profonda e l’odio degli sciiti. A partire da quel giorno, gli sciiti ricordano ogni anno l’avvenimento con il lutto e particolari cerimonie. Gli Abbasidi, successori degli Omayyadi, continuano l’inimicizia verso gli sciiti ed è per mano degli Abbasidi che sono uccisi diversi imâm sciiti.

L’undicesimo imâm, al-Hasan al-‘Askari, muore nell’anno 874. Il figlioletto Muhammad, soprannominato Mahdi nel senso di “guida”, è designato alla successione ma è presto vittima come i suoi predecessori dell’inimicizia degli Abbasidi. “Scompare” a sei anni nell’anno 260 dell’Egira (873/874 d.C.): secondo gli sciiti si “occulta” per non rimanere ucciso. Inizia così un periodo di settant’anni che gli sciiti chiamano “occultamento minore”, durante il quale – sempre secondo gli sciiti – quattro “vicari” possono mantenere il contatto diretto con il dodicesimo imâm per sottoporgli i quesiti e i problemi della comunità.

Nell’anno 329 dell’Egira (940/941 d.C.), in concomitanza con la morte del quarto “vicario”, ha inizio il cosiddetto “occultamento maggiore”, che per gli sciiti perdura ancora oggi. Secondo il credo sciita il Mahdi è vivo per volontà di Dio, ma si nasconde agli occhi dell’umanità. Egli guida in maniera occulta la comunità dei musulmani ed è l’ultimo uomo prescelto da Dio (baqiyato’llâh) e “segno” (hojjat) di Dio per gli uomini di ogni tempo.

L’imâm Mahdi nella sua missione riapparirà un giorno agli occhi degli uomini per volere di Dio, e inviterà l’intera umanità all’Islam, instaurando nel mondo la giustizia, la pace e il benessere. Secondo gli sciiti, prima dell’inizio dell’occultamento maggiore l’imâm Mahdi scrive una lettera al suo quarto “vicario” annunciandogli che con la sua morte non vi sarà più alcun intermediario diretto fra la comunità e l’imâm, ma gli sciiti dovranno tuttavia seguire in ogni epoca il maggiore fra i teologi e sapienti (faqih) esistenti per risolvere ogni questione religiosa e sociale della comunità.

Il faqih è un giurisperito che a seguito di assidui studi e ricerche nell’ambito del Corano e degli hadith (che in questo senso sono i detti sia di Muhammad sia dei dodici imâm), attraverso l’ausilio della deduzione razionale e dei pareri degli altri giurisperiti (ijmâ’), è in grado di ricavare e divulgare i precetti e le norme religiose necessarie al buon andamento della comunità. Secondo la dottrina sciita, tuttavia, i comandamenti e i precetti divini sono assolutamente immutabili e l’umanità non può stabilire e introdurre arbitrariamente alcuna norma religiosa, nemmeno la più marginale.

È invece compito del mojtahed dedurre e ricavare i precetti validi e adatti per ogni tempo. Ijtihâd, parola da cui deriva il termine mojtahed, significa in arabo “sforzo”, ovvero indirizzamento di ogni propria energia verso una determinata questione. Pertanto il mojtahed per gli sciiti è colui che, basandosi su studi approfonditi, impiega il massimo impegno nello sforzo di ricavare e divulgare i precetti divini deducendoli dalle quattro fonti costituite dal Corano, dagli hadith, dalla speculazione razionale e dalla ijmâ’, senza minimamente inficiare i precetti e i principi originari e fondamentali dell’Islam trasmessi da Muhammad e dai dodici imâm.

Quando un faqih giunge al sommo grado della scienza e della devozione e riceve il gradimento della maggioranza degli sciiti diventa noto come marja’-e taqlid (“fonte dell’imitazione”). Nell’interpretazione sciita tale espressione prende anche il significato di “vicario generale dell’imâm del Tempo”. L’uno dopo l’altro, coloro che hanno il titolo di “fonti dell’imitazione” assumono la guida della comunità, in attesa del giorno in cui l’imâm Mahdi apparirà per volontà divina e inviterà l’intera umanità a seguire la via di Dio.

Il termine “imamato” significa “guida e dignità del capo religioso (imâm)”. Benché l’espressione abbia anche altri significati (per esempio – ma non è evidentemente questo il senso in cui qui se ne tratta – imâm è anche colui che guida il rito della preghiera collettiva islamica, seguito nei movimenti e nella pronuncia delle formule dai fedeli disposti ordinatamente dietro di lui), nell’Islam si riferisce in particolare alla guida e al governo della comunità islamica in tutta le questioni, sia religiose sia temporali.

L’Islam sciita – come del resto anche quello sunnita – non comprende solo un aspetto ultraterreno: i precetti dell’Islam regolano infatti il rapporto individuale fra l’uomo e Dio ma anche i rapporti fra gli uomini in questo mondo. Nell’Islam chi svolge il ruolo di guida nel complesso degli affari religiosi deve (secondo l’esempio dello stesso Muhammad) svolgere tale ruolo anche negli affari temporali.

Benché non esista nessuna scuola islamica che respinga formalmente tale dottrina, lo sciismo sottolinea con particolare vigore che i problemi sociali e il governo della società non sono distinti dalla religione; sono bensì iscritti in essa, facendone parte integrante. Perciò chi presiede il governo della società islamica presiede un governo religioso e deve essere punto di riferimento e fonte di ispirazione anche nell’ambito della religione.

Nella visione sciita l’autorità di tale governo è legittima solo quando è conferita da Dio. Per questo motivo chi ricopre il ruolo di guida deve essere “infallibile” nella divulgazione dei precetti e della dottrina islamica ed “esente dal peccato”. L’imâm infallibile possiede tutte le prerogative del profeta Muhammad, a esclusione della sola missione e rivelazione profetica.

Le parole dell’imâm sulla verità e la dottrina islamica sono vincolanti per i fedeli e parimenti sono vincolanti le sue disposizioni nell’ambito degli affari temporali di governo. Tre questioni relative all’imamato distinguono quindi lo sciismo dal sunnismo: nella dottrina sciita l’imâm deve essere prescelto da Dio; deve possedere scienza ispirata da Dio ed essere “esente dall’errore”; deve essere “esente dal peccato”.

Nell’Islam sciita, accertato che con Muhammad la profezia giunge a definitivo compimento, ci si chiede se oltre il termine di essa esista ancora un rapporto di comunicazione fra il mondo trascendente e quello creato. Gli sciiti sostengono che il rapporto fra Dio e le creature è possibile anche al di là di quello stabilito per mezzo dei profeti e della profezia. La comunicazione che avviene attraverso la rivelazione profetica (che, appunto, si è interrotta dopo la missione di Muhammad) è distinta da quella che avviene per ispirazione.

Nel secondo tipo di comunicazione Dio parla all’imâm – che non è profeta, né inviato di Dio – in maniera indiretta, appunto orientandolo attraverso l’ispirazione. È chiaro che Dio può stabilire comunque un rapporto di comunicazione con qualsivoglia individuo egli ritenga degno. Esistono tuttavia, secondo gli sciiti, individui con i quali Dio ha stabilito per certo tale comunicazione: essi sono i dodici imâm e Fâtimah (figlia di Muhammad e moglie di ‘Alî).

Insieme a Muhammad, essi sono noti nell’Islam sciita come “i quattordici infallibili”. Il dodicesimo imâm, secondo gli sciiti ancora vivo, mantiene il rapporto di comunicazione fra Dio e gli uomini, e orienta indirettamente la società, indirizzando in particolare modo dal punto di vista spirituale, secondo la propria volontà, le guide religiose o “fonti dell’imitazione”.

Lo sciismo ha varie ramificazioni. La maggioranza degli sciiti – la cui storia e dottrina è stata presentata precedentemente – prende il nome di imamiti o duodecimani. Essi, come si è accennato, riconoscono quale diritto esclusivo della famiglia del Profeta il governo islamico e il rango di fonte e autorità della scienza. Su questo punto, esistono differenze fra i duodecimani maggioritari e le minoranze degli zaiditi e degli ismailiti. Gli zaiditi sono i seguaci del martire Zaid (†740), figlio dell’imâm ‘Alî Zayn al-‘Âbidîn, detto al-Sajjâd (“colui che si prosterna sovente”). Nell’anno 121 dell’Egira (738/739 d.C.) Zaid insorge contro il califfo omayyade Hishâm ibn ‘Abd al-Malik (691-743), ottenendo il giuramento di fedeltà di una fazione. Zaid rimane ucciso nel corso della battaglia contro l’esercito del califfo che scoppia nei pressi della città di Kufa.

I suoi seguaci considerano Zaid il quinto imâm della famiglia del Profeta. Gli succede il figlio Yahyâ (†743), ucciso a sua volta con i suoi partigiani nel corso di una rivolta nella regione di Herat. Dopo di lui sono prescelti quali imâm zaiditi Muhammad al-Nafs al Zakiya (†763) e il fratello Ibrahîm (†763), uccisi – rispettivamente a Medina e a Bassora – a causa di un’insurrezione contro il califfo abbaside Abû Ja’far ‘Abd Allâh ibn Muhammad ibn ‘Ali al-Mansûr (c. 709-775).

In principio gli zaiditi, e in particolare lo stesso Zaid, annoverano nella lista dei propri imâm i due califfi Abu Bakr e ‘Omar. Tuttavia dopo qualche tempo alcuni di essi cancellano il nome dei primi due califfi dalla catena degli imâm, facendola iniziare da ‘Alî. Gli zaiditi, peraltro, non riconoscono l’imamato come prerogativa esclusiva della famiglia del Profeta ed estendono oltre il numero di dodici gli imâm. Inoltre, contrariamente ai duodecimani, nell’ambito del diritto non seguono la giurisprudenza della famiglia del Profeta.

Il nome “ismailiti” deriva da Ismâ’il ibn Ja’far (†762), figlio primogenito del sesto imâm sciita Ja’far al-Sâdiq, morto quando il padre era ancora in vita. Benché Ja’far al-Sâdiq attesti la morte del primogenito chiamando a testimone il governatore di Medina, alcuni credono che Ismâ’il non sia morto, ma sia invece entrato in occultamento. Riconoscono in lui il Mahdi atteso e credono che debba riapparire alla fine dei tempi.

Sono inoltre convinti che l’attestazione della sua morte da parte di Ja’far al-Sâdiq sia da attribuire al timore del califfo abbaside al-Mansûr. Altri credono che il ruolo di imâm spetti a Ismâ’il solo in via teorica, ed essendo egli morto sia da attribuire al figlio. I membri di un terzo gruppo ritengono che Ismâ’il sia sì morto quando il padre era ancora in vita, ma gli spetti pienamente il ruolo di imâm, trasmesso poi a suo figlio Muhammad ibn Ismâ’il e alla sua discendenza.

Le prime due branche si estinguono dopo poco tempo, mentre la terza sopravvive fino ai nostri giorni, dando vita a ulteriori diramazioni. La presenza ismailita in Italia si esprime in particolare nella Comunità Ismailita Italiana, che ha sede a Roma ed è presieduta dalla signora Gulshan Jivraj Antivalle, una cittadina italiana nata in Kenya.

Non riconoscendo il secondo imâm sciita Hasan, questi ismailiti nel loro filone principale sono detti sab’iya (“settimani”, espressione che non è peraltro sinonimo di “ismailiti”, perché non tutti gli ismailiti sono settimani) in quanto riconoscono sette (e non dodici) imâm: ‘Alî, Husayn, ‘Alî Zayn al-‘Âbidîn, Muhammad al-Bâqir, Ja’far al-Sâdiq, Ismâ’il ibn Ja’far e il figlio di quest’ultimo, Muhammad ibn Ismâ’il. A Muhammad figlio di Ismâ’il seguono sette successori i cui nomi sono celati. A essi succedono i primi sette regnanti della dinastia fatimide d’Egitto a partire da ‘Ubayd Allâh al-Mahdi (†934), fondatore della dinastia. Gli ismailiti credono che oltre al testimone (hojjat) di Dio esistano sulla Terra dodici guide (naqib), seguaci più vicini e prescelti del testimone di Dio.

Sul punto esistono tuttavia dissensi fra varie branche e diramazioni ismailite. Dopo l’ottavo califfo fatimida d’Egitto – al-Mustansir (1029-1094) -, due suoi figli – Nizâr (c. 1045-1095) e il nono califfo fatimida d’Egitto al-Musta’li (1074-1101) – si disputano il regno e la guida della comunità ismailita. Dopo numerose lotte emerge vincitore Musta’li, ma da questa contesa origina la divisione fra nizariti e musta’liti.

I drusi – diffusi in Libano e nell’emigrazione libanese – originano a loro volta da un ceppo ismailita, pure avendo sviluppato caratteristiche peculiari e uniche. Gli ismailiti hanno subito nel corso della loro storia influenze di diverse religioni e filosofie e hanno sviluppato un ricco esoterismo.

Al contrario degli zaiditi, hanno come si è accennato una piccola presenza organizzata in Italia, paese nel quale gli sciiti in genere sono una componente minoritaria del mondo islamico, che si esprime attraverso vari centri e organizzazioni, nel cui coordinamento è rilevante il ruolo della sezione culturale dell’Ambasciata della Repubblica Islamica dell’Iran presso la Santa Sede (peraltro, esistono anche gruppi sciiti che non si riconducono a tale coordinamento informale, in genere non per ragioni dottrinali ma a causa di divergenze politiche rispetto al governo iraniano). Un’organizzazione internazionale sciita, Ahl-I Allah (“Il Popolo di Allah”) aveva annunciato una prossima presenza in Italia e fornito una casella postale a Pontassieve (Firenze) e un indirizzo E-mail, ma sia quest’ultimo sia il relativo sito Internet sono stati chiusi e l’iniziativa non sembra allo stato avere avuto seguito.

B.: Fra le opere pubblicate in Italia cfr., in particolare, ‘Allâmah Sayyd Muhammad – Husayn Tâbatabâ’i, L’insegnamento islamico. Compendio della dottrina tradizionale, trad. it., Centro Culturale Islamico Europeo, Roma 1988; e ‘Allâmah Tâbatabâ’i, L’islam sciita, trad. it., Centro Culturale Islamico Europeo, Roma 1989. Sull’Islam sciita in generale, cfr. Biancamaria Scarcia Amoretti, Sciiti nel mondo, Jouvence, Roma 1994. Sull’Islam nell’Iran contemporaneo: Stefano Salzani, Iran. Religione, rivoluzione e democrazia, Elledici, Leumann (Torino) 2004.

Associazione Islamica “Ahl-al-Bait”

Associazione Islamica “Ahl-al-Bait”

Via Confalone, 7 – 80136 Napoli

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In cordiali relazioni con numerosi altri ambienti sciiti – e in particolare strettamente collegata all’Associazione Islamica Iman Mahdi, Via Gualdo Tadino 17, Roma -, l’Associazione Islamica “Ahl-al-Bait” (“Genti della Casa”) ha la peculiarità di nascere da convertiti italiani, mossi da un interesse e da un entusiasmo – originariamente di natura prettamente politica, che si trasforma poi in adesione religiosa – per la rivoluzione islamica del 1979 in Iran e per la figura dell’imâm Ruhollah Khomeini (1901-1989). Luigi (“Ammar”) De Martino si converte all’Islam nel 1983; entrato in contatto con studenti iraniani aderisce alla Shi’a nel 1984. Dopo avere radunato diversi seguaci, dal 1991 pubblica l’agenzia di informazione Il Puro Islam, che da modesto dattiloscritto si è trasformata in una rivista anche graficamente ben curata.

L’associazione napoletana aderisce all’Associazione Mondiale Ahl-al-Bait e promuove convegni in diverse città italiane per fare conoscere l’Islam sciita e la figura dell’imâm Khomeini. L’associazione segue anche con entusiasmo il movimento libanese sciita Hezbollah, di cui ricorda il legame con l’Iran e in particolare con l’ayatollah Sayed Ali Khamenei; un editoriale de Il Puro Islam scrive che “la battaglia dell’Hezbollah, in tutti questi anni, è stata combattuta all’insegna della Religione in maniera chiara, netta, precisa” e che “non a caso la Guida dell’Hezbollah è anche la nostra guida: Seyed Ali Khamenei, il Wali Faqi dei musulmani a cui va il nostro saluto (…)” (“La liberazione libanese”, Il Puro Islam, anno 9, n. 5, maggio-giugno 2000, pp. 1-2 [p. 1]), e, in generale, sostiene attraverso dichiarazioni pubbliche la causa islamica nelle «zone calde» del mondo (Palestina, Iraq…).

Tramite una newsletter aperiodica, diffusa mediante e-mail, l’organizzazione diffonde commenti, notizie, prese di posizione di esponenti e guide spirituali del mondo sciita internazionale (in traduzione italiana) circa alcune questioni di particolare interesse e attualità politico-religiosa. Inoltre, diffonde testi di esponenti autorevoli del mondo sciita e annuncia le sue iniziative pubbliche.

B.: Oltre all’agenzia di informazione (ormai una vera e propria rivista) Il Puro Islam, l’Associazione distribuisce testi a suo tempo stampati in trad. it. dal Centro Culturale Islamico Europeo, Roma, tra cui Imam Khomeini. La vita, la lotta, il messaggio (s.d.), e Salman Ghaffari, Il digiuno nell’Islam (1987); e – del teologo e protagonista della rivoluzione iraniana Morteza Mutahhari (1920-1979) – L’uomo e la fede, trad. it., Mancosu, Roma 1995. Sull’Associazione non esistono studi, l’unico contributo è di Andrea Menegotto, “Sciiti in Italia: l’Associazione Ahl-Al-Bait”, in Il Dialogo-Al Hiwâr. Bimestrale del Centro F. Peirone di Torino, anno VI, n. 3-2004, p. 20.

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IL SUFISMO E LE PRESENZE SUFI IN ITALIA

Il sufismo

Questa espressione è impiegata per rendere nelle lingue occidentali il termine arabo Tasawwuf, parola che serve a designare la mistica islamica o, più esattamente, la realtà esoterica, più profonda e interiore della religione fondata sul Corano e predicata dal profeta Muhammad. Essa è stata anticamente definita come la “scienza dell’interiore” (‘ilm al-bâtin) e la “scienza della realtà essenziale” (‘ilm al-haqîqa).

Il termine Tasawwuf deriva dalla parola Sûfî, che fa la sua prima comparsa nel II secolo dell’Egira a Kufa, quale soprannome dato a un asceta, e la si fa comunemente derivare dall’uso di questi primi asceti di indossare abiti di lana (in arabo sûf). Una tale derivazione, tuttavia, per quanto corretta linguisticamente, è di ordine esteriore e gli stessi sufi hanno proposto anche altre motivazioni, come quella che la vede associata alla parola safâ’ – “purezza” – o a suffa, con riferimento agli Ahl al-suffa, la “Gente della veranda”, alcuni compagni del Profeta che vivevano da asceti in un’area della moschea di Medina, dediti esclusivamente alla scienza sacra, agli atti di culto e al “ricordo di Dio” (dhikr).

La prima di queste ultime due derivazioni ha in vista la natura essenziale del sufismo, poiché esso consiste in una Via (tarîq), o “procedimento” (sulûk) per pervenire alla “Prossimità del Principio divino”, e per ottenere questo scopo il “viandante” (sâlik) si sbarazza progressivamente di “tutto ciò che è altro che Dio” (kullu mâ siwâ ‘Llâh). È questa la “purezza” interiore del sufi, che Junayd al-Baghdâdî (†910) definirà come “colui che Dio fa morire a se stesso e vivere in Lui”. Quanto alla seconda derivazione, essa ha in vista la fonte storica e allude al primo esempio di “sufismo” ante litteram in seno alla comunità del Profeta, quando era ancora una realtà senza nome.

Se l’origine dell’espressione rimane oggetto di discussione, tutti i maestri del sufismo sono invece concordi nel fare risalire l’origine della loro Via al Libro di Dio (il Corano) e agli insegnamenti e alla pratica del Profeta (la sunna), fonti primarie di ogni insegnamento islamico tradizionale. Non v’è autentico sufismo senza un’autentica adesione all’Islam: la Legge religiosa ne è l’aspetto esteriore (al-qishr, la “scorza”), il sufismo quello interiore (al-lubb, il “nocciolo”).

Il sufismo inizia secondo i suoi maestri con i ritiri d’isolamento, digiuno e preghiera del Profeta nella grotta Hirâ’ nei pressi della Mecca, dove egli riceve la prima rivelazione del Corano. Sempre nel Profeta esso tocca anche il suo punto culminante, quando, qualche anno prima dell’Egira, avviene la sua ascensione celeste fino al Trono di Dio, dove ha la visione del suo volto glorioso di luce. In lui risiede il fondamento delle discipline spirituali dei maestri, nonché la scienza degli stati interiori (ahwâl) e delle stazioni della Via (maqâmât).

È dal Profeta che ogni Via spirituale ha inizio, con la trasmissione della sua baraka (“influenza spirituale”) mediante un solenne Patto di alleanza lungo linee di maestri che risalgono a lui attraverso alcuni compagni, primo fra tutti il genero e cugino ‘Alî cui si ricollegano la maggior parte delle linee iniziatiche (salâsil, pl. di silsila) delle turuq (pl. di tarîqa), le confraternite del sufismo.

Questa trasmissione da maestro a discepolo in ambito iniziatico si è svolta in modo parallelo a quello della trasmissione delle tradizioni profetiche (hadîth) per quel che concerne la scienza canonica dell’Islam, ma la sua natura riservata le ha conferito, specialmente nei primi tempi, una maggior discrezione che ha fatto persino dubitare alcuni della sua effettiva esistenza. La tradizione conserva comunque testimonianze inconfutabili sulla sua presenza fin dalla prima ora, come l’insegnamento di ‘Alî al discepolo Kumayl ibn Ziyâd (†701), o le riunioni private di Hasan al-Basrî (642-728) sulla “scienza esoterica”.

Nei primi due secoli le figure spirituali emergenti sono quelle di asceti (zuhhâd) che disprezzano il mondo e le sue delizie, interamente dediti a mortificare la loro anima carnale, a osservare uno scrupolo rigoroso sulla liceità di tutto quel che viene loro da questo “basso mondo”, timorosi del loro destino postumo e desiderosi del compiacimento divino.

Un cambiamento sostanziale si opera nel III secolo e coincide con l’affermarsi dei termini sûfî e del collettivo sûfiyya, per designare la Gente della Via, specialmente quella della scuola di Baghdad, nuova capitale del califfato abbaside. In quest’epoca di grande fermento intellettuale e di elaborazione minuziosa di tutto il sapere islamico anche la spiritualità si ammanta di una veste adeguata alle nuove situazioni cui andava incontro una società certo più sofisticata, ma impoverita rispetto alla purezza primordiale delle origini: la cultura del deserto aveva ceduto il passo a quella urbana della metropoli.

Junayd al-Baghdâdî e Husain ibn Mansûr Hallâj (giustiziato a Baghdad nel 922) – rappresentanti emblematici delle due correnti fondamentali del sufismo, quella “sobria” e intellettuale e quella “estatica” e passionale – sono due figure chiave di quest’epoca. Il primo per la sua elaborazione dottrinale della scienza del Tawhîd (l'”Unicità divina”, ma anche l'”unione” dell’iniziato con la Realtà suprema), base di ogni successivo sviluppo dottrinale di ordine metafisico; il secondo per il carattere provocatorio e paradossale delle sue enunciazioni (le shatahât, o “locuzioni teopatiche”), famosa fra tutte la frase Anâ-l-Haqq, “io sono il Vero” cioè Dio, che lo porterà al patibolo. Il paradosso della “Identità suprema” – dal momento che l’essere possibile è da sempre e per sempre distinto dall’Essere necessario – non sarà mai compreso dai dottori della Legge ed è proprio Hallâj a segnare il solco che li vede definitivamente contrapposti ai depositari della saggezza interiore.

Non si tratta, beninteso, di una reale contrapposizione fra esoterismo ed exoterismo, bensì solo dell’ostilità di una certa classe di rappresentanti dell’aspetto più letteralista dell’Islam, e ciò farà sì che i maestri del sufismo sentano sempre più la necessità di giustificare le loro dottrine e le loro pratiche agli occhi della Sharî’a.

La sintesi perfetta fra le diverse componenti della Rivelazione muhammadiana è infine raggiunta, secondo il sufismo, da Abû Hâmid al-Ghazâlî (1058-1111), autore del notissimo Ihyâ’ ‘ulûm al-dîn (la “Rivivificazione delle scienze religiose”), che contribuisce in modo notevole a ristabilire una sorta di tregua fra le parti e ad allontanare dal sufismo il sospetto di eresia.

Di poco posteriore è anche l’istituzionalizzazione dei legami e delle norme che regolano il rapporto fra maestro (shaykh) e discepolo (murîd): è la nascita vera e propria delle “confraternite” (turuq) del sufismo quali oggi le conosciamo, prima fra tutte la Qâdiriyya, che è fatta risalire al santo di Baghdad ‘Abd al-Qâdir al-Jîlânî (1078-1166).

L’inventario dettagliato di queste turuq è alquanto lungo, ma la maggior parte può essere facilmente ricondotta a una delle linee spirituali primarie in cui va ad innestarsi come il ramo nel tronco: la già menzionata Qâdiriyya, la Suhrawardiyya, la Shâdhiliyya, la Rifâ’iyya, la Kubrawiyya, la Mawlawiyya, la Naqshbandiyya, la Khalwatiyya, la Chistiyya e la Tijâniyya, nomi che indicano la filiazione (nisba) di ciascuna di esse dal rispettivo santo fondatore.

Nell’Islam, tuttavia, il fatto istituzionale delle confraternite è un elemento puramente accidentale; l’essenziale è costituito dal ricollegamento a una linea ininterrotta di maestri. Se questo ricollegamento, a partire dal XIII secolo, si è dato la struttura formale delle confraternite, ciò è avvenuto al fine di assicurare alla società islamica in modo capillare un tessuto connettivo con il suo cuore spirituale.

La sfera del sufismo coincide con quella della santità (in arabo walâya), ma il diverso clima spirituale dà a questa nozione una coloritura diversa da quella che essa assume nel contesto cristiano (la nozione cristiana della santità è espressa in arabo dal termine qadâsa); il santo, per i musulmani, è più esattamente l'”amico” (walî) di Dio, colui che gli è vicino.

Non a caso è attorno alla nozione di “vicinanza” (qurb) che una tradizione di santità, comunicata da Dio tramite il Profeta, definisce quanto vi è di essenziale nella via del sufismo: “Il Mio servo non si avvicina a Me con nulla di meglio di quel che Io gli ho reso obbligatorio. Ed egli non cessa di avvicinarsi a Me con le opere supererogatorie fino a quando Io l’amo, e quando Io l’amo, sono Io l’udito col quale sente, la vista con cui vede, la mano con cui afferra, il piede con cui cammina; e se Mi domanderà, gli concederò; e se si rifugerà presso di Me, gli concederò rifugio”.

La chiave di volta di questo processo è il cuore (qalb), a un tempo centro dell’essere e organo sottile che presiede alla conoscenza contemplativa, ossia diretta e intuitiva delle realtà trascendenti e – scopo ultimo della Via – di Dio stesso. Il cuore è l’intermediario fra l’anima (nafs), solitamente intesa come anima inferiore, sede dell’egoità e delle passioni, e lo spirito (rûh), l’elemento sopraindividuale dell’essere che consente all’uomo di ritornare alla sua origine trascendente (cfr. Cor., 15:28-29: “E quando il Tuo Signore disse agli angeli… Io vado a creare un uomo; poi, quando l’avrò ben formato e avrò insufflato in lui del Mio spirito, gettatevi prosternati davanti a lui”).

Dalla sua purezza o corruzione dipende l’esito del nostro destino postumo e della nostra realizzazione spirituale, conformemente alla parola del Profeta: “Vi è nel corpo un piccolo pezzo di carne: se esso è (spiritualmente) sano tutto l’essere è sano e se è corrotto tutto l’essere è corrotto e questo è il cuore”. La via comporta dunque necessariamente due fasi. La prima è quella purgativa, in cui ci si sbarazza di tutti gli attaccamenti e le passioni purificando la propria anima (tazkiyyat al-nafs), conformemente al versetto: “Prospererà colui che si purifica (tazakka), glorifica il nome del suo Signore e prega” (Cor., 87:14-15); è il momento della mujâhada, lo “sforzo” contro le tendenze oscure e centrifughe della nostra individualità, chiamata anche al-jihâd al-akbar, la “grande guerra santa”. In seguito viene la “lucidatura del cuore” (tasfiyat al-qalb) affinché in esso si rispecchino le realtà superiori e angeliche e le illuminazioni del Signore.

A partire da questo momento ha inizio la fase contemplativa o mushâhada, che realizza la sua pienezza nelle stazioni della conoscenza, dell’estinzione, della permanenza, della sintesi e, infine, dell’unificazione. Interrogato sul sufismo, Shiblî (861-945) ha risposto: “Il suo inizio è la Gnosi (ma’rifa) e il suo fine è l’Identità suprema (tawhîd)”. All’inizio vi è il Tawhîd della professione di fede – Lâ ilâha illa ‘Llâh, “non vi è divinità se non Dio” -, al termine vi è il Tawhîd che solo l’Essere divino fa di se stesso: solo quando l’essere contingente è “estinto” a se stesso (fanâ’) e reso “permanente” attraverso Lui (baqâ’) può contemplare che, nell’unità divina, non vi è altri che Lui a proclamare la sua unità. In questo senso ‘Abd Allâh al-Ansârî (1006-1089) dirà: “L’Unità dell’Unico nessuno l’afferma: chiunque l’affermi la nega. L’affermazione dell’Unità, in chi parla di tale Sua qualità, è vano discorso che l’Unico annienta. L’affermazione della Sua Unità a Se stesso è l’af-fermazione vera della Sua Unità”.

In sintesi, la religione (al-dîn), come sarà definita dal Profeta in una famosa tradizione, è strutturata in tre gradi: l’islam (la “sottomissione”), che consiste nella pratica dei cinque pilastri noti; l’îmân (la “fede”), che è l’adesione del cuore alle verità rivelate; e infine l’ihsân (la “perfezione”) – l’essenza del sufismo -, che nelle parole dello stesso Profeta consiste “nell’adorare Dio come se tu Lo vedessi”, dove non s’intende certo una semplice attitudine psicologica. Si tratta, in altri termini, dei tre gradi della Legge (sharî’a), della Via (tarîqa) e della Verità essenziale (haqîqa).

Si è detto all’inizio che il modello del sufismo è mutuato secondo i suoi maestri dalla pratica del Profeta e dall’esempio di vita ascetica cui erano dediti alcuni dei suoi compagni di elezione. La vita austera e la rinuncia al mondo hanno sempre caratterizzato le “genti (della Via)” (al-qawm), comunemente chiamati “i poveri” (al-fuqarâ’), benché questa povertà corrisponda in certi casi solo a un distacco interiore e non sia sempre necessariamente accompagnata anche da una effettiva indigenza di ordine materiale. Per Abû l-Husayn al-Nûrî (c. 840-907) il sufi è “colui che non possiede nulla e da nulla è posseduto”.

A partire da Tustarî (818-896), fondamentali elementi della Via sono considerati il silenzio, la solitudine, la fame e la veglia, elementi che verranno tutti condensati nella pratica del “ritiro cellulare” (khalwa) compiuto sotto la guida e la sorveglianza di un maestro esperto. Questo ritiro – che può essere ripetuto più volte – non deve però mai superare il periodo massimo di quaranta giorni (anche se ripetibile).

A questi ritiri accedono comunque solo i discepoli che hanno già compiuto dei progressi sulla Via, in assenza dei quali una tale pratica potrebbe risultare pericolosa, se non addirittura nociva. Tutti, indistintamente, sono invece tenuti a recitare quotidianamente, a ore stabilite e per uno specifico numero di volte, le orazioni dell’ordine: è la pratica del wird (il “rosario”), che consiste in una serie di formule sacre quali, per esempio, la “richiesta di perdono”, la “preghiera sul Profeta” e la “professione di fede”.

Oltre a queste formule, il discepolo sarà istradato a praticare per quanto possibile il dhikr, l'”invocazione” o “ricordo di Dio”, mediante uno dei suoi nomi o con la “professione di fede” (Lâ ilâha illa ‘Llâh), ma potrebbe anche utilizzare una delle numerose formule della “preghiera sul Profeta” in ottemperanza all’ordine divino di pregare per lui (cfr. Cor., 33:56) e alla tradizione profetica secondo cui i più vicini a lui nel Paradiso saranno coloro che più hanno pregato per lui in questo mondo. Il dhikr, come la “preghiera del cuore” del cristianesimo esicasta e il japa induista, è la pratica principe di tutto il sufismo, la chiave che – unitamente all’osservanza scrupolosa della Legge e alla sincerità d’intento – apre la porta del cuore, tempio interiore della presenza divina conformemente alla tradizione santa: “I Cieli e la Terra non Mi contengono, ma Mi contiene il cuore del Mio servitore fedele”.

Personalità illustri del sufismo hanno contribuito in modo considerevole allo sviluppo e alla grandezza della civiltà islamica; molti sono stati dottori della Legge, letterati, poeti, calligrafi, uomini di Stato e guerrieri, ma soprattutto si sono distinti per avere dato luogo a una vasta letteratura spirituale, considerata da molti di grande profondità e bellezza espressiva.

La loro dottrina, oltre agli aspetti più tecnici concernenti le modalità del viaggio iniziatico, i suoi mezzi, le condizioni, le tappe e gli stati di realizzazione, ruota essenzialmente attorno all’esposizione in chiave metafisica e iniziatica del pilastro centrale della religione islamica, ossia la duplice testimonianza di fede: da un lato quella già menzionata concernente l’unicità divina – il Tawhîd, appunto – e dall’altro quella relativa alla missione legiferante del Profeta, la Risâla, a partire dalla quale è stata sviluppata anche tutta la dottrina concernente la santità.

L’approccio a questi temi sarà svolto a partire dalle due tendenze fondamentali, la “gnostica” e la “passionale”, già riscontrate nelle persone di Junayd e di Hallâj, veri precursori di questi due aspetti della dottrina. L’apice e, potremmo dire, la fioritura della letteratura iniziatica rappresentata da queste due scuole spirituali si hanno attorno al XIII secolo: il primo nella persona dell’andaluso Muhyî-l-dîn Ibn ‘Arabî (1165-1240), teorico della wahdat al-wujûd (la dottrina dell’essenziale unità dell’Essere) e autore delle monumentali Futûhât al-makkiyya e dei Fusûs al-hikam; la seconda in quella dell’anatolico Jalâlu-l-dîn Rûmî (1207-1273), cantore dell’inesprimibile splendore divino e autore del celebre Mathnâwî.

Sarà soprattutto Ibn ‘Arabî a influenzare col suo poderoso pensiero la gran parte delle successive generazioni di spirituali musulmani; perfino quelli che gli saranno ostili o esprimeranno delle riserve nei suoi confronti non potranno fare a meno di riconoscere il tributo dovuto alla sua opera, che gli è valsa l’appellativo di al-Shaykh al-akbar, “il più grande dei maestri”.

L’approccio diretto ai suoi scritti rimane comunque appannaggio di un’élite; sia per la loro mole sia per la difficoltà e la complessità della sua dottrina, pochi sono coloro in grado di poterla padroneggiare con sufficiente competenza. Ciò non ha comunque impedito che un’eco dei temi e delle nozioni ricorrenti si sia diffusa a livelli quasi popolari, non di rado con delle semplificazioni e distorsioni che hanno suscitato un certo allarme.

Tutto questo ci può dare un’idea della penetrazione del sufismo nella società islamica. Benché destinato a una cerchia ristretta e tale rimasto per un lungo periodo di tempo, con la nascita delle confraternite esso ha permeato e chiamato a sé grandi folle di fedeli. Alcune delle turuq principali contano al giorno d’oggi centinaia di migliaia di affiliati – talvolta persino diversi milioni – sparsi in tutto il mondo.

Tale il caso per tutte le grandi turuq anche se, a grandi linee, la Qâdiriyya è diffusa soprattutto nel Medio Oriente; la Naqshbandiyya si estende dal Medio all’Estremo Oriente; la Chistiyya è diffusa in particolare nel subcontinente indiano; l’area d’influenza della Shâdhiliyya rimane in particolare il Nord Africa e il Medio Oriente; e quella della Tijâniyya comprende il Nord Africa, l’Africa sub-sahariana e l’Indonesia.

Una propagazione di tale ampiezza si giustifica come una forma estrema di partecipazione spirituale all’irraggiamento della luce profetica, ma essa comporta anche, necessariamente, una progressiva e sempre più gerarchizzata struttura all’interno delle turuq medesime. In tal modo, infatti, la cerchia più interna di ciascuna tarîqa, secondo i suoi esponenti, tiene al riparo da ogni volgarizzazione il cuore della dottrina e ne impedisce la divulgazione impropria.

Nel secolo appena trascorso, a partire soprattutto dalla seconda metà, il sufismo ha cominciato a penetrare anche in Occidente, e non solo attraverso il fenomeno dell’immigrazione, bensì fra gli stessi europei e americani che hanno aderito all’Islam. Francia e Svizzera hanno ospitato i primi germi di questa forma di spiritualità e un indubbio contributo alla sua impiantazione è venuto, in origine, dall’opera del francese René Guénon (1886-1951), anche se sarebbe forse più corretto dire che più che la sua opera pubblica, centrata attorno alla nozione dell’unità essenziale e dell’origine unica, primordiale di tutte le forme tradizionali e fortemente marcata dagli insegnamenti dell’Advaita Vedânta, hanno contribuito le più discrete indicazioni del suo epistolario e l’esempio della sua adesione personale.

Al Cairo, dove vive senza più lasciarlo gli ultimi venti anni della sua vita, è noto col nome di shaykh Abdel-Wâhid Yahyâ ed egli stesso è ricollegato, attraverso il pittore svedese John Gustav Aguelii – Abdul-Hâdî (1869-1917), all’importante maestro shâdhilita ‘Abd al-Rahmân ‘Illaysh al-Kabîr (c. 1845-1922), cui dedica il suo Symbolisme de la Croix.

A partire da Guénon, formata sulla sua opera, nasce tutta una generazione di intellettuali europei, primi in ordine di tempo i suoi amici, collaboratori e corrispondenti. Uno di costoro, l’alsaziano Frithjof Schuon (1907-1998), noto anche come shaykh ‘Aïssa Nureddin, fonda a Losanna – nel 1934 – la prima branca europea di una tarîqa, la Shâdhiliyya-‘Alawiyya dello shaykh Ahmad al-‘Alawî di Mostaganem (1869-1934).

In seguito si è progressivamente allontanato tanto dalla cosiddetta “ortodossia guénoniana” che da quella islamica tout court, con gravi fratture nell’ordine da lui fondato, e col suo trasferimento a Bloomington (Indiana, USA), attorno agli anni 1980, la vicenda è andata vieppiù degenerando (in Italia, peraltro, esiste tuttora un piccolo gruppo di membri della confraternita fondata da Schuon con il nome di Maryamiyya).

Fra i guénoniani della prima generazione, va menzionato ancora il romeno Michel Vâlsan (1907-1974), noto come shaykh Mustafa ‘Abdel-‘Azîz; ricollegato al sufismo da Schuon nel 1938, inizia con il rappresentare quest’ultimo a Parigi, ma finisce – su consiglio dello stesso Guénon – con lo staccarsi da Schuon per stabilire sempre a Parigi una nuova branca ‘Alawiyya.

È a lui che si devono i primi importanti studi sulle opere di Ibn ‘Arabî, sui quali si sono formati molti illustri studiosi contemporanei del grande maestro andaluso; è lui, soprattutto, che ha messo in luce, dopo la morte di René Guénon, la matrice profondamente islamica della sua opera e ha mostrato la funzione particolare a suo avviso riservata a questa tradizione nell’epoca in cui viviamo. In Italia l’opera di Guénon è stata diffusa inizialmente dalle Edizioni Studi Tradizionali di Torino, cui fa capo anche il trimestrale Rivista di Studi Tradizionali, fondato nel 1962 da Roger Maridort (1903-1977). In ultima analisi, la corrente di pensiero sorta dall’opera di René Guénon può essere considerata il punto di partenza della maggior parte delle turuq presenti in Occidente.

B.: Si potrà partire, per un’introduzione generale, da Mark Sedgwick, Il sufismo, Elledici, Leumann (Torino) 2003. Opere a carattere introduttivo sul sufismo: AA.VV., Il Sufismo: via mistica dell’Islam, ESD, Bologna 2000; Seyyed Hossein Nasr, Il Sufismo, trad. it., Rusconi, Milano 1975; Alberto Ventura, L’Esoterismo islamico, Atanor, Roma 1981; Titus Burckhardt, Introduzione alle dottrine esoteriche dell’Islam, trad. it., Mediterranee, Roma 1979; Marijan Molé, I mistici musulmani, trad. it., Adelphi, Milano 1992; cfr. pure René Guénon, Scritti sull’esoterismo islamico e il Taoismo, trad. it., Adelphi, Milano 1993. Si vedano inoltre: Alexandre Popovic – Gilles Veinstein (a cura di), Les Voies d’Allah. Les ordres mystiques dans le monde musulman des origines à aujourd’hui, Fayard, Parigi 1996; e Annemarie Schimmel, Mystical Dimensions of Islam, University of North Carolina Press, Chapel Hill (USA) 1975. Un’antologia di insegnamenti sufi si trova in Eva de Vitray-Meyerovitch, I mistici dell’Islam, trad. it., Guanda, Parma 1991; le vite dei sufi antichi in Farîd ad-Dîn al-‘Attâr, Tadhkirat al-awliyâ’, trad. it., Luni, Milano 1994. Per Ghazâlî si veda: Scritti scelti di al-Ghazâlî, trad. it. a cura di Laura Veccia Vaglieri e Roberto Rubinacci, UTET, Torino 1970; di Ibn ‘Arabî, La saggezza dei Profeti, a cura di T. Burckhardt, trad. it., Mediterranee, Roma 1987; nonché l’ottima sintesi introduttiva di Claude Addas, Ibn Arabî et le voyage sans retour, Éditions du Seuil, Parigi 1996. Su René Guénon e l’Islam, si veda Michel Vâlsan, L’Islam et la fonction de René Guénon, Les Éditions de l’Œuvre, Parigi 1984; e Charles-André Gilis, René Guénon et l’avènement du troisième Sceau, Éditions Traditionnelles, Parigi 1991.

La  tarîqa  Tijâniyya

E-mail per l’Italia: Tijaniyya@infinito.it

La Tijâniyya risale allo shaykh Abû-l-‘Abbâs Ahmad at-Tijânî (1737-1815), discendente del Profeta attraverso al-Hasan, nato nel villaggio fortificato di ‘Ain Madi (Algeria). Rimasto orfano all’età di sedici anni completa i suoi studi religiosi a Fes, dove è iniziato al sufismo. Da qui parte poi per il pellegrinaggio, ed è ricollegato a molte turuq e ai maestri più importanti della sua epoca nelle diverse branche della Shâdhiliyya e della Khalwatiyya; ritornato alla terra natia inizia ad accogliere i suoi primi discepoli nella linea iniziatica (silsila) dello shaykh khalwatî egiziano Mahmûd al-Kurdî (1717-1780). In Algeria lo shaykh trascorre altri lunghi anni di ritiro nel deserto, ad Abû Samghûn, dedicandosi intensamente alla recitazione della Salâtu-l-fâtih, una speciale preghiera sul Profeta di origine divina considerata uno dei mezzi più efficaci per avvicinarsi ad Allâh attraverso la mediazione del suo inviato.

Nel 1782 ottiene il raro favore della visione del profeta Muhammad allo stato di veglia; da quello stesso momento il Profeta, che in seguito lo shaykh Tijânî continuerà a vedere, come lui stesso afferma, “in ciascun istante della sua vita” (sia allo stato di veglia sia secondo altre modalità), è il suo unico maestro nella Via ed è lui stesso a conferirgli i riti della nuova tarîqa che sta nascendo. Su ordine del Profeta ogni precedente filiazione iniziatica ricevuta dallo shaykh Tijânî è abrogata e la tarîqa ascritta direttamente al profeta Muhammad, solo vero fondatore della Tijâniyya.

Nel 1789 lo shaykh si trasferisce a Fes; qui incontra il favore del sultano del Maghreb Mawlay Sulaymân (il cui periodo di sultanato dura dal 1792 al 1822, anno della sua morte), che diviene suo discepolo, e qui è fondata anche la Zâwiya madre (sede) della tarîqa, il cuore del suo irraggiamento spirituale, dove lo shaykh rimane fino alla sua morte istruendo i discepoli e impartendo il suo insegnamento.

Quest’ultimo, molto vicino al pensiero di Ibn ‘Arabî, è riunito nelle opere principali dell’Ordine, prima fra tutte i Jawâhir al-ma’ânî del suo discepolo prediletto ‘Alî Harâzim (†1800). La Tijâniyya fa capo a un khalîfa generale che appartiene alla famiglia dello shaykh e risiede ad ‘Ain Madi; a questi sottostanno degli altri khulafâ’ che presiedono a specifiche aree geografiche e hanno una diretta autorità sui diversi maestri dell’Ordine. Già all’epoca dello shaykh la tarîqa conosce subito una grande diffusione, cui hanno contribuito anche i suoi principali discepoli come ‘Alî Harâzim, ‘Alî at-Tamassinî (1766-1844), Ibrâhîm ar-Riyâhî (c. 1767-1850), Muhammad al-Ghâlî (†1829), Muhammad ash-Shinqitî (†c. 1830), per citarne solo alcuni.

Diffusasi inizialmente nel Maghreb e nell’Africa occidentale, dopo la morte dello shaykh essa raggiunge l’Egitto e anche il lontano Estremo Oriente, ma è soprattutto in tutta l’area sub-sahariana che conosce la sua maggiore espansione. Questa avviene in due fasi successive: la prima per opera del mujâhid tukolor (termine derivato dal nome – takrûrîn – degli abitanti del Takrûr, una regione del Futa Toro, nell’odierno Senegal, da cui toucouleur in francese) al-Hâjj ‘Umar (c. 1795-1864), che converte le popolazioni africane all’Islam diffondendovi la tarîqa; la seconda attraverso lo shaykh Ibrâhîm Nyass, conosciuto come sâhib al-fayda, il “signore dell’espansione”.

 

Diffusa attualmente in varie parti del mondo, essa conta ormai diverse decine di milioni di aderenti (secondo alcune fonti oltre cento milioni, tenuto conto che nell’Africa sub-sahariana accade spesso di essere nel contempo muslim e tij­ânî, per quanto non sia facile discernere ove si tratti di una vera affiliazione e ove di un’adesione “sentimentale” alla confraternita). Fra i principali maestri di questo secolo ricordiamo il sapiente maghrebino Ahmad Sukayrij (1877-1944) – è lui il primo a salire sul pulpito e a dirigere la preghiera del venerdì in occasione dell’apertura della Moschea di Parigi -, il già menzionato shaykh Ibrâhîm Nyâss e l’egiziano grande conoscitore di tradizioni profetiche (muhaddith), lo shaykh Muhammad al-Hâfiz al-Misrî (1897-1978), riconosciuto come uno dei più grandi sufi e sapienti della nostra epoca; di lui basterà ricordare che manifesta segni di elezione divina in giovanissima età e che, ancora adolescente, si ritira per diversi anni da solo nel deserto egiziano.

 

L’italiano che nel 1984 porta la tarîqa nel nostro paese – ricollegato ai principali maestri tijânî dell’Egitto, del Maghreb e al Khalîfa generale di ‘Ain Madi – ha ricevuto la sua formazione iniziale da questo maestro. La tarîqa conta attualmente nel nostro paese – oltre agli affiliati immigrati di origine maghrebina o senegalese, difficilmente quantificabili – una trentina di membri italiani distribuiti in prevalenza nell’Italia Nord-Orientale, in Emilia e in Liguria.

 

A partire dal XVI secolo, ma soprattutto nei secoli XVIII e XIX, all’interno del sufismo è predicato il “ritorno alle origini”, ossia la pratica di una spiritualità più aderente a quella dell’epoca del profeta Muhammad e dei suoi compagni, che non ai metodi elaborati a partire dal III secolo dell’Egira, specialmente nella scuola di Baghdad. Molte turuq (o ramificazioni) sorte in quest’epoca si sono date il nome di tarîqa Muhammadiyya. La Tijâniyya è una di queste; più esattamente si considera l’ultima delle turuq sorte dalla spiritualità muhammadiana e questa sua natura “conclusiva” è sottolineata dal suo stesso nome che è at-tarîqa al-Ahmadiyya al-Muhammadiyya al-Ibrâhimiyya al-Hanîfiyya (Tijâniyya è solo la filiazione derivante dal nome del maestro fondatore, “fondatore” beninteso, secondo i membri, dopo lo stesso Profeta).

 

Questo nome infatti riassume in sé le tappe fondamentali di tutta la storia sacra a partire da Adamo: la Hanîfiyya, poiché allude alla Tradizione primordiale; l’Ibrâhimiyya poiché passa per il profeta Abramo, padre delle tre religioni monoteistiche; la Muhammadiyya, perché essa attinge direttamente dalla Realtà (haqîqa) di Muhammad, “Sigillo dei Profeti”; e infine l’Ahmadiyya, che allude alla Realtà ultima e più interiore del Profeta (la Haqîqa Ahmadiyya), poiché è il luogo di contemplazione particolare del “Sigillo dei Santi” (khâtim al-awliyâ’), funzione specifica dello shaykh Tijâni, che ha affermato di esserne stato investito dal Profeta sempre allo stato di veglia. La santità (walâya) da lui “sigillata” è infatti quella di tipo speciale muhammadiano, poiché quella di ordine generale sarà “sigillata” da Gesù al tempo della seconda venuta.

 

Lo shaykh dichiara inoltre d’essere il “Polo nascosto” (al-qutb al-maktûm), colui che funge da intermediario supremo fra gli spiriti dei profeti e gli spiriti dei diversi poli spirituali (aqtâb) di ogni epoca. Lo shaykh, riprendendo la famosa frase che sette secoli prima aveva pronunciato ‘Abd al-Qâdir al-Jîlânî – “Questo mio piede è sul collo di ogni Santo di Dio”, il cui clamore continuò per secoli a infiammare gli spirituali del sufismo -, dichiarerà: “Questi miei due piedi sono sul collo di ogni santo di Dio, dall’epoca di Adamo fino a quando verrà soffiato nella Tromba”. Preciserà inoltre, onde l’affermazione non sia presa come un fenomeno di “locuzione estatica” (shath), in presenza di Muhammad al-Ghâlî che lo interrogherà in proposito, di trovarsi in un perfetto stato di sobrietà spirituale e che, benché ugualmente vera, la frase di al-Jîlânî si riferiva solo ai santi della sua epoca.

 

In altre occasioni dirà ancora: “Tutti i maestri ricevono (l’influenza spirituale) da me, dall’epoca dei Compagni sino a che verrà soffiato nella Tromba”. E ancora, avvicinando due dita della mano: “Il mio spirito e quello del Profeta sono così; il suo spirito dona l’influenza spirituale agli spiriti dei Profeti e degli Inviati e il mio spirito la dona agli spiriti dei Poli e dei Conoscitori”. È questa dottrina che va a determinare il carattere esclusivista della tarîqa e a impedire ogni sua mescolanza con le altre, pur nel rispetto di ciascuna; essa impone infatti, fra le condizioni di appartenenza, che la tarîqa sia presa col voto di praticarla per tutta la vita, che non si prenda né si pratichi alcun altro wird assieme al wird della tarîqa, e che non sia fatta visita agli altri Awliyâ’ (santi), sia viventi sia defunti, onde non venire meno al corretto comportamento (adab) verso il maestro, intermediario supremo del Profeta.

 

La Tijâniyya si considera perciò l’espressione della pura “Via muhammadiana”, contraddistinta dall’equilibrio fra le forme estreme di spiritualità, come sottolineato dall’ingiunzione del Profeta allo shaykh Tijânî di percorrere questa Via senza isolamento e senza starsene lontano dagli uomini (nonostante la tarîqa conosca diverse forme di khalwa, il “ritiro cellulare”). Ed è per questo, inoltre, che i testi della tarîqa sottolineano trattarsi di una via malâmati, ossia di una via in cui i santi non si caratterizzano per degli stati esteriori che li distinguono rispetto alla gente comune. Il malâmati infatti, come è definito da Abû ‘Abd al-Rahmân Sulamî (936-1021), è colui che benché abbia raggiunto interiormente i più elevati stati di prossimità divina, analogamente al Profeta quando ritorna fra le creature dopo la sua “Ascensione celeste”, non lascia trasparire esteriormente nulla del suo stato interiore.

 

Oltre ai riti iniziatici obbligatori che il discepolo tijânî è chiamato a praticare, come il wird recitato al mattino e alla sera, la Wazîfa (un rito speciale) e il dhikr collettivo del venerdì con la formula della “professione di fede” (da sola o con l’aggiunta del Nome dell’Essenza Allâh), la tarîqa comprende molte altre pratiche di ordine esoterico. Per l’essenziale, comunque, essa è imperniata sulla Salât sul Profeta, in particolare la Salâtu-l-fâtih, che lo stesso shaykh praticò per tutta la vita, e mediante la quale molti suoi aderenti partecipano agli stati e alle stazioni spirituali del maestro.

 

Il grado ultimo (al-fath al-akbar) secondo la Tijâniyya – che è stata definita Via di ringraziamento e di lode – è infatti la “visione del Profeta”, intendendo con ciò la contemplazione dell’Essenza divina nello specchio di Muhammad dove essa si manifesta assieme a tutti i suoi nomi e attributi, “affinché – come scrive Ibn ‘Arabî – essa si imprima sul tuo specchio, sicché tu possa vedere il Principio in una Forma muhammadiana se-condo una Visione muhammadiana… poiché questa è la visione più perfetta e la più vera”. Ha scritto lo shaykh Muhammad al-Hâfiz: “Coloro che hanno otte-nuto la realiz-zazione spirituale in questa tarîqa hanno detto che essa include i gradi spirituali più elevati di tutte le altre Vie e che vi sono com­presi tutti i metodi di disciplina ini­ziatica (tarbiya); non vi è principio stabilito da un mae-stro o da un intervento divino che non si trovi anche in questa Via e nel modo più perfetto, ed essa possiede inoltre per sé sola ciò che distingue in modo speciale la sua gente”; e Tierno Bokar (1875-1940), un maestro africano, ha detto: “La Tijâniyya occupa fra le altre turuq lo stesso posto che l’Islam occupa fra le altre religioni, e conferisce allo shaykh Tijânî tra i santi una posizione analoga a quella del Profeta tra gli altri profeti”.

 

B.: Per una visione d’insieme, si vedano: Amadou M. Samb, Introduction à la Tariqah Tidjaniyya, Al-Bustane, Parigi 1996; Jamil Abun-Nasr, The Tijaniyya. A Sufi Order in the Modern World, Oxford University Press, Londra 1965. Inoltre: Alberto Grigio, “Le fonti della Tarîqa Tijâniyya”, Annali di Ca’ Foscari, XXXVII, 3, Venezia 1998, pp. 155-186; Jacques Berque, L’intérieur du Maghreb XVe-XIXe siècle, Gallimard, Parigi 1978; Muhammad at-Tâdilî, “Commento al Libro dello Sciaikh Ahmed at-Tigiânî intitolato ‘Il Gioiello’ (‘Al-Giàwharah’)”, trad. it., Rivista di Studi Tradizionali, 35 (1971), pp. 148-156; 36 (1972), pp. 12-22; 37 (1972), pp. 88-98; e 38 (1973), pp. 7-15; e Amadou Hampaté Ba, Il Saggio di Bandiagara (la vita di Tierno Bokar), trad. it., L’Ottava, Milano 1980.

 

La Jamâ’at al-Fayda al-Tijâniyya

 

(Non esistono sedi; i membri si riuniscono in case private o presso le associazioni “laiche” di immigrati senegalesi)

 

La Jamâ’at al-Fayda al-Tijâniyya (“Comunità della Grazia [o dell’effusione] tijânî”), ramo della confraternita Tijâniyya – quantunque non indipendente o staccato dalla tarîqa principale -, è fondata nel 1931, in Senegal, da Ibrâhîm Nyass (1902-1975). Nato a Taiba (un villaggio fondato dal padre nella regione senegalese del Sine-Saloum, non lontano dal confine con il Gambia) in una famiglia che vanta una discendenza dal profeta Muhammad – peraltro, nell’albero genealogico della famiglia si riscontrano autorevoli esponenti della Tijâniyya – e cresciuto a Kaolack, uno dei centri più rinomati di studi religiosi in Senegal, il nome della confraternita a lui ricondotta è noto come Tijâniyya Ibrâhîmiyya, Tijâniyya Inyâssiyya – a fianco delle quali gli studiosi occidentali utilizzano talora “Tijâniyya riformata” -, e in Nigeria, dove a partire dagli anni 1940 ha conosciuto una straordinaria diffusione, anche con la denominazione popolare di Tijâniyya Kawlakhiyya (“Tijâniyya di Kaolack”).

 

Ricevuta una prima istruzione religiosa tradizionale dal padre ‘Abdallâh Nyass (1844-1922), da questi riceve inoltre il wird della Tijâniyya, che gli sarà in seguito rinnovato – fra gli altri – dai maestri mauritani Muhammad Mahmûd al-Shinjîtî, ‘Abdallâh al-‘Alawî e Muhammad al-Kabîr al-‘Alawî (tre personaggi di cui si ignorano le date), come pure dallo shaykh marocchino Ahmad Sukayrij (1877-1944), durante il suo viaggio nel Maghreb attorno al 1937, la cui ijâza (permesso iniziatico) fu una delle più influenti. Sul finire degli anni 1920 (probabilmente nel 1929) – ovvero in un periodo in cui il giovane Nyass ha già composto alcuni importanti scritti, primo dei quali Rûh al-Adab (“Il Senso delle buone maniere”) – si colloca una svolta cruciale nella vita di Ibrâhîm, che pone la sua ricerca di nuovi collegamenti con i rami più autorevoli della Tijâniyya, e di “segreti” dell’ordine, in una prospettiva del tutto nuova: si tratta del culmine di un itinerario mistico che egli descrive come la ricezione di una fayda (“riversamento”, “straripamento”, “effusione”; termine con un’intrinseca portata dinamica che fa esplicitamente riferimento a un atto di “movimento” verso l’esterno ed è rivestito, nella tradizione tijânî, anche di una importante connotazione escatologica).

 

Agli osservatori che si sono occupati del maestro senegalese non è sfuggita l’importanza della nozione di fayda all’interno delle sue dottrine sufi, come pure le sfumature di significato con le quali tale dottrina è stata recepita a livello popolare: dalla diffusione e massificazione delle esperienze spirituali alla popolarizzazione della Tijâniyya, semplificandone le pratiche ascetiche in modo da favorirne una diffusione più vasta fra le masse. È così che dall’inizio degli anni 1930 a Ibrâhîm Nyass e alla sua Jam­â’at al-Fayda al-Tijâniyya si aprono prospettive di espansione assolutamente inedite, dopo un primo periodo cui corrisponde la graduale maturazione di una particolare sensibilità ad alcuni temi e dottrine della tradizione del sufismo, “attinti” dal patrimonio culturale, teosofico e simbolico condensato nella tradizione della Tijâniyya senegalese, alla cui assimilazione sempre più profonda sono volti gli sforzi di Ibrâhîm. Il periodo successivo, che va dagli anni 1930 fino alla sua morte – nel 1975 -, può essere invece riassunto dall’immagine della diffusione, dello “straripamento” di questo fayd, che si è tradotto per Nyass in un impegno costante per l’espansione del suo movimento.

 

Si è accennato a un volto riformatore di Ibrâhîm Nyass. Tale tajdîd (“rinnovamento”) riguarda: il ruolo della donna (che godrebbe di un ruolo anche pubblico relativamente importante all’interno della Tijâniyya Kawlakhiyya); l’utilizzo dei mezzi di comunicazione moderni e, più in generale, l’attitudine a guardare con occhio attento innovazioni e cambiamenti; la tendenza a superare gli steccati tra i vari madhâhib (le scuole teologiche ammesse dal diritto canonico islamico) della giurisprudenza islamica, e a pensare la sharî’a in modo dinamico; alcune innovazioni che riguardano più specificamente la Tijâniyya, forse non proprio rivoluzionarie, ma che implicano uno slittamento verso un’idea meno élitaria del sufismo.

 

Anche per tali ragioni, Ibrâhîm Nyass è stato ampiamente ritenuto fra i suoi seguaci come il mujaddid del suo tempo, ovvero il “rinnovatore” della religione islamica (secondo una diffusa tradizione, ogni secolo dell’era islamica conoscerebbe una guida che espande la fede islamica e ne rinnova la pratica), il cui peculiare tajdîd consiste in un ritorno alla purezza della pratica originaria dalle sue deviazioni. Il tajdîd di Ibrâhîm Nyass è comunemente classificato dai tijânî in: a) Tajdîd nell’ambito della sharî’a; b) Tajdîd all’interno della tarîqa; c)Tajdîd nella tarbiyya (sistema di esercizi e metodi spirituali che il discepolo segue, sotto la guida del suo maestro, nel corso della sua formazione spirituale; efficacia operativa dell’iniziazione). È soprattutto nel campo della tarbiyya che le innovazioni di Ibrâhîm Nyass sembrano essere state più rivoluzionarie, pur trattandosi di un aspetto sul quale esiste un certo riserbo da parte dei membri della confraternita, riguardando la componente più personale e iniziatica dell’appartenenza a una tarîqa.

 

Sebbene una definizione esauriente del tajdîd di Shaykh Nyass nell’ambito della tarbiyya sfugga per forza di cose alla nostra osservazione esterna, alcuni segnali sembrano indicare in esso una delle più originali intuizioni del sufi senegalese. In un certo senso la tarbiyya di Ibrâhîm Nyass rappresentava la traduzione pratica delle sue dottrine sulla fayda. Se nella concezione di Ibrâhîm Nyass la fayda è, tra le altre cose, un’esperienza di rinnovamento interiore aperta a tutti, uno “straripamento” di Grazia elargita gratuitamente da Dio, un fiume in piena che si riversa su tutti gli uomini, indistintamente, la tarbiyya dello stesso shaykh sarà un percorso ascetico, in un certo senso, semplificato, per permettere di partecipare della fayda a tutti coloro che lo desiderano. È forse in quest’ottica che, per quanto l’interpretazione possa sembrare univoca, autorevoli studiosi hanno parlato a proposito di Ibrâhîm Nyass – celebrato dai suoi seguaci come il Ghawth al-zam­ânî (“Soccorso divino”) e lo shaykh al-murshid (“shaykh ben guidato”) – di “Tijâniyya popolarizzata” e di democratizzazione dell’esperienza sufi.

 

Accanto alla branca principale di Kaolack, un’altra – legata all’etnia tukolor – ha dato origine alla comunità di Madina Gunaas, legata a un fondamentalismo radicale e anti-occidentale. La congregazione fondata da Nyass – che ha avuto un grande sviluppo non solo in Senegal, ma in una vasta area che va dal Ghana al Ciad, al Togo, al Burkina Faso e alla Nigeria – si caratterizza per un rigore morale e dottrinale che la ha a lungo portata a polemizzare con i muridi. In Italia è minoritaria fra i senegalesi rispetto ai muridi, ma ha una discreta presenza a Lecce, dove la coesistenza con i muridi sembra rispettosa e pacifica.

 

B.: In italiano cfr. Andrea Brigaglia, La Fayda Tijâniyya di Ibrahim Nyass in Africa Occidentale: dinamismo e sistemi di linguaggio nel sufismo contemporaneo, Tesi di Laurea in Islamistica, Istituto Universitario Orientale, Napoli (anno accademico 1998-99); e Adriana Piga, “Un universo sufi cangiante, criptico e poliedrico: la Qadiriyya, la Muridiyya e la Tijaniyya: tre ordini mistici nel Senegal contemporaneo”, in M. I. Macioti (a cura di), Immigrati e religioni, Liguori, Napoli 2000, pp. 151-183; e Luigi Perrone, “Il ritualismo della comunità senegalese in Italia fra tradizioni e modernità”, in M. I. Macioti (a cura di), Immigrati e religioni, cit., pp. 185-221.

 

La tarîqa Shâdhiliyya-‘Alawiyya-Ismâ’îliyya

 

E-mail per l’Italia: alawiyya.ismailiyya@libero.it

 

La tarîqa Shâdhiliyya-‘Alawiyya-Ismâ’îliyya si riallaccia a una catena iniziatica che si afferma discendere dal profeta Muhammad attraverso alcuni suoi compagni – ‘Alî, Abû Bakr, Salmân al-Fârisî (†653) e Anas ibn Mâlik (†c. 710) – e che arriva quindi sino a noi lungo una linea ininterrotta di maestri sufi succedutisi nel tempo, alcuni dei quali piuttosto noti anche in Occidente (Muhammad Ibn Sîrîn [654-728], Hasan al-Basrî, ‘Abd al-Qâdir al-Jîlânî, Ibn ‘Atâ’ Allâh [1259-1309], Abû Hâmid al-‘Arabî al-Darqâwî [1737-1823]). Il nome della tarîqa richiama tre di tali maestri, citati perché significativi della sua peculiarità: lo shaykh Abû-l-Hasan ash-Shâdhilî (1196-1258), lo shaykh Ahmad al-‘Alawî e lo shaykh Ismâ’îl al-Hâdifî (1916-1994).

 

Parlare di questi tre maestri (shuyûkh, pl. di shaykh) sembra il modo più corretto per ripercorrere brevemente la storia di questa tarîqa, operazione altrimenti assai problematica, trattandosi di una organizzazione iniziatica che non ha mai avuto interesse a lasciare visibili tracce della propria istituzione o dei mutamenti intervenuti nel suo seno. Abû-l-Hasan ash-Shâdhilî vive tra il XII e il XIII secolo. Maghrebino di nascita, viaggia a lungo per poi stabilirsi in Tunisia, dove il suo Maqâm (il “luogo” dei suoi ritiri) è ancora oggi visitato da molte persone alla ricerca di una Via o di acquisizioni spirituali. Di lui ci rimangono diverse invocazioni di carattere esoterico, la più nota delle quali è il cosiddetto Hizb al-bahr (“l’Orazione del Mare”), tuttora recitato in alcune diramazioni della tarîqa.

 

A questo maestro si richiama una vasta e ampia gamma di organizzazioni sufi presenti specialmente in Medio Oriente e nell’Occidente islamico. Anche se non è facile generalizzare, si può dire che la peculiarità distintiva della Shâdhiliyya è da ricercare in determinate caratteristiche rituali, quali l’utilizzo di un dhikr (“ricordo, incantazione”) ad alta voce; nella gran parte dei casi l’assenza, nei riti collettivi, di un supporto musicale; e la compostezza della “danza sacra”. Ahmad al-‘Alawî, algerino, è tra le figure più eminenti e rappresentative del mondo islamico del suo tempo. Sotto la sua guida la tarîqa conosce un’espansione eccezionale, tanto da essere attualmente rappresentata un po’ in tutto il mondo.

 

È inoltre autore fecondo; fra le sue opere, la più significativa – oltre che la più letta e “cantata” – è il Dîwân, raccolta di poesie in cui sono affrontati in un piacevolissimo arabo rimato vari aspetti della dottrina esoterica propria della tarîqa. L’influenza spirituale dello shaykh al-‘Alâwî si rivolge anche verso l’Occidente, come è mostrato dal Patto iniziatico che diversi europei prendono con lo shaykh, o anche dal fatto che la Moschea di Parigi (primo grande luogo di culto islamico costruito nell’Europa moderna) è inaugurata alla sua presenza. In questo senso l’azione e l’opera dello shaykh al-‘Alawî è letta da alcuni discepoli in relazione provvidenziale con quella di René Guénon (ricollegato, fra l’altro, alla catena iniziatica Shâdhiliyya).

 

Lo shaykh Ismâ’îl al-Hâdifî, di Tozeur (in Tunisia), infine, è stato professore di ‘Ilm at-tawhîd – la scienza dell’Unità divina – presso l’Università religiosa Zaytuna di Tunisi. Come lui stesso ha raccontato, il suo approccio con la tarîqa e il mondo iniziatico non è stato facile, in quanto sulle prime considerava alcuni dei riti propri del Tasawwuf non conformi all’ortodossia islamica. Fu l’incontro col suo maestro, lo shaykh Muhammad al-Madanî (†1959), discepolo di al-‘Alawî, a dargli le prove interiori di cui necessitava. “Quando lo incontrai – ricordava parlando del suo maestro, che era del tutto privo di attestazioni accademiche -, nonostante tutta la mia cultura mi sentii come si sente un bambino di prima elementare davanti a un professore universitario”.

 

Vinte le ultime resistenze grazie a un membro della tarîqa che quasi lo obbliga a prendere il Patto, shaykh Ismâ’îl procede nella Via sufi seguendo lo shaykh Madanî, sino a essere incaricato dell’educazione spirituale dei nuovi membri della tarîqa e a diventare, dopo la morte del maestro, il suo erede spirituale. Lo shaykh Ismâ’îl riunisce in sé due caratteristiche: quella di maestro sufi e quella di sapiente della Legge dell’Islam, la Sharî’a. Ricordato come “Polo dei poli” del sufismo e figura di grande mediatore spirituale, lo shaykh costituisce per molti aspiranti un “ponte” fra una visione religiosa (ma ancora profana) del mondo e una propriamente iniziatica.

 

La sua opera, pubblicata per ora solamente in minima parte, è costituita per la quasi totalità da “lezioni” (mudhâkarât) tenute agli iniziati su vari argomenti, nelle quali la dottrina del Tasawwuf è spiegata facendo costante riferimento al Corano e ai detti del profeta Muhammad. Sebbene gli elementi essenziali della tarîqa siano inalterati da secoli, si può dire che nella sua impostazione attuale essa si modella secondo la particolare impronta lasciata da questo maestro. Il totale degli appartenenti di tutte le branche della tarîqa ‘Alawiyya, diffusa in tutto il mondo, raggiunge – secondo alcune fonti – i due milioni di membri. In Europa, la tarîqa è presente soprattutto in Francia.

 

Per l’Italia, infine, esiste una Zawiya (sede dell’ordine) della Shâdhiliyya-‘Alawiyya-Ismâ’îliyya in provincia di Reggio Emilia; inoltre, in alcune città si svolgono periodicamente riunioni cui partecipano membri della tarîqa e altre persone interessate al sufismo. Non è facile quantificare il numero degli iniziati italiani e di lingua italiana, e questo per vari motivi, legati in buona sostanza alla natura prettamente spirituale, riservata e non burocratica della tarîqa: un faqîr può infatti prendere il Patto con una persona deputata a dare tale ricollegamento (Muqaddam) senza per questo essere tenuto a rendere nota la sua affiliazione o a frequentare le sedi italiane dell’organizzazione. Si può comunque stimare in una settantina circa il numero degli iniziati e dei musulmani “simpatizzanti” del Tasawwuf che si riuniscono periodicamente attorno ai responsabili italiani della tarîqa.

 

La tarîqa Shâdhiliyya-‘Alawiyya-Ismâ’îliyya si può adeguatamente definire come una “confraternita iniziatica musulmana”. Come accade in tutte le confraternite regolari, anche in questa tarîqa è considerato necessario, da una parte, il rispetto da parte dell’iniziato (il faqîr, letteralmente “povero”, “indigente” nei confronti di Allâh) sia dei riti fondamentali dell’Islam, sia dei principali elementi comportamentali e morali derivanti dall’esempio del profeta Muhammad, mentre dall’altra si opera per il raggiungimento di quella che è definita “realizzazione metafisica” con metodi e riti del tutto caratteristici, molte volte non conosciuti (e talora misconosciuti) dai profani. Si tratta comunque, secondo la confraternita, di metodi e riti derivanti dall’insegnamento profetico e specialmente dalla parte esoterica e non accessibile a tutti di tale insegnamento.

 

Il ricollegamento con un maestro del Tasawwuf facente parte della catena iniziatica – direttamente o per mezzo di una persona espressamente delegata – è condizione indispensabile per l’ottenimento delle finalità della tarîqa da parte del faqîr. Sull’entrata nella tarîqa Shâdhiliyya-‘Alawiyya-Ismâ’îliyya si può dire prima di tutto che condizione principale d’ammissione, oltre all’adesione all’Islam, è la volontà da parte dell’aspirante di ricercare Dio in purezza di cuore e sincerità d’intenti. Una formazione dottrinale guénoniana è considerata – almeno per gli occidentali – in molti casi consigliabile, ma non può essere ritenuta un requisito universalmente indispensabile, vista l’estrema varietà di tipi umani che possono avere le qualificazioni necessarie per accedere alla conoscenza iniziatica.

 

Nella tarîqa possono essere ammessi uomini e donne musulmani, senza distinzione di età, di nazionalità, di livello socio-economico e di scuola giuridica. Sulle pratiche rituali si può dire in generale che la loro funzione è quella di fornire al membro della tarîqa un “sostegno” per il suo lavoro iniziatico. Tali pratiche si possono distinguere in riti individuali e collettivi. A livello individuale ogni membro della tarîqa è tenuto alla recitazione quotidiana di un “rosario iniziatico” (wird) e, avendone il permesso, a esercitare il dhikr, consistente nella ripetizione secondo tecniche particolari del nome supremo di Dio (Allâh), o della formula attestante l’unità divina. Fra i riti non obbligatori dell’Islam exoterico, al faqîr sono consigliate specialmente la lettura del Corano e, in alcuni casi, il digiuno.

 

Nelle sedi (zawâya, pl. di zâwiya) della tarîqa si praticano inoltre vari riti collettivi, consistenti soprattutto nell’Imâra (letteralmente “edificazione” di un fabbricato, o “servizio” in un luogo di culto, o ancora “messa a coltura” di un terreno), composta dalla recitazione cantata di poemi (qasâ’id, pl. di qasîda) di contenuto dottrinale scritti da vari maestri, dalla recitazione del Corano e dalla ripetizione ritmata di uno speciale dhikr, accompagnata da una particolare modalità di emissione del respiro e determinati movimenti del corpo (tanto che si può parlare di “danza sacra”). Tale rito è detto anche Hadra (“presenza”) o Liqâ’ (“incontro”), denominazioni che alludono a diversi suoi aspetti e all’influenza che esso può esercitare sull’iniziato. La tarîqa conosce poi altri riti, sia individuali (come la khalwa, o “isolamento cellulare”, che un tempo si effettuava per un periodo di quaranta giorni e oggi è amministrata solo eccezionalmente), sia comunitari (come la lettura rituale di hadîth, accompagnata da canti sacri), destinati a essere resi operativi solo in determinate condizioni.

 

B.: Per quanto riguarda la tarîqa Shâdhiliyya-‘Alawiyya l’unico testo oggi reperibile in trad. it. è l’opera di Martin Lings, Un santo sufi del ventesimo secolo, Mediterranee, Roma 1994, che – nonostante i ripetuti e gravi errori di stampa e traduzione – costituisce una fonte indispensabile sulla vita, le opere e la figura dello shaykh al-‘Alawî, oltre a fornire molte informazioni sulla vita interna, i riti e la storia recente della tarîqa. Sulla storia e le dottrine shâdhilî in genere, cfr. gli importanti trattati di Ibn ‘Atâ’ Allâh: La sagesse des maîtres soufis, trad. fr., Grasset, Parigi 1998; e Sentenze e colloquio mistico, trad. it., Adelphi, Milano 1981. Inoltre, cfr. dello shaykh al-‘Arabî ad-Darqâwî, Lettres d’un maître soufi, trad. fr., Archè, Milano 1978; e dello shaykh al-‘Alawî, Knowledge of God, trad. ingl., Diwan Press, Norwich 1981.

 

La tarîqa Naqshbandiyya – Mujaddidiyya

 

E-mail per l’Italia: mujaddidia@libero.it

 

Nell’Islam ogni percorso spirituale trae origine dal profeta Muhammad: la realtà interiore (haqîqa), la via iniziatica (tarîqa), la grande via verso la salvezza (sharî’a) hanno principio e termine in lui. Con l’allontanamento dalle origini, nello spazio e nel tempo, l’unica “forma integrale” del Profeta ha rivestito – sostiene il sufismo – diversi aspetti esteriori in relazione alle condizioni locali degli uomini che devono percorrere la via iniziatica. La legittimità e l’autorità di una tarîqa sono garantite e confermate dall’autorevolezza della silsila. Secondo i suoi membri questa, per altro, non necessita di documentazione scritta, ma si riflette naturalmente nell’ortodossia, ossia nell’adeguatezza alla verità, della dottrina e nell’efficacia del metodo finalizzato alla realizzazione iniziatica. In altre parole la validità di una tarîqa può essere verificata solo dal “di dentro” della stessa. L’integrità della catena di trasmissione dell’influenza spirituale è condizione essenziale per la trasmissione effettiva dell’iniziazione.

 

Nelle vie iniziatiche che conducono alla realizzazione metafisica sono comparsi dei maestri la cui realizzazione spirituale ha assunto per i discepoli un valore di tale portata che la via percorsa da costoro, e da loro predisposta per chi li segue, prende il “colore” degli attributi che li caratterizzano e assume il loro stesso nome. È tramandato che lo stesso profeta Muhammad istruì Abû Bakr as-Siddîq, colui che sarebbe diventato il primo dei quattro “califfi ben guidati”, a recitare silenziosamente nel cuore l’attestazione dell’unità divina Lâ ilâha illa ‘Llâh, durante l’Egira verso Medina, quando entrambi erano nascosti in una caverna nei dintorni della Mecca. In seguito la via iniziatica che dal profeta Muhammad, Abû Bakr, Salmân al-Fârisî, Qâsim, nipote di Abû Bakr as-Siddîq, (c. 659-727), Ja’far al-Sâdiq (700-765), Abû Yazîd Bistâmî (c. 800-874), Abû-l-Hasan Kharaqânî (c. 957-1034), Abû ‘Alî Fârmadî (†1084), si afferma giunta a Yûsuf Hamadânî (1049-1140), primo dei Khwâjâgân (maestri dell’Asia centrale), assume il nome di Khwâjâgâniyya.

 

Yûsuf Hamadânî lascia quattro sostituti (khalîfa), dei quali uno è Ahmad Yasawî (†1186), dal quale deriva un importante ramo turco della Naqshbandiyya, e un altro è ‘Abd al-Khâliq Ghujduwânî (†1220). Quest’ultimo è istruito a recitare (dhikr) silenziosamente il nome di Allâh dal Khidr, l’essere immortale di cui si dice che sia in relazione con una conoscenza segreta derivante per ispirazione direttamente da Dio, al-‘ilm al-ladunnî. Allo stesso Ghujduwânî risalgono otto degli undici principi fondamentali della tarîqa, chiamati Kalimât-i Qudsiya (“sante parole”). Gli altri tre detti sono formulati dal grande Bahâ ad-Dîn, noto come Naqshband di Bukhara (1318-1389). Questo nome composto indica l’iscrizione (naqsh) permanente (band) del nome dell’Essenza – Allâh – nel cuore purificato.

 

Il nome della tarîqa fu così cambiato in Naqshbandiyya più di duecento anni dopo ‘Abd al-Khâliq Ghujduwânî. Da Bukhara, la Naqshbandiyya ha un diffusione sorprendente in un’area che va dai Balcani alla Cina, e in tempi recenti anche in Europa e America. La Naqshbandiyya è, secondo l’insegnamento dei suoi maestri, la via spirituale propria dei compagni del profeta Muhammad, tale e quale, esente da reprensibili innovazioni o debolezze. Il ramo che attualmente porta il nome di Mujaddidiyya, origina in India, grazie al trasferimento a Delhi da Bukhara di Muhammad Bâqî Billâh (1563-1603), ventitreesimo maestro della catena iniziatica, che darà il ricollegamento iniziatico ad Ahmad Sirhindî (1564-1624) del Panjâb, in seguito noto come Mujaddid-i alf-i thânî (“rinnovatore del secondo millennio”). Con questo maestro, nato alla fine del primo millennio dell’era islamica, la Naqshbandiyya assume anche l’appellativo di Mujaddidiyya.

 

Questa funzione di “rinnovamento” (tajdîd), che il Mujaddid esercita per tutto il periodo del secondo millennio del calendario musulmano, è esplicitata nel più chiaro dei modi in alcune delle sue lettere, come il seguente estratto della missiva indirizzata al figlio più anziano Muhammad Sâdiq (†1616): “Figlio mio! In tempi come questi, tempi di grande oscurità spirituale, venivano inviati alle genti che ci hanno precedute dei Profeti fermamente risoluti (ulû-l-‘azm) per vivificare la rinnovata norma divina. Per questa gente, che è la migliore delle genti e il cui Profeta è il ‘Sigillo degli Inviati’, Dio ha dato ai suoi sapienti (‘ulamâ) il rango dei Profeti dei figli d’Israele e ha deciso che fosse sufficiente l’esistenza dei sapienti al posto di quella dei Profeti. Perciò, all’inizio di ogni secolo, i sapienti di questa comunità individuano un ‘rinnovatore’ (Mujaddid) che dia nuova vita alla norma divina. In base al hadîth riportato da Abû Dâ’ûd, al-Hâkim e al-Bayhaqî, sull’autorità di Abû Hurayra: ‘Ha detto l’Inviato di Dio che Allâh, all’inizio di ogni cento anni, invia a questa comunità qualcuno che le rinnovi la religione’. Ciò avviene in modo speciale dopo un periodo di mille anni, quando alle genti precedenti ai nostri tempi è inviato un Profeta di ‘ferma risoluzione’ a soddisfare le loro esigenze per quel periodo di tempo. In tale tempo serve un sapiente che abbia una gnosi perfetta e che sia eretto nello stato dei ‘fermamente risoluti’ delle genti che ci hanno preceduto” (Maktûbât, I, 234).

 

Qui si allude a una speciale categoria di sapienti, completi nelle conoscenze esteriori e interiori. La funzione di rinnovamento spirituale del Mujaddid è efficace per un millennio dalla sua venuta. Al Mujaddid sono seguiti i maestri che hanno dato origine alla stragrande maggioranza dei rami naqshbandî attualmente sparsi in tutto il mondo: la khâlidîyya, il ramo daghastanî e altri. Vi sono alcune differenze dottrinali e di metodo fra i vari rami, per l’intervento di alcuni maestri che hanno dato una propria “coloritura” particolare, diversi “punti di vista” (peraltro tutti considerati perfettamente ortodossi). La linea che è continuata anche per discendenza di sangue e che ha mantenuto l’insegnamento e il metodo tipicamente Mujaddidî è la Khayriyya. Il trentacinquesimo maestro di questa tarîqa risiede nella vecchia Delhi, nel luogo dove sono sepolti sette dei suoi grandi predecessori.

 

La gran parte dei khulafâ’ e dei discepoli (nell’ordine di decine di migliaia) di questo ramo puramente Mujaddidî si trovano nel subcontinente indiano. La diffusione di questa via spirituale in Occidente e, particolarmente, in Italia, avviene nel corso degli anni 1970, tramite il ricollegamento al trentaquattresimo maestro della silsila – Abû l-Hasan Zayed Farûqi di Delhi (1906-1993) – di alcuni studiosi della spiritualità islamica. Gli aderenti alla Mujaddidiyya Khayriyya in Italia sono poco numerosi (una decina), concentrati particolarmente a Roma e generalmente dediti a traduzioni e studi dei testi dei maestri della Mujaddidiyya.

 

Una delle fasi della via iniziatica Naqshbandiyya prevede la purificazione dei “centri sottili” (latâ’if) che sono i principi costitutivi della manifestazione grossolana dell’uomo. Ogni latîfa è raffinata mediante la ripetizione metodica e continua (dhikr) del nome divino dell’Essenza, dopo l’iniziazione da parte del maestro che “immette” il dhikr stesso nella latîfa. Questa attività interiore serve a richiamare alla memoria (dhikr) l’origine dalla quale è disceso il “centro sottile” attualmente imprigionato negli elementi corporei. Quando la latîfa ricorda la propria origine essa fuoriesce dalla gabbia degli elementi seguendo una strada di luce che porta alla propria fonte nel mondo che è chiamato “mondo del comando” (‘âlam al-amr). L’auspicabile “morte prima della morte”, di cui si parla nei testi del sufismo, consiste in questa separazione delle latâ’if dai centri corporei corrispondenti.

 

Il viaggio di ritorno sopra descritto costituisce solo il primo di sette passi che portano al Principio assoluto. I primi otto principi fondamentali della tarîqa risalenti a Ghujduwânî (le Kalimât-i Qudsiya, in persiano, interpretabili in vario modo, a seconda dello stato spirituale di colui che percorre la via iniziatica) sono: 1. Hosh dar dam, consapevolezza a ogni respiro, per combattere la distrazione; 2. Nazar bar qadam, sguardo sul piede, per non disperdere l’attenzione; 3. Safar dar watan, viaggio in patria, ritorno verso il proprio principio; 4. Khalwat dar anjumân, isolamento nella folla, essere in mezzo alla gente esteriormente, ma interiormente concentrati sul ricordo (dhikr) di Dio; 5.Yâd kard, ricordare, il dhikr è ininterrotto; 6. Bâz gasht, ritornare, dopo la recitazione del dhikr si purifica l’intenzione rivolgendola alla sola soddisfazione di Allâh; 7. Nigâh dâsht, salvaguardare il ricordo, in modo che nessun altro pensiero che quello di Allâh si faccia strada nel cuore; 8.Yâd dâsht, fissazione del ricordo.

 

Gli ultimi tre, infine, aggiunti da Bahâ ad-Dîn Naqshband, sono: 1. Wuqûf-i zamânî, soffermarsi sul tempo, per verificare periodicamente le proprie condizioni spirituali; 2. Wuqûf-i ‘adadî, soffermarsi sul numero, delle recitazioni del dhikr; 3. Wuqûf-i qalbî, soffermarsi sul cuore, ha molti significati correlati alla funzione del cuore come centro spirituale, luogo di discesa della presenza e della consapevolezza del sacro dominio divino. A chi chiedeva quale fosse lo scopo del viaggio iniziatico, Khwâjah Naqshband rispose: “Lo scopo è che tu realizzi in dettaglio quello che hai conosciuto in sintesi e veda per svelamento (kashf) quello che hai conosciuto con la ragione”.

 

B.: La raccolta più completa e aggiornata di testi sulla Naqshbandiyya nel mondo – un’opera di circa 750 pagine, con articoli in inglese, francese e tedesco – è il volume curato da Marc Gaborieau – Alexandre Popovic – Thierry Zarcone, Naqshbandis. Historical developments and present situation of a muslim mistical order, pubblicato dall’Institut Francais d’études Anatoliennes d’Istanbul, Éditions ISIS, Istanbul – Parigi 1990. Su Ahmad Sirhindî, la sua dottrina e il metodo, si veda Johan G.J. ter Haar, Follower and Heir of the Prophet. Shaykh Ahmad Sirhindî as Mystic, Het Oosters Instituut, Leida 1992; Muhammad Abdul Haq Ansari, Sufism and Shari’ah. A study of shaykh Ahmad Sirhindi’s effort to reform Sufism, The Islamic Foundation, Leicester 1986. Dal 1995, con cadenza annuale, vi è una pubblicazione a diffusione limitata e gratuita di quaderni di studi della tarîqa Naqshbandiyya: ‘Ayn al Hayât, reperibile presso le biblioteche di studi orientali delle Università di Venezia, di Napoli e dell’ISMEO di Roma.

 

 

 

La tarîqa Naqshbandiyya-Haqqâniyya al-‘Aliyya

 

E-mail per l’Italia: faqir@sufi.it

URL per l’Italia: www.sufi.it

 

La tarîqa Naqshbandiyya-Haqqâniyya al-‘Aliyya prende il nome da Bahâ ad-Dîn Naqshband – nome al quale i congregati antepongono il titolo onorifico Shah -, il cui nome significa “colui che ricama su stoffa” o “l’incisore”. Come già detto nella scheda precedente a proposito della branca Mujaddidiyya, la tarîqa Naqshbandiyya si considera distinta da tutte le altre confraternite sufi per il fatto che sarebbe l’unica a vantare – sia nel metodo sia nella trasmissione iniziatica dell’influenza spirituale – la propria discendenza da Abû Bakr as-Siddîq, colui che sarebbe diventato il primo dei quattro califfi rettamente guidati, il Khalîfatu Rasûlu-Llâh (vicario del Profeta) citato nel Corano come “il secondo dei due”.

 

Questa linea spirituale deriva dalla Naqshbandiyya-Khâlidiyya che fa capo allo shaykh Khâlid al-Baghdâdî (1779-1827), essa stessa risalente alla linea Mujaddidiyya dell’Imâm ar-rabbânî Ahmad Sirhindî. Dallo shaykh Khâlid, originario del villaggio di Karada nei pressi di Sulaymaniyya nel Kurdistan iracheno, passando per Ismâ’îl ash-Shirwânî (1787-1809) ha inizio una linea di maestri daghestânî che arriva fino allo shaykh ‘Abd Allâh al-Fâ’iz ad-Dâghestânî (1891-1973), maestro dello shaykh Muhammad Nâzim ‘Âdil al-Haqqânî, attuale gran maestro della tarîqa Naqshbandiyya-Haqqâniyya al-‘Aliyya.

 

Shaykh Nâzim è nato a Larnaca (Cipro), nel 1922, e si proclama discendente del profeta Muhammad secondo il lignaggio di ‘Abd al-Qâdir al-Jîlânî da parte di padre e di Jalâlu-d-dîn Rûmî da parte di madre. Molti sono i suoi titoli onorifici, fra cui membro onorario del comitato inter-religioso presso le Nazioni Unite, presso la cui sede ha parlato il 28 agosto 2000. Secondo i discepoli, la tolleranza di Muhammad Nâzim ‘Âdil al-Haqqânî an-Naqshbandî, il suo humour e la sua mente fulminea sorprendono anche chi da anni gli è vicino. Lo descrivono come instancabile nei buoni consigli e nel dare sostegno a chi è nel bisogno. Attualmente l’ordine vanta un nucleo di circa trentamila discepoli sparsi fra tutti i continenti, ma se si tiene conto del fatto che diversi shuyûkh hanno accettato di sottostare alla sua autorità spirituale (secondo Shaykh Nâzim, la tarîqa Naqshbandiyya non ha ramificazioni veramente autonome e indipendenti, ed egli sostiene non esservi che una sola Naqshbandiyya, di cui si proclama il “Grandshaykh”), il numero sale a diversi milioni.

 

Shaykh Nâzim, che vive prevalentemente a Cipro, soggiorna frequentemente a Damasco, Istanbul, Londra e viaggia spesso per l’Europa, l’America e l’Asia; ha visitato l’Italia nel 1995 nell’ambito della Conferenza Mondiale per la Pace e nel 1996 si è incontrato con Giovanni Paolo II (1920-2005). In Italia la tarîqa è presente dai primi anni 1980 e il numero attuale degli affiliati è di circa cento persone sparse soprattutto nel Nord del paese; una zâ­wiya si trova nei pressi di Rimini.

Sotto l’aspetto dottrinale bisogna rimarcare che mentre la linea Mujaddidî è stata caratterizzata da un atteggiamento critico nei confronti della wahdat al-wujûd di Ibn ‘Arabî, ossia la dottrina dell'”Unicità dell’Esistenza” – secondo cui non vi è in realtà nell’esistenza altro che l’Essere unico di Dio, cui Sirhindî contrappone la wahdat ash-shuhûd, l'”Unicità della visione (contemplativa)” (soprattutto a motivo delle “tentazioni panteistiche” di alcuni divulgatori persiani e indiani e per il timore che la molteplice realtà della manifestazione cosmica non sia ridotta a una pura illusione) -, con lo shaykh Khâlid la Naqshbandiyya ritorna alle posizioni dottrinali della scuola del maestro andaluso.

 

Attualmente, tuttavia, l’insegnamento di shaykh Nâzim al-Haqqânî è volto più a sottolineare l’aspetto della universale misericordia divina che non a discettare in termini metafisici sulla Realtà essenziale, a spronare i discepoli a lottare contro le passioni del proprio ego e soprattutto a non indugiare in cose di secondaria importanza rispetto alla Via, poiché il tempo a disposizione per poterlo fare non è molto. Si trovano, infatti, nei suoi insegnamenti e in quelli del suo maestro, lo shaykh Daghastânî, numerosi e precisi riferimenti all’imminenza della fine dei tempi, all’avvento del mahdî – l’Imâm “atteso” – e agli eventi che precederanno l’Ora. I suoi discepoli provengono da tutti i ceti e da tutte le razze: contadini, operai, ma anche sultani e principi, occidentali convertiti, dirigenti e politici, artisti e intellettuali, mufti e dottori della Legge, sulla base dell’asserto di Muhammad Nâzim ‘Âdil al-Haqqânî an-Naqshbandî “Come possiamo noi chiudere le porte a qualcuno, quando le porte di Allâh sono sempre aperte, ampie come dall’Est all’Ovest?”.

 

Quanto alla pratica, i principi essenziali dell’ordine non si differenziano da quelli enunciati dalle altre ramificazioni della tarîqa. Fra le pratiche della tarîqa Naqshbandiyya-Haqqâniyya va enumerato il wird giornaliero, la cui parte essenziale è costituita dalla recitazione della professione di fede Lâ ilâha illâ ‘Llâh seguita dalla recitazione del nome di Maestà Allâh (una prima parte in silenzio movendo la lingua, poi un’altra solo col “cuore”). Il numero di volte che le diverse formule del wird devono essere recitate varia a seconda che si tratti di un principiante (mubtadî’), di uno avanzato (musta’idd) o di chi è determinato a raggiungere lo scopo (murîd).

 

A queste formule di base si aggiungono diverse parti complementari. Oltre al wird e a tutte le varie pratiche spirituali facoltative, la Naqshbandiyya-Haqqâniyya è caratterizzata da un dhikr collettivo che può essere praticato sia ad alta voce sia in silenzio. Altro metodo di fondamentale importanza sin dai tempi di Bahâ ad-Dîn Naqshband è quello della suhba, l’incontro e la compagnia con il maestro, dove il contatto diretto con lui e il suo insegnamento orale rendono chi ascolta un ricettacolo di segreti divini, trascendendo quindi la dimensione della comprensione intellettiva per giungere a quella comprensione del cuore che trasforma i principi in azioni.

 

Nel rispetto della tradizione sufi, Shaykh Nâzim attribuisce ogni parola al suo maestro shaykh ‘Abd Allâh al-Fâ’iz ad-Dâghestânî, presentandosi come semplice tramite fra i maestri del passato e l’umanità. In ogni gruppo a lui affiliato, Shaykh Nâzim autorizza e ispira qualcuno a condurre la suhba nelle riunioni fra i murîd. Un’altra pratica a questa legata, necessaria per ovviare alla distanza e l’impossibilità di una vicinanza fisica costante, è la râbita, quel collegamento – basato sul vincolo d’amore che unisce maestro e discepolo – che secondo la tradizione sufi pone in una sottile sintonia il cuore e la mente del murîd con quelli dello shaykh, affinché egli possa attingere, tramite l’attenzione spirituale del maestro (tawajjuh), dalle infinite benedizioni e grazie divine.

 

B.: Di Shaykh Muhammad Hisham Kabbani (il khalîfa di Shaykh Nâzim per il Nord America), si veda: The Naqshbandi Sufi Way. History and Guidebook of the Saints of the Golden Chain, Kazi Publications, Chicago 1995, un testo sui principi e i metodi della tarîqa Naqshbandiyya, con la biografia dei quaranta maestri che compongono l’intera silsila.

 

La tarîqa Ahmadiyya Idrisîyya Shâdhilîyya

 

Via Giuseppe Meda, 9

20136 Milano

 

Fra i rinnovatori che hanno lasciato una notevole impronta sul XIX secolo – in particolare nelle regioni del Mediterraneo e del Vicino Oriente, ma anche nel Sud-Est asiatico -, una delle figure di maggior rilievo è lo shaykh Ahmad ibn Idrîs (c. 1750-1837). Nato nella cittadina di Maysûr, in Marocco, in una nobile famiglia (ashrâf) con discendenza da Idrîs Ibn ‘Abd Allâh (†791), fondatore della dinastia Idrîsside e pronipote di Hasan, il nipote del profeta Muhammad. Trasferitosi a Fes verso il 1769-1770, il giovane Ahmad Ibn Idrîs studia presso l’Università Qarawiyyîn, dove riceve un solido insegnamento in materia di scienze tradizionali, Corano e hadîth. Qui diventa discepolo di una delle maggiori personalità del Marocco dell’epoca, lo shaykh Abû Muhammad ‘Abd al Wahhâb al-Tâzî (†1792 o 1798), un maestro di un ramo particolare della tarîqa Shâdhilîyya in Marocco sul quale era considerata innestata direttamente l’ispirazione del Khidr (il “Verdeggiante”, simbolo della tradizione immutabile, dîn al-qayyima), al punto da essere chiamata Khidriyya.

 

Infatti, secondo la scuola di riferimento, il maestro di al-Tâzî – ‘Abd al ‘Azîz al-Dabbâgh (†1718-1719) – aveva ricevuto l’iniziazione e la formula del wird dal Khidr. Al-Dabbâgh era ritenuto dai suoi contemporanei un uomo cui Dio aveva fatto dono della pienezza dell’autorità spirituale e del potere temporale, il tasarruf, quel governo delle cose del mondo “che permette ai santi di disporre di tutte le forze della creazione”. Dopo la morte dello shaykh ‘Abd al Wahhâb al-Tâzî, Ahmad Ibn Idrîs si lega a un altro dei principali punti di riferimento della Shâdhilîyya in Marocco, lo shaykh Abû’l-Qasim al-Wazîr (†1213), e conosce altri maestri che avrebbero avuto una notevole influenza sulle generazioni successive, come lo shaykh Abû Hâmid al-‘Arabî al-Darqâwî.

Una tradizione riporta alcuni aspetti dell’incontro con quest’ultimo: “Una volta il famoso santo del Maghrib, al-‘Arabî al-Darqâwî, mentre stava insegnando cominciò a denudarsi. Egli era soggetto a stati spirituali (sâhib al-hâl) e disse, indicando il sayyid [titolo onorifico di Ahmad ibn Idrîs come discendente del Profeta], ‘Ecco un santo, walî, non come gli altri santi, un soccorso, ghawth, non come gli altri soccorsi, un polo, qutb, non come gli altri poli’. Il sayyid aprì gli occhi e lo coprì con il suo mantello. Da quel momento al-Darqâwî non fu mai più visto nudo”. Un incontro ancora più significativo avviene dopo la morte dei suoi maestri, quando lo shaykh Ahmad Ibn Idrîs si trova probabilmente ancora a Fes, prima quindi di partire per il suo lungo viaggio verso Oriente. È egli stesso a riferire del “rinnovamento” spirituale che gli è conferito: “Quando raggiunsi la maturità spirituale nella Via nelle mani del mio shaykh, il summenzionato Abû’l-Qasim al-Wazîr e fui elevato tramite la sua percezione alla comprensione del mondo delle cose nascoste, così che io diventai un vero credente, ho potuto incontrare, dopo la sua morte, il Profeta stesso, possa Iddio benedirlo e donargli la Pace, insieme con il Khidr, su di lui la Pace, così che quest’ultimo ha potuto insegnarmi i dhikr dell’ordine Shâdhilî, e io li ho imparati in presenza del Profeta”.

 

I maestri hanno presentato una vera e propria silsilah relativa al Khidr, che attraversa tutte le epoche dell’Islam passando per Ibn Adham (†777-778), Abû Yazîd al-Bistâmî (†874 o 877-878), Muhammad Ibn ‘Alî al-Hakim al-Thirmidhî (†898), Muhyî-l-Dîn Ibn al-‘Arabî e Abû-l-Hasan al-Shâdhilî, fino ad arrivare, in epoca più recente, allo shaykh Ahmad Ibn Idrîs, il quale ultimo racconta che il suo incontro non era avvenuto in forma immaginale, ma in una “modalità fisica” – ijtimâ’ sûri – nella quale il Profeta, tramite il Khidr, rivivificava le stesse formule rituali, a cominciare dal primo wird: “Non vi è dio se non Iddio e Muhammad è l’Inviato di Dio, con ogni sguardo e ogni respiro, un numero di volte che solo la conoscenza di Dio può contenere”. Ahmad Ibn Idrîs lascia Fes nel 1798. I quarant’anni successivi, fino alla morte a Sabyâ, sono impiegati unicamente nell’insegnamento religioso e nell’istruzione dei discepoli, in un viaggio che tocca tutte le maggiori città del Nord Africa fino alla Mecca e, negli ultimi anni, lo Yemen. Quando lo shaykh appare nelle cronache della città santa dell’Islam è ormai un sapiente notissimo, un punto di riferimento per migliaia di fedeli provenienti dall’Occidente e dall’Oriente.

 

Curiosamente sono stati proprio gli studiosi italiani, come Carlo Alfonso Nallino (1872-1938), a rilevare per primi la centralità che Ibn Idrîs ha assunto, a partire dalla Mecca, in tutto il mondo islamico: “Viveva colà da anni un marocchino, sceriffo, ossia discendente da Maometto (…) di nome Ahmad ibn Idrîs, la cui grandissima dottrina nelle varie discipline religiose e le cui qualità eccezionali di direttore mistico facevano raggruppare intorno a lui, come discepoli ferventi intorno al maestro, uomini superiori al comune per dottrina ed intensità di vita spirituale. Personaggio veramente notevole, alla cui scuola mistica si formarono i fondatori di ben cinque confraternite, tutte rappresentate largamente, o addirittura precipuamente, nelle nostre colonie”. (Carlo Alfonso Nallino, “Le dottrine del fondatore della confraternita senussita”, in Raccolta di scritti editi ed inediti, vol. II, Istituto per l’Oriente, Roma 1940, p. 397).

 

Agli ultimi anni della vita del maestro appartiene la relazione di una disputa alla quale è costretto dal puritanesimo letteralista di alcuni funzionari di polizia addetti al culto, mutawwi’, figure introdotte dal movimento wahhabita presente già allora in Arabia. Le osservazioni fatte contro lo shaykh Ibn Idrîs rientrano nel genere “classico” delle accuse che i “letteralisti” hanno mosso e muovono ai maestri del sufismo, almeno a partire dal teologo hanbalita Ibn Taymiyya (1263-1328). Ahmad ibn Idrîs ha replicato come il vero problema per l’Islam contemporaneo sarebbero stati gli ignoranti e i fondamentalisti: “L’emergenza dell’ignoranza e la scomparsa dei sapienti religiosi sono fra i segni dell’ora della fine”. Secondo gli insegnamenti dello Shaykh Ahmad Ibn Idrîs, l’aspirazione contemplativa deve assumere il carattere dello “scrupolo spirituale”, wara’, così che gli iniziati possano vegliare, sotto la guida del maestro, sulla effettiva unità dei loro stati spirituali e della loro vita religiosa quotidiana. La pratica iniziatica non può infatti portare a trascurare i riti religiosi, anzi essi sono considerati la base necessaria per la stessa pratica dei riti esoterici, senza la quale questi ultimi non troverebbero un appoggio per una reale elevazione dello Spirito al di sopra di loro stessi.

 

Molte sono le turuq diffusesi dall’estremo Occidente all’estremo Oriente che si rifanno direttamente a lui, come la Senussia – dal nome di Muhammad Ibn ‘Alî al-Sanûsî (1787-1859), che si è estesa soprattutto in Cirenaica, dove negli anni successivi si sarebbe opposta alla penetrazione italiana -; la Khatmiyya, sviluppata da Muhammad ‘Utmân al-Mîrghanî (1793-1852) prevalentemente in Sudan; e la Rashîdiyya, dal nome di uno dei più giovani discepoli dello shaykh Ahmad Ibn Idrîs, Ibrâhîm al-Rashîd (1813-1874). Da quest’ultimo ramo della confraternita, passando per lo shaykh Muhammad Ahmad al-Dandârawî (1839-1840/1910-1911), lo shaykh Muhammad Sa’id al-Dîn Ibn Jamal al-Dîn – che ha introdotto la tarîqa in Malesia intorno al 1895 – e suo figlio lo shaykh Hajji ‘Abd al-Rashid (1918-1992), ‘Abd al-Wahid Pallavicini (nato a Milano nel 1926 ed entrato nell’Islam nel 1951, nello stesso anno della morte di René Guénon, di cui ha assunto il nome islamico) ha ricevuto nel 1980 l’autorizzazione a condurre come maestro, shaykh, un ramo indipendente della Ahmadiyya Idrîssiya in Europa. Essa si ritrova principalmente a Milano, nei locali della moschea al-Wâhid, gestita dalla CO.RE.IS., e in Francia, nella Grande Moschea di Parigi e in quella di Lione.

 

B.: Rex O’Fahey, An Enigmatic Saint. Ahmad Ibn Idris and the Idrisi Tradition, Northwestern University Press, Evanston (Illinois) 1990. Bernd Radtke – John O’Kane – Knut S. Vikor – R. S. O’Fahey, The Exoteric Ahmad ibn Idrîs. A Sufi’s Critique of the Madhâhib & the Wahhâbîs, Brill, Leida 2000; Einar Thomassen – B. Radtke, The Letters of Ahmad Ibn Idrîs, C. Hurst & Co., Londra 1993; ‘Abd al Wahid Pallavicini, L’Islam interiore. La spiritualità universale nella religione islamica, Il Saggiatore, Milano 20012 (1a ed.: Mondadori, Milano 1991).

Nota: l’Ordine dei Jerrahi-Halveti è trattato nella pagina su Organizzazioni musulmane turche in Italia.

 

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Un sufismo degli immigrati: i Muridi e i Layennes

 

La Murîdiyya

 

Associazione Cheikh Ahmadou Bamba

Via Brescia, 36

25026 Pontevico (Brescia)

Tel.: 030-9930701

Fax: 030-9930891

 

Il sistema delle confraternite sufi è particolarmente sviluppato in Senegal, dove gran parte della popolazione musulmana (94 per cento dei senegalesi) appartiene a tre confraternite, due importate (la Qâdiriyya e la Tijâniyya) e una nata in Senegal, la Murîdiyya. Quest’ultima riunisce circa un terzo dei senegalesi, principalmente di etnia wolof. Poiché questa etnia è maggioritaria nell’emigrazione senegalese in Italia, si stima che circa due terzi dei quasi trentamila senegalesi (tra regolari e clandestini) presenti in Italia appartengano alla Murîdiyya (da murîd, “novizio” o “discepolo”), facendone la maggiore confraternita sufi presente sul territorio italiano. Alle origini della confraternita si situa la predicazione di Ahamadu Bamba Mbacke (“Ahmed ben Mohamed ben Habib Allah”, 1850 o 1852-1927), chiamato dai discepoli “Serign Tuba”, dal nome della città (Tuba) da lui fondata.

 

Bamba, allevato in una famiglia affiliata alla Qâdiriyya, vive in un periodo di crisi caratterizzato dalla fine dei regni wolof e dalla vittoria finale in Senegal del colonialismo francese. La sua predicazione diventa punto di riferimento per aspirazioni contraddittorie, segnate da forme di malcontento in parte preesistenti alla venuta dei francesi. Questi ultimi – che temono la trasformazione della confraternita in fermento indipendentista – esiliano due volte Bamba, ma infine si convincono che il suo insegnamento non ha un contenuto politico, e negli ultimi anni della vita lo decorano perfino con la Legion d’Onore. Dopo la sua morte, la direzione della confraternita rimane nelle mani della famiglia Mbacke, discendenti diretti del fondatore, ma un ruolo importante nella gerarchia muride assumono anche i collaboratori di Bamba, i “grandi tâlib”, fra cui lo shaykh Ibra Fall (1858-1930), fondatore del movimento Bay Fall, che – a torto considerato da alcuni una branca separata del muridismo – ne costituisce insieme il “nucleo duro” e una sorta di servizio d’ordine, ai cui componenti è sia riconosciuta una grande dedizione alla causa muride sia rimproverata una certa intemperanza accompagnata da una scarsa osservanza delle pratiche islamiche.

 

Con l’emigrazione senegalese – in cui un ruolo importante hanno venditori ambulanti di etnia wolof, in una parte significativa muridi – il muridismo è diventato un movimento diffuso in tutto il mondo, dagli Stati Uniti al Giappone. A partire dagli anni 1970, sotto la guida di Abdou Lahat Mbacke, la Murîdiyya – secondo l’espressione di Adriana Piga (“Un universo sufi cangiante, criptico e poliedrico: la Qadiriyya, la Muridiyya e la Tijaniyya: tre ordini mistici nel Senegal contemporaneo”, in M. I. Macioti [a cura di], Immigrati e religioni, Liguori, Napoli 2000, pp. 151-183 [p. 170 e p. 178]) – “cambia radicalmente volto”: potenzia la grande biblioteca di Tuba, dove un’Università di Studi Islamici si conquista un generale rispetto e dà alla confraternita “una dimensione religiosa di gran lunga più ortodossa”, così che “senza alcun dubbio l’ordine muride, accusato a lungo di eterodossia e di fanatismo, è riuscito nell’intento di fornire di sé un volto sempre più ortodosso se non addirittura puritano”.

 

La peculiarità del muridismo consiste nella “santificazione” del lavoro, che ha un ruolo altrettanto (se non più) importante della meditazione e della preghiera. Attraverso questa spiritualità del lavoro, Bamba inserisce nel sufismo un elemento autenticamente africano, e insieme si espone a critiche e riserve soprattutto da parte di ambienti tijânî. Alla base del muridismo (come di ogni altra tarîqa) vi è una sorta di patto iniziatico, la bai’a, con cui il discepolo (tâlib) si affida al marabutto, mediatore fra l’uomo e Dio e garante sia della salvezza del discepolo sia (almeno in una certa misura) del suo benessere materiale.

 

Attraverso la bai’a il discepolo promette al marabutto la khidma (“servizio”), cioè il lavoro svolto a profitto sia della confraternita sia – personalmente – del marabutto, che a sua volta si assume il compito della preghiera a beneficio del discepolo. È attraverso la khidma e il rapporto contrattuale con il marabutto sancito dalla bai’a che il discepolo realizza la irada (“impegno a camminare verso Dio”). Il muridismo ha tra i suoi pilastri anche l’offerta (hadîya) e il pellegrinaggio annuale (ziyâra) a Tuba, sulla tomba del fondatore, presieduto dal leader generale della confraternita (khalîfa). Il sistema delle offerte e del lavoro del tâlib a beneficio del marabutto ha fatto sorgere quello che Donal Brian Cruise O’Brien chiama “il mito dello sfruttamento”, e l’immagine – caricaturale e divulgata dagli oppositori, sebbene anche indicativa di una reale possibilità di abusi – del marabutto che, alla guida di una lussuosa automobile, si arricchisce sfruttando i discepoli.

 

In realtà – come rileva Ottavia Schmidt di Friedberg (1957-2002) – il rapporto ha almeno un certo grado di vera reciprocità: il marabutto si impegna ad assistere il tâlib e la sua famiglia in una pluralità di modi, tra l’altro – tanto più nell’emigrazione – nella ricerca del lavoro, spesso con notevole successo, ponendosi nello stesso tempo come “polo di riferimento e di identificazione culturale”. Notevoli polemiche circondano, soprattutto, il ruolo dei Bay Fall; ma – particolarmente in Italia – occorre chiedersi quante di queste polemiche siano amplificate dal desiderio di diverse realtà musulmane di circoscrivere la peculiarità senegalese, non facilmente riducibile ad altri modelli e strategie.

 

In Senegal i muridi si sono diffusi attraverso lo strumento della dara, espressione che indica originariamente una scuola ma in seguito un villaggio autosufficiente, mentre nelle grandi città e nell’emigrazione l’unità muride è la dâ’ira o dâ’hira (“circolo”), gruppo o insieme di gruppi di venti-trenta discepoli ciascuno che fanno riferimento allo stesso marabutto e si occupano della raccolta delle offerte e della organizzazione di riunioni settimanali di studio e preghiera. Non esiste una anagrafe completa delle dâ’ira italiane, presenti peraltro in numerose località. Centri importanti sono a Pontevico (Cremona), Bovezzo (Brescia), Zingonia (Bergamo). Le dâ’ira italiane non sono federate fra loro, anche se tutte fanno riferimento all’autorità ultima del khalîfa di Tuba. I muridi sono influenti in realtà senegalesi “laiche” presenti in Italia come il CASI (Coordinamento delle Associazioni Senegalesi in Italia), che peraltro si presenta come realtà etnonazionale piuttosto che religiosa e comprende anche senegalesi non muridi.

 

B.: In generale: Donal Brian Cruise O’Brien, The Mourides of Senegal. The Political and Economic Organisation of an Islamic Brotherhood, Clarendon Press, Oxford 1971; Fernand Dumont, La Pensée religieuse d’Amadou Bamba, Les Nouvelles Éditions Africaines, Dakar (Senegal) – Abidjan (Costa d’Avorio) 1975. Sull’Italia: Ottavia Schmidt di Friedberg, Islam, solidarietà e lavoro. I muridi senegalesi in Italia, Edizioni della Fondazione Giovanni Agnelli, Torino 1994.

 

I Layennes

 

(I seguaci, immigrati capoverdiani e senegalesi, si ritrovano in case private)

 

Gli specialisti discutono se i Layennes costituiscano una confraternita sufi o un movimento religioso ai margini dell’Islam. Seydina Limanou Laye (1843-1909) nasce a Yofi, un villaggio di pescatori nella penisola di Capo Verde (oggi luogo di pellegrinaggio insieme alla città santa di Cambarené), e fonda una confraternita con caratteristiche singolari. Almeno durante la vita del fondatore, i membri praticano una poligamia illimitata, consentono alle donne di partecipare a tutti i rituali, non praticano il pellegrinaggio alla Mecca e considerano lo stesso digiuno del ramadân facoltativo.

 

Sembra anche che Limanou Laye sia considerato, oltre che il mahdî, la reincarnazione del Profeta. Più tardi – ma soprattutto dopo la morte del fondatore, al quale succede il figlio Seydina Issa Laye (1876-1949); quindi un altro figlio, Seydina Madione Laye (†1971); e infine un nipote, Seydina Issa Thiaw – la confraternita subisce influenze sciite, e acclama il fondatore come “presenza” del dodicesimo imâm nascosto. Negli anni 1970 e 1980 vi sono contatti con ambienti iraniani.

 

Dalla fine degli anni 1980 un khalîfa, Mame Allassane Thiaw Laye, promuove una politica di ritorno all’ortodossia coranica, di alleanza – anche in terra di emigrazione – con i muridi, e di identificazione della confraternita con gli interessi dell’etnia lebou (del resto affine per lingua e tradizioni ai wolof del Senegal). I membri sono circa trentamila, e la presenza tra i capoverdiani e i senegalesi emigrati all’estero (Italia compresa) – uomini e donne – è forte soprattutto fra i giovani (grazie anche all’associazione Farlu Cidine Ji).

 

B.: Cecile Laborde, La Confrérie layenne et les lébous du Sénegal, Institut d’Études Politiques de Bordeaux, Bordeaux 1995. In italiano cfr. Adriana Piga, “Un universo sufi cangiante, criptico e poliedrico: la Qadiriyya, la Muridiyya e la Tijaniyya: tre ordini mistici nel Senegal contemporaneo”, in M. I. Macioti (a cura di), Immigrati e religioni, Liguori, Napoli 2000, pp. 151-183.

 

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Gli eredi di Hazrat Inayat Khan:

l’Ordine Sufi Internazionale e il Movimento Internazionale Sufi

 

L’Ordine Sufi Internazionale

 

Sede estiva:

Istituto Zenith

6863 Besazio – Ligornetto (Ticino, Svizzera)

E-mail: mail@zenithinstitute.com

URL: www.zenithinstitute.com/

Per informazioni (anche sull’Italia):

Zenith Institute

13, Rue de la Tuilerie

92150 Suresnes (Francia)

Tel.: 0033-1-47284846

Fax: 0033-1-42040592

 

A partire dal 1987 l’Istituto Zenith accoglie – particolarmente in occasione dei campi estivi che durano per cinque settimane – praticanti svizzeri, italiani e di tutta Europa che si accostano all’Ordine Sufi Internazionale. Tale ordine è una delle branche dell’Ordine Sufi fondato a Ginevra, nel 1923, da Hazrat Inayat Khan (Pir-o-Murshid Inayat Khan, 1882-1927), nato a Baroda, oggi parte dello Stato del Gujarat, nel Nord-Ovest dell’India, figlio di Rahmat Khan (1843-1910) e Khatidja Bibi (1868-1902). Musicista iniziato nella scuola Nizani – branca della confraternita sufi Chistiyya, fondata da Nizam-ud-Din Aulia (1238-1325) – e nipote del celebre musicista indiano Maula Bakhsh (1833-1896), dopo la morte dell’amato nonno Pir Hazrat Inayat Khan viaggia a lungo per tutto il continente indiano, fino a che, il 13 settembre 1910, si imbarca a Bombay su un piroscafo diretto negli Stati Uniti, dove la sua enfasi si viene spostando verso l’unità di tutte le religioni.

 

La prima discepola che gli si avvicina in America è la statunitense di origine russo-polacca Rabia Martin (1871-1947, nata Ada Ginsberg), inizialmente designata da Hazrat Inayat Khan a succedergli alla guida dell’Ordine Sufi, ma che in seguito alle molteplici divisioni accadute alla morte del fondatore fra i suoi seguaci (che non accetteranno la leadership di Rabia Martin, tranne che in Australia e Brasile) diventerà un’insegnante sufi autonoma, prima di aderire – fra il 1942 e il 1943, con i suoi discepoli – al messaggio di Meher Baba (1894-1969). Nel 1912 Pir Hazrat Inayat Khan lascia l’America per l’Inghilterra, dove sposa Ora Ray Baker (Pirana Sharda Amina Begun, 1892-1949), e dove elabora l’idea del futuro Movimento Sufi, e negli anni fra il 1920 e 1926 viaggia a lungo in Europa e America, fondando centri in dodici paesi.

 

Nell’ottobre 1923 visita anche l’Italia (viaggio che ripeterà nel gennaio 1925), tenendo varie conferenze a Firenze e a Roma per un pubblico composto prevalentemente da membri della Società Teosofica: a tradurre i suoi discorsi pubblici è Roberto Assagioli (1888-1974), e a dirigere il suo primo gruppo di discepoli è Angela Alt, che radunerà presto un nutrito gruppo di teosofi suoi simpatizzanti. Nel 1926 torna in India, dopo un’assenza durata diciassette anni, e muore inaspettatamente il 5 febbraio 1927 a Delhi, in India.

 

Alla morte del fondatore l’Ordine Sufi si divide in diverse branche, inizialmente (1927-1948) dirette dal fratello di Hazrat Inayat Khan, Maheboob Khan (1887-1948), poi (1948-1958) dal cugino Mohammed Ali Khan (1881-1958), e in seguito (1958-1967) dal fratello minore del fondatore, Musharaff Moulamir Khan (1895-1967). Il primo dei due figli maschi del fondatore – oltre a due figlie femmine: Noor-un-Nisa (1914-1944) e Khair-un-Nisa (nata nel 1919, poi chiamatasi Claire Harper) -, Vilayat Inayat Khan (1916-2004), guida l’Ordine Sufi Internazionale fino al 2000. Prima di morire nel 2004, nel 2000 consacra come Pir e suo successore il figlio maggiore Zia Inayat Khan, attuale leader del movimento. L’Ordine Sufi insiste sull’unicità di Dio, della legge, della religione e della verità per tutti gli uomini, e anche sull’esistenza di un primo “libro sacro” a tutti comune: il “manoscritto della natura”, cui tutte le tradizioni attingono. Le tecniche di meditazione, la danza e la musica derivano (non senza qualche variazione) dalla tradizione Nizani.

 

B.: Su Hazrat Inayat Khan, si vedano: Biography of Pir-o-Murshid Inayat Khan, East-West Publications, Londra 1979; Elisabeth de Jong-Keesing, Inayat Khan. A Biography, East-West Publications, Londra 1979; e Wil van Beek, Hazrat Inayat Khan: Master of Life, Modern Sufi Mystic, Vantage Press, New York 1983. Fra i testi di Pir Hazrat Inayat Khan, in trad. it. per le Edizioni Mediterranee (Roma), si segnalano: In un roseto d’Oriente (1988); La divina sinfonia (1989); La purificazione della mente (1991); La cura della salute (1992); Il misticismo del suono (1994); L’alchimia della felicità. Il vero scopo della vita (1996); e per Il Punto d’Incontro, Vicenza, una diversa edizione de Il misticismo del suono (1992).

 

Il Movimento Internazionale Sufi

 

Movimento Sufi Internazionale in Italia e Ticino

c/o Dahnya Bozzini-van Gelder

Rongie

6713 Malvaglia (Ticino – Svizzera)

Tel. e fax: 0041-91-8702685

E-mail: dwhbvg@sirline.com

URL: www.movimentosufi.com; (internazionale:) www.sufimovement.com

 

Dopo la morte di Hazrat Inayat Khan, il maschio secondogenito Hidayat Inayat Khan (Pir-o-Murshid Hidayat Khan), nato nel 1917 e tuttora vivente, dopo avere studiato musica a Parigi fonda il Movimento Sufi che – con l’Ordine Sufi Internazionale del fratello Vilayat Inayat Khan, e con altre organizzazioni (fra cui si segnala, in particolare, la Società Sufi islamica Ruhaniat, non presente in Italia ma ora affiliata al quartiere generale del Movimento Sufi) – costituisce una delle branche dell’Ordine Sufi fondato da Pir Hazrat Inayat Khan.

 

La dottrina e le pratiche sono simili a quelle dell’Ordine Sufi Internazionale, costituendo un tentativo di sintesi fra i mondi orientale e occidentale, riassumibile negli scopi formali del movimento ispirati da Hazrat Inayat Khan: a) realizzazione e divulgazione della conoscenza dell’unità, religione dell’amore e della saggezza, così che ogni pregiudizio di fede e credo possa scomparire; b) scoperta della luce e potenza latenti nell’uomo, il segreto di tutte le religioni, la potenza del misticismo e l’essenza della filosofia; c) aiutare ad avvicinare i due poli opposti del mondo – Oriente e Occidente – in modo che si possa formare una Fratellanza Universale. Come si può notare, vi è una spiccata tendenza all’unione fra tutte le religioni, e a tale scopo lo stesso Pir Hazrat Inayat Khan creò il Culto Universale, nel quale tutte le grandi religioni si incontrano e che dispone di un rito proprio, a simboleggiare come la luce divina sia arrivata all’umanità attraverso di esse.

 

La parte centrale di questo messaggio – definito “sufismo universale” – è invece un “sentiero interiore”, ovvero una scuola esoterica alla quale si accede per iniziazione, alla quale Hazrat Inayat Khan ha affidato alcuni esercizi spirituali e degli insegnamenti non resi pubblici. Il quartier generale del Movimento Sufi è a L’Aja, in Olanda, e il vice-presidente è il dottor H. Johannes Witteveen, nato nel 1921 a Zeist – in Olanda – ed ex ministro delle finanze olandese. In Italia è presente dal 1995; la direzione per l’Italia è in Ticino, ma la responsabile visita frequentemente l’Italia, dove si tengono regolari iniziative ed è pubblicata la rivista Gemme sul sentiero.

 

B.: Di H. Johannes Witteveen, in trad. it., si veda Sufismo Universale. Armonizzando Oriente e Occidente, Mediterranee, Roma 1998; cfr. pure Hazrat Inayat Khan in Italia, Movimento Sufi, Malvaglia (Svizzera) 1994.

 

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Gli Ahmadi

 

Movimento Ahmadiyya nell’Islam (Ahmadiyyat)

Indirizzo del referente italiano in via di verifica

URL (internazionale:) www.alislam.org

 

Mirza Ghulam Ahmad (1835-1908) nasce e vive per la maggior parte della sua vita a Qadian nel Punjab (per cui i suoi seguaci sono talora chiamati qadiani). Negli anni 1880-1884 scrive i quattro volumi dell’opera Barahin-i-Ahmadiyya, destinata a mostrare la superiorità dell’Islam sulle altre fedi, e particolarmente sul cristianesimo, accolta con favore da numerosi ambienti islamici. Nel 1889 annuncia di avere ricevuto una rivelazione divina che gli consente di formare una comunità e di ricevere omaggi particolari dai suoi seguaci. La rottura con numerosi ambienti musulmani ortodossi avviene nel 1891, quando Ahmad proclama di essere insieme il masih (messia, lo stesso titolo dato a Gesù dai musulmani) e il Mahdi atteso per i tempi ultimi per restaurare la fede. Ahmad si scontra insieme con i musulmani ortodossi, che lo dichiarano eretico, con i cristiani e con gli indù (in particolare con il movimento Arya Samaj) con cui continua a polemizzare, proclamandosi nello stesso tempo messia e avatar. Ahmad muore a Lahore il 26 maggio 1908 ed è sepolto a Qadian, tuttora un importante luogo di pellegrinaggio per il movimento.

 

Il suo successore, il medico Maulvi Nooruddin (1841-1914), assume il titolo di khalifah, con ampi poteri, e organizza la prima missione in Occidente (in Inghilterra), ma non può prevenire una divisione nel movimento, che esplode dopo la sua morte, avvenuta il 13 marzo 1914. La maggioranza della comunità segue la Jama’at-i-Ahmadiyya (Movimento Ahmadiyya), con sede a Rabwah, nel Pakistan, presieduta dal figlio di Ahmad, Mirza Bashirud Mahmud Ahmad (1889-1965), cui succedono con il titolo di khalifah Mirza Nasir Ahmad (1909-1982) e Mirza Tahir Ahmad (nato nel 1928).

 

Una minoranza, con sede a Lahore, si riunisce nella Ahmadiyya Anjuman Isha’at-e-Islam Lahore (Società Ahmadiyya per la diffusione dell’Islam di Lahore), più vicina all’Islam tradizionale, che si sforza di diffondere in Occidente con un minimo di adattamento e con minore insistenza sulla natura messianica del fondatore (che pure rimane venerato). Il Movimento Ahmadiyya, maggioritario, continua a insistere sull’autorità del khalifah e a sottolineare maggiormente le pretese messianiche del fondatore Mirza Ghulam Ahmad, attaccando aspramente come “infedeli” non solo i cristiani, gli indù e gli atei, ma anche i musulmani che non accettano l’Ahmadiyyat come l’unico “vero e reale” Islam.

 

Con l’emergere dello Stato islamico del Pakistan – e l’espansione mondiale del Movimento Ahmadiyya – inizia un’epoca tormentata, segnata dalle reiterate richieste di gruppi musulmani ortodossi perché entrambe le comunità Ahmadiyya (compresa la più moderata) siano dichiarate “minoranze non islamiche” dal governo pakistano, cosa che comporta gravi conseguenze rendendo impossibile agli ahmadi (che contano nelle loro fila numerosi uomini politici e docenti) la conservazione delle cariche pubbliche e degli incarichi di insegnamento. Dopo una serie di disordini, la dichiarazione del carattere non islamico degli ahmadi è pronunciata dal Parlamento con una modifica costituzionale nel 1974 durante il governo di Zulfikar Ali Bhutto (1928-1979), e successivamente confermata. Negli ultimi anni le controversie, le accuse e le persecuzioni si sono intensificate.

 

Il conflitto con il Pakistan ha provocato accuse secondo cui gli ahmadi sarebbero in contatto con i servizi segreti indiani e anche con quelli russi. Nel frattempo, gli ahmadi maggioritari di Rabwah (e, in misura minore, il gruppo minoritario e moderato di Lahore) continuano a diffondersi con un proselitismo attivo non solo in Asia ma (soprattutto) in Africa, in Indonesia, negli Stati Uniti e in Europa. Il gruppo maggioritario è presente in 143 paesi e dichiara oltre dieci milioni di membri.

 

In Italia – dove Ahmadiyyat dichiara di essere nella fase di organizzazione delle proprie attività – i membri sono un centinaio, provengono da origini diverse (in particolare Africa e Asia) e si trovano in varie città, da Bolzano a Napoli. Il presidente del gruppo è Intisar Malik, di Roma, che succede nell’aprile 2000 ad Abdul Fatir Malik. Ahmadiyya si autofinanzia grazie alle offerte dei membri, è impegnato in attività di natura umanitaria soprattutto in Africa, dove ha costruito e gestisce scuole, ospedali e altre strutture. La sede internazionale principale di riferimento per gli ahmadi italiani è a Londra, dove un canale televisivo satellitare trasmette programmi religiosi.

 

Gli ahmadi si considerano seguaci dell’Islam nella sua forma più vera e più autentica, e rigettano con vigore qualunque accusa di eresia e di deviazione. Non c’è dubbio, tuttavia, che pur utilizzando – a proposito del messaggio che avrebbe ricevuto da Dio – prevalentemente l’espressione ilham (che designa le rivelazioni concesse ai santi e ai profeti), che sarebbe ancora accettabile in un contesto islamico tradizionale, da un punto di vista sostanziale Mirza Ghulam Ahmad rivendichi per le sue rivelazioni l’autorità immediata e infallibile che dovrebbe contraddistinguere soltanto il Corano. I musulmani ortodossi accusano inoltre Mirza Ghulam Ahmad di considerarsi un “nuovo profeta”, mentre nessun profeta potrebbe sorgere dopo Muhammad, e in ogni caso non potrebbe apportare una nuova legge. È vero che all’interno dell’Islam le discussioni intorno al termine “profeta” hanno prodotto risultati tutt’altro che univoci, e che anche fra gli ahmadi non mancano posizioni più sfumate sul ruolo del fondatore, ma non c’è dubbio che Mirza Ghulam Ahmad si sia presentato come “il Messia Promesso” e un “profeta”, sia pure attraverso la formula più sfumata “nello stesso tempo profeta e seguace del Santo Profeta” (cioè di Muhammad).

 

Nello stesso tempo Mirza Ghulam Ahmad si presenta ai cristiani come “la seconda venuta del Cristo”, non nel senso che in lui sia ritornato sulla Terra Gesù di Nazareth, ma piuttosto volendo significare che il nuovo messia è venuto “nello spirito e nella potenza di Gesù”. Per sostenere questa pretesa gli ahmadi considerano loro dovere confutare il cristianesimo, negando il suo elemento centrale: la dottrina della morte e della resurrezione di Gesù Cristo. Elaborando su un testo della quarta Sura del Corano (in cui si afferma di Gesù che “né lo uccisero né lo crocifissero, bensì qualcuno fu reso ai loro occhi simili a lui”: Cor., 4:157), e su una serie di leggende popolari islamiche e indiane, gli ahmadi ritengono che Gesù sia stato crocifisso, ma non sia morto sulla croce. Deposto dalla croce ancora vivo, sarebbe stato guarito attraverso l’applicazione di un unguento prodigioso, marhan-i-Isa, la cui formula sarebbe stata comunicata per rivelazione ai discepoli, e si sarebbe recato a predicare il Vangelo alle tribù perdute di Israele in Afghanistan e nel Kashmir. In quest’ultimo paese sarebbe morto all’età di 120 anni, e ancora oggi la sua tomba può essere visitata a Srinagar.

 

L’atteggiamento dell’Ahmadiyyat a proposito di Gesù è ambivalente, perché da una parte si attaccano come leggende alcuni elementi importanti della dottrina che lo riguarda, mentre dall’altra lo si venera come maestro e profeta. Un altro aspetto che ha provocato dissensi fra ahmadi e ambienti musulmani ortodossi è la dottrina di Mirza Ghulam Ahmad sulla guerra santa (jihad), che Ahmad dichiarava “vietata” per i tempi moderni, e destinata a essere sostituita integralmente dalla predicazione pacifica dell’Islam. E a causa di questa dottrina che Ahmad è stato spesso accusato di essersi posto al servizio della potenza coloniale inglese, anche se la sospensione o l’abbandono della jihad va piuttosto letta all’interno della complessiva predicazione degli ahmadi. Infine, un elemento importante di contrasto è l’esclusivismo del Movimento Ahmadiyya, che – come accennato – arriva fino a considerare “infedeli” anche i musulmani che non ne accettano il messaggio, e che spiega la struttura gerarchica del gruppo, l’enfasi sul ruolo del khalifah e il proselitismo particolarmente attivo, causa a sua volta di conflitti e persecuzioni.

 

B.: Sulle origini: Yohanan Friedmann, Prophecy Continuous. Aspects of Ahmadi Religious Thought and Its Medieval Background, University of California Press, Berkeley – Los Angeles – Londra 1989. Tra le fonti primarie, in trad. it.: Hazrat Mirza Ghulam Ahmad, La filososofia degli insegnamenti dell’Islam, Islam International Publications, Islamabad – Tilford (Surrey) 1987.

 

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Una religione di origine islamica: i Bahá’í e i loro scismi

 

Assemblea Spirituale Nazionale dei Bahá’í d’Italia

Via Stoppani, 10

00197 Roma

Tel.: 06-8079647

Fax: 06-8070184

E-mail: segreteria@bahai.it

URL: www.bahai.it

 

Il movimento Bahá’í nasce nel contesto dello shaykhismo di Ahmad al-Ahsa’i (1753-1826), una corrente sciita minoritaria caratterizzata da forti toni messianici. Mirza Alì Muhammad (1819-1850), un mercante del’Iran meridionale, entra in contatto con lo shaykhismo e nel 1844 dichiara di essere il Promesso Qa’im dell’Islam sciita e la “Porta” (tale è appunto il significato della parola araba bab) della conoscenza divina, nell’attesa di una successiva manifestazione divina, il misterioso Man Yuzhiruhu’lláh (“Colui che Dio manifesterà”). La rivendicazione di Alì Muhammad è accettata da uno dei principali leader dello shaykhismo (che nel frattempo aveva conosciuto diverse divisioni interne), Mulla Muhammad Husayn Bushru’i (1814-1849), e il nuovo movimento babi si diffonde per tutto l’Iran, suscitando crescenti attese apocalittiche. Nel 1848, a Tabriz, il Bab proclama pubblicamente il proprio rango di Promesso Qa’im dell’Islam. Adotta un calendario basato su diciannove mesi di diciannove giorni, tuttora usato dai Bahá’í. Accusato di eresia e ripetutamente incarcerato, Alì Muhammad è giustiziato a Tabriz nel 1850, mentre, malgrado i loro tentativi di difesa, diverse migliaia di babi sono trucidati.

 

Nonostante la persecuzione, che si intensifica dopo un fallito attentato contro lo Shah, nel 1852, per mano di due giovani babi, il movimento continua sotto la guida di Mirza Yahya Nuri – più tardi chiamato “l’alba dell’eternità”, Subh-i-Azal (1830?-1912) -, che era divenuto babi senza passare dallo shaykhismo. Subh-i-Azal, il quale afferma che il Bab lo aveva designato suo successore, si reca in esilio volontario a Baghdad per seguire il fratellastro Mirza Husayn Ali Nuri, più tardi chiamato “gloria di Dio”, Bahá’u’lláh (1817-1892), anch’egli divenuto babi senza passare dallo shaykhismo, che vi era stato esiliato nel 1853. Nel 1863 Bahá’u’lláh, che aveva acquistato grande prestigio nella comunità, alla vigilia di un ulteriore esilio da Baghdad a Istanbul, si proclama di fronte ai familiari e ai più fidati discepoli il Man Yuzhiruhu’lláh, la “manifestazione divina” preannunciata dal Bab. Nel 1866 – mentre il luogo di esilio è passato da Istanbul a Edirne – la proclamazione è resa pubblica, e rifiutata da Subh-i-Azal, il quale dichiara di avere ricevuto una rivelazione divina indipendente dando così vita al movimento – minoritario – degli Azali, mentre coloro che la accettano prendono il nome di Bahá’í (“gente di Bahá”, riferito a Bahá’u’lláh).

 

In seguito a questi fatti, le autorità turche deportano Bahá’u’lláh ad Akka (Akko) e Subh-i-Azal a Famagosta. A partire dal 1868 dal suo esilio palestinese Bahá’u’lláh compone il libro delle leggi chiamato Kitábu’l-Akdas e guida il movimento che si espande verso l’India, l’Egitto, la Russia. Nel 1892 gli succede il figlio Abbas Effendi (Abdu’l-Bahá, 1844-1921), anche se non tutti ne riconoscono l’autorità, in particolare il fratellastro del nuovo leader, Muhammad-Ali (1853?-1937), il quale muove contro di lui una campagna di critiche – talora diffamatorie – e tenta di contestargli il diritto alla successione, stabilito da Bahá’u’lláh nel Kitab-i-Ahd, il suo testamento. Muhammad-Ali trova peraltro un numero molto limitato di seguaci. Abdu’l-Bahá, grazie agli sviluppi politici in Turchia, può lasciare il confino e far costruire nel 1909, a Haifa, un edificio attorno al quale si è poi sviluppato il Centro Mondiale della fede Bahá’í, che espande con successo anche in Occidente (Europa, Canada, Stati Uniti).

 

Gli succede nel 1921 come “Custode della Causa di Dio” il nipote Shoghi Effendi (1897-1957). I tentativi di contestare la validità della sua successione, stabilita da Abdu’l-Bahá nelle Alvah-i-Vasaya, il suo testamento, non hanno alcun esito concreto. Nel 1925 un tribunale religioso egiziano sentenzia che i Bahá’í appartengono a una religione distinta e diversa dall’Islam. Alla scomparsa di Shoghi Effendi (1957), che muore a Londra improvvisamente senza lasciare figli né avere designato successori, non è nominato un nuovo “Custode”, e la comunità è guidata collegialmente da un gruppo di ventisette personaggi eminenti nella comunità, a suo tempo nominati da Shoghi Effendi “Mani della Causa” con funzioni di protezione e insegnamento della fede, fino al 1963, quando l’autorità passa alla neoeletta Casa Universale di Giustizia, un corpo di nove membri di sesso maschile eletti ogni cinque anni dai membri delle varie assemblee spirituali nazionali, che ha sede a Haifa.

 

La decisione di non nominare un nuovo “Custode” è contestata dal dirigente americano Charles Mason Remey (1874-1974), il quale – dopo essere stato una delle ventisette “Mani della Causa” – nel 1960 si proclama secondo “Custode”. La sua defezione ha però scarso seguito. Nonostante questa crisi interna, la fede Bahá’í ha continuato un’importante espansione anche nel Terzo Mondo attraverso una serie di “piani” pluriennali e la costruzione di templi. Oggi la Casa Universale di Giustizia guida 181 Assemblee Spirituali Nazionali con oltre cinque milioni di membri. Solo l’uno per cento di questi membri (contro il 71,3% nel 1928) si trova nel mondo islamico, dove spesso – particolarmente in Iran – i Bahá’í sono oggetto di persecuzioni.

 

Presenti fin dagli inizi del XX secolo, prima della Seconda guerra mondiale i Bahá’í in Italia sono poche decine. In seguito il loro numero va gradatamente aumentando, fino alla formazione di un’Assemblea Spirituale Nazionale Italo-Svizzera nel 1953 e di un’Assemblea Spirituale Nazionale Italiana nel 1962, riconosciuta dallo Stato Italiano nel 1966. Attualmente sono presenti circa 2.800 fedeli, sparsi in un totale di quattrocento località sul territorio. Fra i Bahá’í italiani spicca la figura di Alessandro Bausani (1921-1989), iranista e islamista di fama internazionale.

 

Il messaggio Bahá’í è rigorosamente monoteistico: c’è un unico Dio, che si rivela attraverso le sue “manifestazioni”. La credenza in Bahá’u’lláh come manifestazione di Dio è il centro della fede Bahá’í, e la differenzia dall’Islam agli occhi sia dei musulmani sia degli stessi Bahá’í. Questi ultimi considerano peraltro tutte le cosiddette “religioni universali” come rivelate dall’Unico Dio di tutti gli uomini e quindi come parte di un continuo processo evolutivo, che comporterà l’instaurazione della “Grande Pace”, un’epoca caratterizzata dalla pace permanente e dall’unità del genere umano fondate sui principi spirituali e sulle istituzioni dell’Ordine Mondiale di Bahá’u’lláh, e da un continuo progresso della civiltà umana sotto la guida di future manifestazioni di Dio.

 

I Bahá’í affermano che la “Grande Pace” sarà instaurata con l’aiuto di Dio e per gli sforzi degli uomini e quindi non ne attendono inattivi l’avvento. Si prodigano per contribuire al necessario progresso sociale e spirituale dell’intero genere umano. Quanto al progresso sociale seguono un complesso programma riformista, riassumibile per comodità espositiva in alcuni principi fondamentali: unità dell’umanità; libera ricerca della verità; unità e progressività delle religioni; armonia fra scienza e religione; uguaglianza fra uomo e donna; eliminazione delle forme estreme di ricchezza e di povertà; abolizione di tutti i pregiudizi; educazione obbligatoria per tutti; soluzione spirituale dei problemi economici; adozione di una lingua “ausiliaria” internazionale; pace mondiale grazie a un governo mondiale; libertà spirituale dell’uomo; equilibrio fra la civiltà materiale e quella spirituale.

 

Quanto al progresso spirituale i Bahá’í si prodigano per la diffusione di virtù umane come l’amore, la saggezza, il coraggio, e quindi per la rigenerazione spirituale e morale dell’umanità. Essi affermano che la “Grande Pace” sarà preceduta da una “Pace Minore”, una pace politica realizzata dagli stati del mondo, indipendentemente dagli sforzi dei Bahá’í, il che spiega il loro particolare interesse per le Nazioni Unite, con cui collaborano attivamente. Mentre alcuni fra i primi Bahá’í conservavano atteggiamenti mistici che derivavano dalla tradizione sciita iraniana, oggi i Bahá’í si distinguono piuttosto per un equilibrio fra gli aspetti razionali e mistici della loro fede e per un forte impegno per il conseguimento della pace e per il progresso sociale ed economico di tutti i popoli.

 

I Bahá’í non osservano le prescrizioni dietetiche dell’Islam, anche se rinunciano all’alcool e hanno un periodo annuale di digiuno. Come accennato, i Bahá’í seguono il calendario babi (solare, mentre quello musulmano è lunare) di diciannove mesi (i cui nomi derivano da una preghiera sciita); ciascun mese consta di diciannove giorni, chiamati ognuno con il nome di uno dei mesi; quattro o cinque giorni intercalari sono inseriti fra il diciottesimo e il diciannovesimo mese. In nove giorni di festa maggiori i Bahá’í si astengono dal lavoro e organizzano celebrazioni aperte a tutti. La festa del diciannovesimo giorno, il più importante momento di riunione delle comunità locali Bahá’í, (normalmente celebrata il primo giorno di ogni mese), è invece di regola aperta ai soli Bahá’í. La festa consta di una parte devozionale (preghiera e lettura degli scritti Bahá’í), una organizzativa e una sociale.

 

I Bahá’í hanno come obblighi principali la preghiera e il digiuno. Per la preghiera individuale quotidiana il fedele può scegliere tra tre diverse forme (preghiera di mezzogiorno; tre brevi preghiere al mattino, nel pomeriggio e alla sera; una preghiera più lunga da recitare in qualunque momento durante la giornata). In primavera, nel mese di Ala, vi è un periodo di digiuno di diciannove giorni, dall’alba al tramonto, simile nella sostanza al ramadân islamico. La tradizione Bahá’í dà un’importanza senz’altro minore ai rituali collettivi: il matrimonio è molto semplice, e così la preghiera per i morti. Il consenso dei genitori è necessario per il matrimonio, ma i giovani Bahá’í scelgono liberamente il loro coniuge e non vi è una tradizione di matrimoni combinati. Il pellegrinaggio è un obbligo spirituale nei limiti delle possibilità pratiche, ed è oggi molto diffuso e importante verso Haifa e Akka. I Bahá’í sono orgogliosi del carattere democratico della loro organizzazione religiosa e del contributo dato a cause umanitarie in tutto il mondo.

 

B.: Per un’introduzione generale: Margit Warburg, I Baha’i, Elle Di Ci, Leumann (Torino) 2000. Di Bahà’ù’llàh, in trad. it. della Casa Editrice Bahà’ì (Roma), si vedano: Il Kitàb-i-Aqdas. Il Libro Più Santo (1995); Tavole di Bahà’ù’llàh rivelate dopo il Kitàb-i-Aqdas (1981); e Le Parole Celate di Bahà’ù’llàh (19932). Di Abdu’l-Bahà si veda: Ultime Volontà e Testamento di Abdu’l-Bahà, trad. it., Casa Editrice Bahà’ì, Roma 1987; e di Shoghi Effendi: Dio passa nel mondo, trad. it., Casa Editrice Bahà’ì, Roma 1968. Altre introduzioni generali sono quella di Alessandro Bausani, Saggi sulla Fede Bahá’í, Casa Editrice Bahá’í, Roma 1991; e John E. Esslemont, Bahà’u’llàh e la Nuova Era, Casa Editrice Bahà’ì, Roma 19987. Fra le opere di carattere storico: William S. Hatcher e J. Douglas Martin, The Bahá’í Faith. The Emerging Global Religion, Harper & Row, San Francisco 1984; Peter Smith, The Babi and Bahá’í Religions. From Messianic Shi’ism to a World Religion, Cambridge University Press, Cambridge-New York-Melbourne 1987; Joel Bjorling, The Bahá’í Faith. A Historical Bibliography, Garland, New York-Londra 1985; Christian Cannuyer, Les Bahá’ís, Peuple de la Triple Unité, Brepols, Turnhout (Belgio) 1987; Juan R. I. Cole, Modernity & the Millennium. The Genesis of the Baha’I Faith in the Nineteenth-Century Middle East, Columbia University Press, New York 1998; Christopher Buck, Paradise and Paradigm. Key Symbols in Persian Christianity and the Baha’i Faith, State University of New York Press, Albany (New York) 1999. Cfr. infine Peter Smith, A Concise Encyclopedia of the Bahá’í Faith, Oneworld, Boston 2000.

 

Remey Society

 

(i pochi seguaci italiani si riuniscono in case private)

 

La Remey Society è una delle diverse branche che non ha accettato, dopo la morte di Shoghi Effendi, la fine del ruolo di “guardiano” della fede Baha’i e ha seguito il già citato Charles Mason Remey come secondo “guardiano”. Dal 1957 al 1961 Remey – una delle “Mani della Causa” – cerca di convincere i suoi colleghi che un “guardiano” è necessario. Nel 1960 si proclama “guardiano”, e nel 1961 è espulso dalla Fede Baha’i. Nel 1968 organizza i suoi seguaci in un’organizzazione chiamata Fede Mondiale Baha’i Ortodossa. Si ritira a Firenze, dove muore nel 1974.

 

Un italiano, Giuseppe Pepe, che era stato il segretario di Remey ed era stato da lui adottato con il nome di Joseph Pepe Remey, si occupa del suo funerale, e per qualche tempo diversi piccoli scismi Baha’i negli Stati Uniti -in particolare quello guidato da Leland Jensen – lo considerano un possibile nuovo leader, posizione che finisce per rifiutare. Consiglia piuttosto di seguire come nuovo “guardiano” Donald Harvey (†1991), contro le pretese dei rivali Joel B. Marangella, Rex King e Leland Jensen. I seguaci di Marangella mantengono il nome di Fede Mondiale Baha’i Ortodossa, mentre la Remey Society raduna i seguaci di Harvey, alla morte del quale (1991) Jacques Soghomonian è diventato il quarto “guardiano”. La Remey Society – le cui credenze fondamentali sono simili alla Fede Baha’i – ha poco più di settecento membri e corrispondenti tra Stati Uniti, Canada, Francia e Italia (dove peraltro non esiste una presenza organizzata).

 

B.: Francis C. Spataro, Charles Mason Remey and the Baha’i Faith, Carlton Press, New York 1987.

 

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Un movimento di origine islamica: Subud

 

Subud

 

Indirizzo italiano in corso di verifica

URL: www.subud.org/italy

 

Muhammad Subuh Sumohadiwidjojo (1891-1987), chiamato dai suoi discepoli “Bapak” o “Pak” (“padre”) nel 1925 a Giava ha un’intensa esperienza spirituale, scorgendo di notte una sfera più brillante del sole e sentendosi pervaso da un’infinita luce e da una grande gioia. È il primo latihan, un’espressione tradotta come “esercizio spirituale”, che però non comporta nessuna attività da parte di chi si “esercita”, tranne un completo abbandono alla volontà di Dio. Dopo tre anni, Subud riceve una rivelazione secondo cui deve condividere la sua esperienza spirituale con altri. All’inizio i risultati sono modesti, ma dal 1933 il successo in Indonesia è sufficiente perché possa essere formata un’organizzazione.

 

Nel 1947 è adottato il nome Subud (originariamente scritto Soeboed), dalle parole sanscrite susila (vita secondo la volontà di Dio), budhi (potere divino, che esiste in ogni essere umano) e dharma (legge o volontà di Dio). Subud arriva in Occidente nel 1956, e si diffonde soprattutto fra i discepoli di Gurdjieff, particolarmente in Inghilterra, dove Subuh soggiorna per diversi mesi nel 1957. Da allora – pur senza proselitismo organizzato – Subud diventa un movimento mondiale. Non si presenta come una religione, ma come un modo di vivere più pienamente l’esperienza che ognuno ha della propria religione. Subuh ritiene di non avere mai abbandonato l’Islam, anche se gli ambienti musulmani conservatori dissentono, e sottolineano la presenza di influenze di tipo induista e buddhista, mentre gli studiosi accademici (contestati dal movimento) sottolineano la radice tipicamente giavanese (sia pre-islamica sia islamica) di Subud e lo paragonano ad altri movimenti religiosi giavanesi come Sumarah e Pangestu.

 

Dopo la morte di Subuh nel 1987, l’autorità nel movimento è esercitata da un gruppo di “Ausiliari Internazionali” (International Helpers), che sono sostituiti da altri a rotazione e che sono i soli autorizzati a conferire il titolo di “ausiliari” a coloro che “aprono” nuove persone al latihan. Da una World Subud Association dipendono Comitati nazionali, come quello italiano. Subuh suggeriva ai membri di fondare nuove imprese, promettendo in caso di successo di donare il venticinque per cento dei profitti al movimento, e la pratica continua dopo la sua morte. Una separata organizzazione chiamata Susila Dharma International Association coordina le importanti attività caritative del movimento, ed è riconosciuta come organizzazione non governativa dalle Nazioni Unite. In Italia, Subud è presente dagli anni 1970. È in allestimento una sede nazionale a Firenze; per il momento Subud ha sede presso il presidente pro tempore, a rotazione. I membri sono una cinquantina; i gruppi principali sono a Milano, Roma, Firenze, Perugia e Siena.

Tutto il Subud ruota intorno all’esperienza del latihan, che è così descritta: “Quando il latihan inizia, dovete rimanere rilassati, con le mani lungo i fianchi. È una buona cosa chiudere gli occhi (…). Non dovete cercare di pensare, ed nemmeno di non pensare; in effetti, non dovete fare nulla tranne rilassarvi e ricevere quanto verrà a voi. Che cosa può succedere nel latihan? Alcuni muovono la testa, il corpo, le gambe o le braccia. Alcuni camminano, alcuni danzano, alcuni corrono e alcuni si sdraiano. Alcuni fanno rumore, alcuni parlano, alcuni gridano, alcuni cantano, alcuni ridono e alcuni piangono (…). La cosa più importante di tutte è ricordare che c’è gente che rimane semplicemente in piedi e non avverte nulla (…). Ciascuno riceverà a tempo debito quello che è meglio per lui” (Edward Van Hien, What is Subud?, presso l’Autore, Londra 1968, pp. 47-48).

 

Il latihan non si improvvisa, ma richiede una preparazione che dura per alcuni mesi; solo al termine avviene l’opening da parte di un helper autorizzato dal movimento. Una parte del latihan chiamato testing consiste nel porre una domanda rilevante per la propria vita e quindi lasciare che il latihan, che porterà con sé la risposta, cominci. L’idea centrale dell’abbandono alla volontà di Dio deriva da una tradizione mistica islamica facilmente riconoscibile. La terminologia è però in parte tratta dal buddhismo e dall’induismo, e il movimento ritiene che la pratica del latihan porti anche a un miglioramento di tutte le relazioni sociali, particolarmente di quelle familiari. Subuh insegnava che l’atteggiamento mentale della coppia prima e durante il concepimento avrà influenza sul carattere futuro del concepito, e i “bambini Subud” sono spesso ritenuti più calmi ed educati della media. Il latihan serve anche come preparazione alla morte, perché, nel corso della pratica, si sperimenta il contatto con il proprio centro interiore che continuerà a esistere quando la mente e i desideri non esisteranno più.

 

B.: Edward Van Hien, What is Subud?, presso l’Autore, Londra 1968; Robert Lyle, Subud, Humanus Limited, Tunbridge Wells (Kent) 1983; Matthew Barry Sullivan, Living Religion in Subud, Humanus Limited, Turnbridge Wells (Kent) 1991. Uno studio accademico – peraltro criticato dal movimento – è quello di Anton Geels, Subud and the Javanese Mystical Tradition, Curzon Press, Richmond (Surrey) 1997.