Quei giudici sessantottini che hanno dimenticato come si fa giustizia

toghe_rosseL’Occidentale, 1 gennaio 2009

La tirannia dei valori

di Giovanni Formicola

La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha dichiarato irricevibile il ricorso presentato da varie associazioni contro l’autorizzazione, concessa dai giudici italiani, a lasciar morire di fame e di sete la povera Eluana Englaro. Questo a Strasburgo.

A Roma, la Cassazione, dopo aver inaugurato la via giudiziaria all’eutanasia, aveva a sua volta dichiarato inammissibile il ricorso della Procura Generale contro il decreto della Corte di Appello di Milano che dava esecuzione al diritto ad uccidere stabilito per sentenza legiferante.

Sempre a Roma, la Corte Costituzionale aveva anch’essa dichiarato inammissibile il conflitto di giurisdizione sollevato da entrambe le Camere contro la sentenza della Cassazione, che aveva preteso di «riscrive[re] «la norma sull’eutanasia, in spregio al principio della divisione dei poteri», come felicemente si è espresso un autentico maestro del diritto quale il prof. Gazzoni.

Insomma, a Berlino chissà, ma né a Roma né a Strasburgo si trova un giudice che sappia unicuique suum tribuere, dare a ciascuno il suo, secondo il diritto naturale e anche quello positivo. Cioè, nella fattispecie, riconoscere il diritto alla vita e alle cure proprio naturalmente della persona umana e sancito anche da Costituzione, leggi e convenzioni internazionali, arginando l’arbitrio e la prepotenza di chi lo nega contro la legge scritta e non scritta.

Solo che stavolta non è contro il re di Prussia o di chissaddove che s’invoca un giudice che renda giustizia e non se ne lavi le mani; non è un potere politico fattosi tiranno come Creonte il colpevole della violazione del diritto e dei diritti, ma sono stati gli stessi giudici, e quindi la ricerca di chi gli riconosca il giusto, da parte del contadino di turno, è vana per definizione.

Ed infatti, egli rimane impotente e trova come risposta uno sprezzante silenzio, che si ammanta del latinorum da azzeccagarbugli e si sostanzia nella privatizzazione della questione.

I «giudici» di Strasburgo si sono meravigliati che tra i ricorrenti non vi fosse alcun parente della vittima, e quelli di Roma hanno negato alla parte pubblica – che rappresenta il popolo costituito in corpo politico che agisce in giudizio attraverso il Pubblico Ministero – il diritto d’interloquire in una vertenza che riguarderebbe secondo loro solo le parti private (singolarmente concordi nella richiesta di far morire di fame e di sete la povera Eluana), e come tale non tollera neppure l’intervento del Parlamento, altro procuratore della società strutturata come corpo elettorale, lasciando campo libero al sostanziale arbitrio del «giudice che fa la legge», secondo l’immortale formula ripresa da Carl Schmitt [1888-1985].

E questo giudice che fa la legge, e anche la politica, come mi sono già permesso di scrivere, è culturalmente un sessantottino. Che da giovane faceva il pretore d’assalto e destrutturava l’ordine socio-economico all’insegna dei «valori» dell’uguaglianza assoluta e della socializzazione, contro i «non-valori» della proprietà privata e dello sfruttamento di classe ad essa intrinseca; oggi destruttura l’ordine socio-culturale, il costume tradizionale e l’intera impalcatura del diritto, in nome dei «valori» dell’io desiderante e contro il «non-valore» delle norme repressive della libertà libertaria e libertina.

E per «valore» qui intendiamo «ciò che vale» secondo un punto di vista e quindi secondo una specifica posizione, non «ciò che è» vero, buono, giusto, bello secondo l’ordine naturale. Un surrogato positivistico – e relativistico: «a porre i valori è […] l’individuo umano nel suo totale libero arbitrio puramente soggettivo» (C. Schmitt) – della metafisica tradizionale, che ha bisogno di acquisire «validità», secondo la logica propria del valore, e cioè essere attuato senza mediazioni, per cui «il non-valore non gode di alcun diritto di fronte al valore, e quando si tratta di imporre il valore supremo nessun prezzo è troppo alto» (C. Schmitt).

Già nel 1920, il medico Alfred Hoche [1865-1943] e il giurista Karl Binding [1841-1920], pubblicavano un volumetto dal titolo insieme eloquente e inquietante, se non agghiacciante, Il permesso di annientare le vite prive di valore vitale (la sottolineatura è mia). Circa vent’anni dopo – non intendo proporre alcuna relazione di causalità tra i due eventi – fu intrapresa nel III Reich la cosiddetta Aktion T4, cioè l’eutanasia coatta e di Stato delle «vite prive di valore vitale» e in quanto tali giudicate un peso per la Nazione.

Non intendo neppure paragonare il caso della povera Eluana alla mostruosità dello sterminio nazionalsocialista dei disabili. Provo solo a indicare i rischi immanenti ad una «filosofia dei valori» come sopra intesi, e alla logica che le è intrinseca: dal relativismo di ogni valutazione, valorizzazione e conseguentemente transvalutazione (per effetto del sempre possibile rovesciamento di ogni punto di vista), all’aggressività nel dare validità attuale ai «valori» così configurati.

È, cioè, dietro l’angolo, la «tirannia dei valori» soggettivi, soprattutto se a farsene portatrice (dei «valori») è la corporazione dei giudici, che non deve rendere conto delle sue valorizzazioni e transvalutazioni a nessun popolo sovrano di cui sia mandataria e da cui sia giudicata.

Fuori da una prospettiva metafisica e di ordine e diritto naturali – mediata dalla funzione del legislatore sul piano della certezza delle norme di diritto positivo, mediazione tanto delicata e difficile da aver condotto a mitizzarne la figura archetipica – rimane solo la «tirannia dei valori» di volta in volta validati, magari con la forza dell’esercizio come potere di una funzione pubblica che si rende insindacabile.

Il giudice «che s’impegna nel diventare un attuatore immediato di valori dovrebbe sapere ciò che fa. Dovrebbe riflettere sull’origine e sulla struttura dei valori, senza prendere alla leggera il problema della tirannia dei valori e della loro attuazione immediata.

Dovrebbe farsi un’idea chiara della recente filosofia dei valori, prima di decidersi a diventare valutatore, transvalutatore, rivalutatore o svalutatore, e di annunciare, in quanto soggetto portatore di valori e dotato di senso del valore, le posizioni di un ordine gerarchico di valori soggettivo o anche oggettivo nella forma di sentenze dotate di valore legale» (C. Schmitt, 1959). Soprattutto se con tali sentenze decide di dare, a richiesta, il permesso di annientare per fame e per sete una vita giudicata priva di valore.

(A.C. Valdera)