Se vogliamo sognare un ruolo militare dell’Italia

Forze_armatePagine di difesa, 20 febbraio 2008

di Andrea Tani

Mi piacerebbe partecipare alla discussione aperta nel forum e intitolata La politica non li lasci soli, di Luigi Caligaris se avessi le idee chiare. E non ce l’ho. O meglio ho chiaro che tutta la faccenda è maledettamente complicata e che non esistono risposte semplici a tutti i quesiti esposti.

Meno che meno risposte semplici che soddisfino le nostre legittime ansie di persone vicine – in genere lo siamo tutti, e quelli che non lo sono comunque interessate alla tematica, sennò non scriverebbero su PdD – al mondo militare, alle sue regole, ai suoi simbolismi, significati e dogmi. E alle ragioni concrete del suo esistere.

Cominciamo col dire che quello che stiamo facendo o non facendo in Afghanistan non corrisponde né alle regole né ai dogmi e neppure alle ragioni concrete dello stato dell’arte. Non si è mai vista una coalizione “alleata“che si divide sistematicamente in una campagna di guerra – pochi dubbi sul fatto che l’Afghanistan lo sia – su una questione così fondamentale come stare al fuoco o nelle retrovie, al sicuro. Perché di questo si tratta, essenzialmente.

La ragione per cui questo sconcertante orrore avviene, non solo da parte dagli italiani storicamente e caratteriologicamente ambigui (forse perché troppo furbi)- quelli della neutralità della prima fase della I GM seguita dalla dichiarazione di guerra alle potenze che erano ancora formalmente le sue alleate (nessuno aveva denunciato la Triplice Alleanza, o sbaglio?) e della non belligeranza della Seconda, bissata tre anni dopo da un rovesciamento di fronte compiuto in poco più di un mese, dall’8 settembre alla dichiarazione di guerra alla Germania, nonché quella dell’ultima micro furbata dell’intervento in Irak, un degno epigone in sedicesimo di quei lontani esempi – ma anche dai molto più coerenti francesi e tedeschi (gli spagnoli contano poco, vanno a rimorchio e scontano lo zapaterismo) – la ragione, dicevo (e tiro il fiato), ha una motivazione assai complessa che sconta le infinite ambiguità delle campagne centro-asiatiche americane seguite al Nine Eleven e precedute dalle nuove esigenze geopolitiche scaturite dalla caduta del Muro, dall’ascesa della Cina e dal prevedibile ritorno di fiamma gran-russo. Scusate se è poco, quattordici righe solo per enunciarlo.

Sullo specifico a me sembra, in soldoni, che l’Europa continentale non abbia ancora deciso se i suoi interessi coincidono ancora con quelli del prepotente ma tutto sommato rassicurante alleato d’Oltreoceano (che sarà anche muscolare ma si espone per tutti, paga col sangue e assicura al mondo intero un decente grado di sicurezza) all’ombra della quale la globalizzazione procede senza troppi danni e tutti facciamo i nostri affari, oppure se sia venuto il momento di entrare nell’agone geopolitico e cominciare ad affermare sul serio le proprie specificità e le proprie convenienze. Ammesso che qualche europeo le conosca con chiarezza, cosa sulla quale è permesso di dubitare.

Non potendo o volendo scegliere, i carolingi tengono i piedi in due staffe e finiscono per tenerli su nessuna, ottimo sistema per rovinare al suolo. Noi ci accodiamo, ovviamente, felici di lasciare ad altri il nostro destino, come spesso abbiamo fatto per ignoranza, insipienza, incultura e superficialità.

In quale paese, infatti, una elezione così decisiva e storica come quella che ci attende non vede alcun argomento di politica estera, per non parlare di sicurezza e difesa, nei programmi dei maggiori partiti? Per ora abbiamo certezza di ciò nelle anticipazioni del PD; si può essere certi che anche la controparte seguirà, nella sostanza se non nelle chiacchere.

Da noi le antinomie pace-guerra, militari-antimilitari, Resistenza-Guerre Mondiali (non parliamo poi delle campagne fra il 1920 e il 1940, praticamente dimenticate sotto il nick name di “guerre fasciste” mentre sono state combattute dalle forze armate italiane e vi sono morti dei soldati, non degli agit prop politici), Vietnam dalla parte dei nostri maggiori alleati (gli Usa) – oppure da quella del Nord Vietnam spalleggiato dalla potenza che si preparava a invaderci anche con l’uso di armi nucleari (l’Urss), prestigio e popolarità delle forze armate versus sevizio civile molto più nobile e accettato sotto il profilo cultural mediatico – insomma tutte queste contrapposizioni che conosciamo e ci macerano il fegato sono talmente a sfavore dell’illusione che solo noi continuiamo a coltivare, da far nitchianamente concludere che il nostro Dio – la militarità, la fierezza di essere soldati, l’onore di servire, il dovere, la cameraderie, la Patria intesa come la intendiamo noi e tutto il resto – è proprio morto. Per le nostre generazioni e per sempre, temo.

In questo paese, naturalmente. In altri non è così, in altri ancora è proprio la stessa cosa o anche peggio, come in Germania, devastata moralmente da un peccato originale che solo in parte è ascrivibile alle forze armate, le quali nel complesso della storia tedesca e prussiana si sono comportate splendidamente, ma è anatema il solo pensarlo. Non è un caso che la crisi attanaglia soprattutto gli Dei Caduti, ovvero gli sconfitti dalla competizione per l’egemonia planetaria del secolo XX, Germania, Giappone, Russia, e Italia, che ora però fa finta di essere un’italietta fondata sul lavoro e non sulle baionette e di non curarsi più di tanto di questi giochi da grandi.

E’ dura, ma è così. Guardiamo la realtà come è e non come ci piacerebbe che fosse. Non vorrei fare sfoggio di cinismo o di sconforto, ma l’equazione complessiva che descrive e racchiude lo stato della militarità italica e relativi ideali e concretezze, rapportato alle condizioni e al sentire di questo Paese, è tale da non consentire di coltivare soverchie illusioni. Un tempo l’esercito difendeva il Piave e conquistava imperi che stabilivano la gerarchia delle potenze mondiali (giusto o sbagliato che fosse, era così).

Oggi salvaguarda la pace in giro per il mondo – almeno così c’è scritto nei documenti ufficiali; ci fosse scritto “salvaguarda l’egemonia occidentale guidata dagli Stati Uniti d’America a beneficio proprio e tutto sommato anche del mondo nel suo complesso” sarebbe più giusto e anche più comprensibile – e ripara le orrende lacerazioni che il malgoverno nostrale ha inferto al proprio tessuto connettivo, come ha fatto immediatamente dopo l’Unità, ma solo per un periodo transitorio, mentre ora non se ne vede la fine.

In tali condizioni mi domando che senso abbia spaccare il capello in quattro per decidere se il Paese ha abbastanza gratitudine e considerazione per i suoi militari. Il Paese ha altri problemi, deve evitare di sprofondare nella monnezza, letteralmente. Non solo quella materiale, che forse è la più risolvibile.

Se vogliamo veramente continuare a vagheggiare (anzi no, basta con gli scoramenti), meglio “sognare” un ruolo militare dell’Italia, dobbiamo forse salire di livello e pensare al contributo italiano a una militarità di ordine superiore, europea o transatlantica, vedremo.

Tutto sommato è quello che fecero generazioni fa i militari pontifici o borbonici o granducali. Occorre concentrarsi per mantenere una credibilità professionale – ed è quello che la nostra defence community nazionale sta facendo molto bene, mi pare – e lavorare per estendere lo scope of work.

Come ha fatto l’industria della difesa, che non considera più il proprio mercato domestico come l’unico e neanche il principale e tutto sommato non si deprime per ciò, anzi, ha trovato un ruolo più congeniale alle proprie ambizioni e capacità dove raccoglie allori non marginali. Niente ha più successo del successo, anche per dar un significato al proprio operare e recuperare autostima.

(A.C. Valdera)